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‘2022’ Category

Un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca sui sarcomi dei tessuti molli. È la SarcRace, la prima corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per le patologie tumorali rare.

L’appuntamento è domenica 18 settembre 2022, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva è prevista una cerimonia di premiazione, alla quale seguirà un piccolo ristoro offerto dagli sponsor. Ospiti d’onore saranno l’attore Raoul Bova ed il giornalista Filippo Roma che, con la loro presenza, sosterranno le persone affette da sarcomi dei tessuti molli.

SarcRace è organizzata grazie al patrocinio del Municipio IX di Roma Capitale e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e realizzata grazie all’Associazione Sarknos.

Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro, cifra che verrà interamente devoluta per attività di ricerca. Per info e iscrizioni: sarcrace@sarknos.it

Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del dott. Sergio Valeri – Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore dalla complessa gestione clinica e per i loro familiari.

La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.

Di solito la fine dell’anno è il momento dei bilanci, è quel momento nel quale ci si concede un pò il tempo per andare ad analizzare quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. A volte non è che ci si concede il tempo, ma è il tempo stesso che suona la campanella interiore che ci dice che l’ora è finita e che quindi prima di passare alla lezione successiva è necessario chiudere i quaderni e i libri. Converrete con me che, almeno a volte, quello della campanella non sia proprio un suono così piacevole.
Insomma il momento del bilancio quando arriva, arriva. E il momento della pubblicazione di quest’ultimo numero di Condivisione Democratica, è proprio un momento nel quale fare un bilancio.
Un bilancio, ma forse anche più di uno: un bilancio dell’anno in corso, un bilancio degli ultimi 10 anni – 2 lustri! Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a tagliare questo traguardo – un bilancio del lavoro che si sta svolgendo, un bilancio della vita che si sta conducendo, così come la si sta conducendo, un bilancio sulle proprie aspettative e di come le abbiamo alimentate, un bilancio delle cose che ci danno soddisfazioni e di quelle che ci portano frustrazioni.

Ho imparato ai tempi della scuola la Partita Doppia.
Mi sono reso conto che per molti questo concetto è o considerato astruso – e quindi ignorato – oppure è banalizzato – e quindi abbandonato – in particolare per questi ultimi vorrei far sapere che la Partita Doppia non dice che c’è un elenco “del Dare” e un elenco “dell’Avere” – assolutamente no, quella è la Partita Semplice! – ma ci sono contemporaneamente movimenti che riguardano il Dare e l’Avere, nell’aspetto Economico e nell’aspetto Patrimoniale. Contemporaneamente. Detto così sembra difficile – e potrebbe: in effetti il primo a descriverlo fu Luca Pacioli un Matematico (nel suo “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita” nel 1494) – ma non disperate assolutamente, perché proverò a cercare altre parole.
La Partita Doppia non è un elenco di soldi che si devono Dare e di soldi che si devono Avere, questo, come dicevo, è la Partita Semplice, con una “contabilità” così non verrebbe fuori il valore intrinseco delle cose. Non emergerebbe quanto vale quello che abbiamo comprato: ipotizziamo di aver pagato il macellaio per la sua merce, diciamo 100€, ma non è riportato il valore di quello che abbiamo avuto in cambio. 100€ di carne risponderebbero i più. Beh no, perché quella carne che abbiamo pagato 100€ probabilmente finirà nella cella frigorifera, e potrò consumarla un pò per volta da solo o tutta in un’unica grigliata con gli amici oppure ancora, se la cella frigorifera si dovesse rompere o se dovessi attendere troppo, potrebbe anche andare tutta a male e finire direttamente nel cestino dell’umido. Tutto questo, quello che avviene dopo “l’azione dell’acquisto”, dove verrebbe riportato, se avessi solamente segnato il “movimento” ma non il “valore”?
Più chiaro ora?
Il bilancio non è solamente un elenco di elementi, di soldi, di immobili, di merce, ma la loro storia, di come si siano mossi all’interno dell’azienda. Come i singoli movimenti economici si siano trasformati in qualcosa di diverso, di come siano diventati degli uffici, dei capannoni – quindi degli elementi del Patrimonio – o la merce che nei capannoni è stoccata, di come siano diventati dei contratti di lavoro, di come siano riusciti a creare delle plusvalenze, quel “valore aggiunto” economico che in ultima analisi è la ragion d’essere di una azienda, di una impresa.
Ecco il bilancio, anzi i bilanci, che vorrei fare e che vorrei proporre, sono focalizzati sul “Patrimonio” e sul “Valore Aggiunto”. Su quegli aspetti che rimangono comunque, perché duraturi, e quegli aspetti che danno il senso di quello che si sta facendo, anche se possono essere effimeri.
Tracciamo una linea quindi, e facciamo i nostri ragionamenti.
Permettetemi poi un gioco di parole sciocco: nella vita, a differenza dei bilanci aziendali, i valori Patrimoniali non sono Immobili, ma mobili, in continuo movimento evoluzione, ma così come i primi anche i secondi, non sono acquisiti “per sempre”, proprio come un bellissimo edificio, senza manutenzione può diventare in un tempo breve, un luogo abbandonato, dimenticato. Lo abbiamo visto (o potete vederlo, a seconda se questo sia il primo o l’ennesimo articolo che leggete su questo numero) negli altri articoli: luoghi un tempo pieni di vita, possono “deperire”, diventare dei veri ruderi.
Invece di focalizzarmi sul fatto che si chiude un’era voglio quindi focalizzarmi su quello che resta “dopo”. Dopo Condivisione Democratica, ad esempio, resta questo bel gruppo che è la redazione e l’amicizia che si è formata al suo interno – questo direi che sia davvero da considerarsi un patrimonio – e resta la voglia di condividere e di comunicare in modo efficace – forse questo lo possiamo considerare un pò come patrimonio e un pò come “Valore Aggiunto” – resta l’idea che si possa far bene, alzando l’asticella della difficoltà di quello che si vuole fare – questo è sicuramente un elemento del patrimonio.
Sotto la linea che abbiamo tracciato io vedo quindi tanti elementi positivi che possono essere ben investiti in un’altra realtà, che ne possa prendere le sfide, il “testimone” ideale, per poterle portare avanti.

Quando decidiamo di organizzare un viaggio, che sia stato programmato da tempo o che si colga l’occasione dell’ultimo minuto, ci troviamo di fronte ad alcune scelte da fare: innanzitutto la destinazione, il mezzo per raggiungerla, quando partire, con chi partire, cosa portare nella nostra valigia! Un “viaggio” è un’esperienza progettata e immaginata, carica di aspettative, desideri e curiosità nei confronti dei percorsi che ci troveremo ad affrontare. Decidere di progettare un viaggio significa partire per poi tornare. E come nella vita, nonostante tutti i preparativi, sarà proprio il viaggio ad arricchirci, meravigliarci e stupirci.

Talvolta si decide di partire per trovare nuovi stimoli, perché è arrivato il momento di cambiare. Il cambiamento, qualunque esso sia, caratterizza l’esistenza ed è sempre positivo. Significa mettersi in gioco, evolversi, trasformarsi, volgere lo sguardo verso nuovi orizzonti. Porta con sé anche il timore nei confronti del nuovo. E proprio per tale ragione che quando decidiamo di attuare un cambiamento è necessario abbandonare ciò che è stato sino a quel momento e accogliere nuove idee e spunti di riflessione, che ci porteranno verso un percorso ancora sconosciuto.

[ Autore: Tom & Anna | Ringraziamenti: https://pixnio.com | Copyright: public domain (CC0) ]

Abbandonare non significa dimenticare né tantomeno
cancellare quel che abbiamo costruito. Quando la spinta verso un progetto –
lavorativo o di vita che sia – si esaurisce, resta comunque il frutto
dell’esperienza che abbiamo vissuto. Semplicemente talvolta arriva un momento
in cui è necessario cambiare per evolversi. È importante fare tesoro
dell’esperienza vissuta, sentita, e costruita, e arricchirla con nuove idee e
progetti. In realtà non si tratta di un abbandono vero e proprio ma di una fase
di trasformazione. E certamente ci vuole coraggio! Perché cambiare significa
abbandonare la “zona di confort” e mettersi in gioco, progettare un nuovo
“viaggio”.

Per intraprendere un percorso verso il cambiamento occorre
anche abbandonarsi un po’, ovvero lasciarsi andare, lasciar fluire emozioni
e sentimenti.
Abbandonarsi come atto di fiducia verso il nuovo e – nel
nostro caso – soprattutto nei confronti di chi continuerà a leggerci e a condividere
esperienze, emozioni, vissuti, sensazioni, racconti dai mille colori e
sfumature, con attenzione e sensibilità verso temi di attualità e con lo
sguardo sempre rivolto alla diffusione della cultura a 360 gradi. Conoscere ci
permette di comprendere, sentire e fare parte della cultura dei nostri tempi e
di quelli passati.

Con coraggio, ci accingiamo dunque a preparare la
nostra valigia
, nella quale porteremo chi eravamo e chi siamo, ciò che
abbiamo condiviso e affrontato, ma anche tanta energia, curiosità, ricerca di
novità e tanto cuore.

Sino ad ora abbiamo percorso insieme un fantastico viaggio,
ricco di storie, persone, colori e fantasia, e siamo pronti a ripartire per
affrontarne uno nuovo. Dunque, torneremo a riflettere su temi di attualità e su
fatti e persone dei giorni nostri e di quelli passati; solleticheremo la
curiosità e offriremo spunti di riflessione su tematiche sociali, momenti di
vita quotidiana, emozioni e sentimenti, che appartengono a ciascuno di noi. In
fondo, ognuno è parte e fa parte della cultura di questo tempo che, attraverso
il legame con il passato, la tradizione, la memoria storica, costituisce quel
terreno su cui si fonda il futuro, nostro e di chi verrà dopo di noi.

E voi, cosa mettete nella vostra valigia?

“L’uomo non può tornare mai allo
stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio. In verità, il viaggio
attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico. Ovunque vada è
la propria anima che sta cercando. Per questo l’uomo deve poter viaggiare.”

   
Andrei Arsenyevich Tarkovsky

Chissà perché, non appena è stato scelto il
tema di questo ultimo numero di Condivisione, ultimo in questa veste s’intende,
in attesa di una sua mutazione a breve per una nuova lunga vita, mi è venuto
subito in mente accanto ai luoghi dell’abbandono e a quelli dell’anima, quello
dei “non luoghi”.

Espressione coniata dall’antropologo e filosofo
francese Marc Augé per indicare quei luoghi omologati della globalizzazione, riferiti non
a spazi sociali organizzati in grado di favorire relazioni, ma tipicamente
luoghi di transito, privi di radicamento, come aeroporti, stazioni ferroviarie,
centri commerciali, supermercati, stazioni di servizio, grandi catene
alberghiere ma anche campi di accoglienza per profughi, solo per citarne i
principali.

E la rete, i social ? Sono sospesi tra luoghi e
non luoghi poiché promettono una compagnia illusoria, come dice Augè, l’ubiquità
e l’istantaneità legate a Internet non possono fare una società, neanche
virtuale.

Mi chiedevo se Condivisione fosse un luogo o un
non luogo, per noi sicuramente un luogo del cuore, ma l’obiettivo della sua
trasformazione è quello di farlo diventare un luogo anche per i suoi lettori,
una comunità che accolga e favorisca l’interazione sociale, ancorché virtuale.

(Immagine dal Web)

Quindi abbandoniamo un non luogo, per
ritrovarci in un quasi luogo, sperando che diventi un vero luogo. Intanto
godiamoci i luoghi dell’estate che conquisteremo attraversando i non luoghi,
tra pandemie, guerre e crisi planetarie…. e
quindi uscimmo a riveder le stelle.

Di solito si arriva a questi “anniversari” dicendo “10 anni e non sentirli”. Forse si potrebbe anche provare a parafrasare quell’aforisma di Wilde che enunciava che “La tragedia della vecchiaia non è di essere già vecchi, ma di essere ancora giovani.”
E invece non è così: sono passati 10 anni da quando è nata Condivisione Democratica e li sento tutti. Ne sento il peso, ne sento la fatica.

All’inizio fu un’idea di Gerry, non solo una scintilla ma una vera intuizione, il dare voce alla necessità di avere uno spazio di discussione, di rappresentazione delle idee, un laboratorio di idee – ancora non andava di moda chiamare “Think Tank” queste cose. Gerry col suo entusiasmo ha coinvolto un gruppo di amici e così è nata questa Testata Giornalistica. Non un blog, non un sito, non una pagina Facebook, ma una vera e propria testata giornalistica, che è molto più vincolante, che è un progetto molto più “ambizioso” – diciamolo.

In questi 10 anni sono cambiate tante cose – non mi dilungo a fare l’elenco, ma esorto a pensare a cosa è accaduto nel frattempo, partendo proprio da quel 2012 arrivando fino ad oggi, sia sul lato “pubblico”, “internazionale e nazionale”, ma anche “privato e personale” – e questo progetto ci sta un pò “stretto”. Quella necessità di rappresentazione delle idee, di darle forma, di elaborarle e di condividerle, non è venuta meno, anzi è aumentata, è accresciuta e si è piano piano strutturata in modo diverso. Quindi è arrivato il momento di dare una nuova veste a tutto.
E’ ancora presto per raccontare “cosa sarà”, ma sicuramente è arrivato il momento di salutare “cosa è stato”.
Condivisione Democratica per me è stato un grande progetto, è stato un bel laboratorio, dove sono cresciute nuove esperienze e nuove alchimie. Potrei perdermi nei ringraziamenti – l’elenco delle persone sarebbe davvero lunghissimo, con le persone che sono nella redazione o ne hanno fatto parte in questo lungo percorso, le persone che hanno dato un contributo scrivendo proprie testimonianze e anche le persone che ho avuto l’opportunità di intervistare – e quindi mi limito a dire che ho scoperto, in questo progetto, quale fosse il vero significato di “Condivisione”. A parole forse lo conosciamo tutti, ma “sperimentarlo” ha fatto la differenza. Dentro di me.
Sono stati 10 anni bellissimi.
Ma, come amo citare spesso, “The Best is yet to come”.

Ranzie Mensah, l’affascinante principessa del popolo Fanti del Ghana, è una raffinata interprete di musica gospel e soul dalla straordinaria capacità di coinvolgere ed emozionare il pubblico con la sua voce profonda, calda e sensuale.
Nei suoi concerti musica, espressività corporea e danza si mescolano armoniosamente, sfiorando la pièce teatrale.
Grazie all’intensità delle sue performance e alla sua forte presenza scenica, Ranzie ci avvolge in una miscela preziosa di suoni e parole dalle sfumature variopinte.

Ciao Ranzie, quanto sono importanti le radici culturali per te?

Le radici culturali hanno importanza per l’essere umano come le radici sono importanti per l’albero.
L’albero ha bisogno delle radici per crescere ma deve anche spiegare i propri rami nella direzione opposta, verso il sole.
Se l’albero dovesse “chiudersi” in se stesso, ovvero cercare di crescere nella stessa direzione delle sue radici, morirebbe.
Nello stesso modo l’essere umano, pur riconoscendo le proprie radici, deve aprirsi all’altro, al mondo, all’intero universo, altrimenti la sua realtà si atrofizzerebbe e la sua cultura morirebbe.

Tu hai condiviso il palco con Miriam Makeba che ha portato in giro per il mondo la storia delle sofferenze ed ingiustizie del vostro paese d’origine, che cosa ha rappresentato per te “Mama Africa”?

Mama Africa” è stata il mio mentore.
A parte la sua voce e la sua musica, ciò che rappresenta per me è la capacità e il coraggio di un artista di usare la sua arte per difendere i principi dell’uguaglianza e della giustizia anche a costo di sacrificare i vantaggi della propria carriera o della propria vita.
Questo è ciò che ha fatto Miriam Makeba.
E’ stata esiliata dal proprio paese per oltre 30 anni per la sua lotta contro l’apartheid, è stata dichiarata persona non gradita in diversi paesi del mondo per le sue dichiarazioni contro l’ingiustizia che regnava nel Sudafrica e la sua brillante carriera negli States è stata stroncata negli anni sessanta per la sua unione con il black panther Stokeley Carmichael.
Miriam Makeba è morta sul palcoscenico a Castel Volturno cantando ancora una volta per la giustizia.
Io vorrei seguire questo esempio nella mia vita di cantante.

Durante la tua lunga carriera ti sei esibita in numerosi concerti in Africa, Europa e Nord America, qual è stato il live più emozionante?

E’ veramente difficile dirlo perché sono stati molti i concerti emozionanti. Sicuramente ha significato molto per me cantare per i premi Nobel per la Pace all’auditorium di Santa Cecilia a Roma.
La pace è un argomento che mi interessa particolarmente e ogni volta che sono chiamata a cantare per questo ideale mi sento onorata!

Con la tua musica ed i tuoi progetti interculturali sei da sempre socialmente impegnata a diffondere messaggi di pace, ce ne vuoi parlare?

Il mio stesso percorso di vita è stato interculturale.
Sono nata nel Ghana. All’età di 5 anni siamo andati a vivere negli Stati Uniti e poi in Inghilterra per poi trasferirci in Zambia e poi in Uganda. Frequentavo scuole internazionali dove i miei compagni provenivano dai 5 continenti.
Ho viaggiato in tanti paesi ed ho voluto dedicare la mia espressione artistica all’avvicinamento dei popoli perché oltre le differenze abbiamo tante cose in comune.
Nelle scuole con i bambini da 3 a 12 anni presento progetti interculturali dove racconto l’Africa attraverso le fiabe, la danza, il canto, i proverbi, le ninna nanne perché queste espressioni sono comuni a tutti popoli e culture della terra.

I bambini sono il nostro futuro ed è importante prepararli a questo intreccio di culture e di popoli che ormai è un processo inarrestabile.
In una scuola materna ho chiesto ai bambini che mi guardavano con tanta curiosità: “Bambini, secondo voi, perché
Ranzie è nera?”
Una bambina di tre anni mi ha risposto: “Perché hai mangiato troppo cioccolato!”.
Questa purezza, comune a tutti i bambini del mondo, è un patrimonio, un ispirazione costante per me!

Nel luglio 2021 ho fondato La Melagrana, una Cooperativa sociale composta da mediatori interculturali e altri partner, di cui sono Presidente.
L’obiettivo comune è quello di promuovere la dignità della persona al di là di ogni distinzione etnica, di colore, religione, cultura, lingua o status sociale, offrendo assistenza ai cittadini stranieri con servizi sociali, sanitari ed educativi e promuovendo la consapevolezza interculturale all’interno del tessuto sociale del nostro territorio.
Le parole chiave sono: integrazione, inclusione, benessere e cooperazione.

Quanto ritieni sia importante stimolare l’interesse dei giovani alla musica ai fini di una formazione culturale e spirituale?

Frederick Nietzsche diceva “Senza musica, la vita sarebbe un errore”.
Io dico che sarebbe un grave errore non introdurre la musica nell’educazione giovanile.
Numerosi grandi filosofi e pensatori, da Einstein a Kennedy, hanno riconosciuto che la musica va oltre il semplice intrattenimento.
Secondo la cultura africana, la musica eleva e purifica lo spirito, celebra la vita, è un ringraziamento per tutto ciò che abbiamo e ci permette di raccontare la nostra storia alle generazioni future.
Eric Anderson dice: “E’ soltanto introducendo i giovani alla grandezza della letteratura, dell’arte drammatica e della musica e all’emozione della grande scienza che possiamo offrire loro tutte le potenzialità che sono dentro lo spirito umano e permettere loro di avere visioni e di sognare”

Il fascino di un luogo influenza la rappresentazione, la nutre di contenuti e ne viene a sua volta impregnato, dove ti piacerebbe esibirti?

Mi piacerebbe esibirmi all’Apollo Theater di Harlem perché è il tempio della musica dei neri che sono stati portati in America dall’Africa come schiavi, cantando le loro sofferenze e le loro speranze.
E’ il tempio dei “negro spirituals”, del “gospel”, del “soul”, del “blues” e del “jazz”.
Dice
Paul Whiteman : “Il jazz è arrivato in America trecento anni fa in catene.”

Paolo Conte è rimasto talmente affascinato dalla tua voce che ti ha fatto interpretare il suo brano “Don’t Break My Heart“, come è stato l’incontro con questo grande cantautore? C’è stata da subito una grande intesa tra noi. Io ero innamorata della sua musica e del suo stile inconfondibile.
Dopo un suo concerto a Caracalla, é venuto a sentirmi all’anfiteatro di Asti, abbiamo cenato insieme e successivamente mi ha invitato a casa sua.
Paolo Conte è un personaggio grande ed umile, con una profonda conoscenza e sensibilità per la musica.

Ho nel cuore “Just a Dream”, uno dei tuoi preziosi album. Ci racconti come è nato ?

Il CD “Just a Dream” è nato innanzitutto con un desiderio di fare una raccolta di alcune delle più belle canzoni del repertorio gospel.
Il gospel è la musica della mia anima.
Con il gospel mi spoglio di ogni cosa e esprimo quello che sono veramente: sono innamorata del divino, della trascendenza (ma con i piedi per terra). “Just a Dream” è anche il lavoro della maturità e attraverso questo lavoro lascio al mondo tutto ciò che desidero esprimere.

Quale messaggio vorresti che fosse trasmesso attraverso la tua musica?

Il grande filosofo e scrittore Leo Tolstoy diceva “La musica è la stenografia dell’emozione”.
Attraverso la mia musica voglio soprattutto trasmettere l’emozione e la gioia della vita in tutte le sue sfaccettature.
Vorrei essere al servizio degli altri quando canto, rimuovere i brutti pensieri, portare un briciolo di speranza, innalzare le anime, proporre un sorriso e avvicinare i popoli.
Queste parole del
Dr. Max Bendiner esprimono bene il concetto: “La musica potrebbe compiere la più grande di tutte le missioni: potrebbe essere il legame tra le nazioni, le razze … potrebbe unire ciò che è sconnesso e portare la pace a ciò che è ostile”.

Progetti futuri?

Ad agosto sarò in Canada, a Toronto per lo ‘Yensa Festival. A Celebration of Black Woman in Dance’, i cui principi guida sono la solidarietà, la sorellanza e l’eccellenza artistica.
Home page – Yensa Festival
Questa manifestazione, ideata e prodotta da mia figlia Lua Shayenne con la sua Dance Company, vuole dare risalto al talento e alla creatività delle artiste danzatrici e coreografe di colore che provengono da ogni parte del mondo.
Sarà un susseguirsi di dibattiti, incontri, workshop e performance.
Il tutto in una prospettiva femminile.

https://youtu.be/uiVruv4kKBM

Abbandonare non è lasciare, lasciare è un’azione pensata, calibrata, ponderata… Abbandonare è un atto viscerale, un’esigenza inevitabile e improrogabile. Un’azione imposta alla persona o all’oggetto che la subisce. Lasciare qualcuno, invece, prevede un confronto, uno scambio dialettico, prevede l’atto di informare l’altro di ciò che sta accadendo.

E’ stano come si possa soffrire per la paura dell’abbandono e allo stesso tempo essere affascinati dai luoghi desueti, è come guardarla in faccia la paura e forse volerci trovare anche un lato positivo, il fascino, l’attrazione.

Anche abbandonare parti di sé è necessario, perché cambiamo, maturiamo, invecchiamo, evolviamo, perdiamo pezzi e ne acquisiamo di nuovi, non abbiamo più le stesse esigenze, ma soprattutto prendiamo consapevolezza di noi stessi e realizziamo quanto sia necessario, a volte vitale, abbandonare modalità, abitudini, legami, pensieri e persone che ci hanno accompagnato da sempre. E’ un processo dolorosissimo, crudele, destabilizzante e l’apice della sofferenza è nel momento in cui si abbandona senza riuscire a riempire, sostituire, ripartire.

C’è un luogo abbandonato che mi ha particolarmente affascinato, a cui ultimamente ripenso molto, tanto da riguardare le numerose foto che ho scattato.
Le sensazioni che mi dà sono tante, tantissime, forse perché in tutti i suoi aspettati immortala esattamente questo preciso momento della mia vita.

Lascio parlare le foto, che esprimono più di mille parole….vi presento l’Ex Orfanatrofio della Bufalotta, all’interno della riserva della Marcigliana, a Roma Nord.

Nella città in cui vivo c’è un luogo incredibilmente affascinante e misterioso: il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia, venti padiglioni e un parco di 125 mila metri quadri.

Nato nel 1937 come Ospedale Psichiatrico Nazionale e chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, legge promulgata dal dott. Besaglia, neurologo e psichiatra, che pose al centro la questione dei diritti umani e ricollocò questi individui come pazienti, e non più come detenuti. Certo, questa legge vide anche una massiccia contrazione delle spese pubbliche, ma preferisco pensare che non fosse la priorità. Alcuni padiglioni rimasero ancora attivi come A.S.L. fino al 1991, quando in città venne inaugurato il nuovo ospedale, dopodiché fu definitivamente abbandonato a sé stesso (e agli appassionati di urbex). Naturalmente non è aperto al pubblico, ma questo non è mai stato un freno per i numerosi gruppi di curiosi, che spesso arrivano anche da fuori confine, attraversando campi, orti e reti metalliche per potersi introdurre all’interno e tuffarsi nella magia dell’esplorazione. Questo luogo ripaga di tutti gli sforzi. Addentrandoci troviamo ancora le vasche, i lettini, i tavolini autoptici, un’infinità di libri e articoli scientifici, le cinghie di contenimento, fino alle schede dei pazienti e ai registri, scritti a mano, con quella calligrafia così anacronistica. Sorvolando (anche se un po’ contro la volontà) sul fatto che tutto il materiale contenente dati sensibili andasse conservato in maniera più idonea, archiviato con maggiore attenzione o distrutto, rimane quel senso di incredulità e fascinazione a trovarsi circondati da oggetti come questi.

Sì chiamano luoghi abbandonati o luoghi fantasma,
eppure non manca mai qualche amante che faccia loro il filo.  C’è sempre una forza di attrazione che ci
spinge a voler esplorare ciò che un tempo era vitale e attivo, e la
fascinazione che subiamo di fronte a questo passato pieno di interrogativi,
pronto a raccontarci storie incredibili e che in fondo è un po’ in nostro
terriccio, da dove le nostre radici traggono nutrimento (e si spera anche
qualche insegnamento).

Ripercorrendo i corridoi del vecchio manicomio,
contemplando la violenza che il passare del tempo può esercitare anche sulle
cose inanimate, e respirando quell’odore di muffa e di marciume, in questa
cornice dove il passato è sospeso, e dove le pareti sembrano voler soffocare il
grido degli orrori vissuti, è difficile non fantasticare su come vivessero la
quotidianità tra quelle mura medici e infermieri, ma soprattutto i pazienti. Quale
fosse l’ingrediente in eccesso nella ricetta, che li facesse passare agli occhi
delle persone comuni come “pazzi”?! E se fossero stati solo dei sognatori
cronici? Vittime inghiottite dal mondo Onirico? Uomini e donne riluttanti ad
una realtà troppo complicata? O semplicemente persone in qualche modo scomode,
da dover privare della propria libertà… E mi domando se anche la nostra psiche
non sia un po’ come uno di questi luoghi abbandonati. Un universo infinito, da
esplorare con cautela, ma dal quale non farsi inghiottire completamente,
mantenendo il ponte con la realtà, un luogo in cui avventurarsi in punta di
piedi , con la giusta attrezzatura e poi uscirne, possibilmente integri.

Secondo Jung, fondatore di uno dei due
approcci principali della psicoanalisi, il centro della nostra psiche è
l’inconoscibile sé, che se esplorato e indagato può diventare una straordinaria
forma di libertà e autodeterminazione. Come si può farlo vi chiederete voi? In
un modo bellissimo: attraverso i sogni. Quelle immagini folli e apparentemente
senza senso che si sviluppano quando dormiamo e lasciamo andare le redini. Il linguaggio
dell’inconscio, e quindi dei sogni, non è facilmente fruibile al conscio perché
non è razionale, si esprime attraverso immagini, metafore e simboli,
esattamente come fa il linguaggio artistico.

E cosa succede quando questo luogo non lo
esploriamo e lo consegniamo all’incuria? Quando diventa il luogo dei potenziali
irrealizzati? Quando non siamo armonizzati con il sé? Ebbene c’è il rischio di
sviluppare sintomi, inquietudine o addirittura nevrosi. Ma analizzando questo luogo,
spesso dimenticato, abbiamo una guida per realizzare il nostro destino.

Penso all’inconscio come ad un luogo
abbandonato perché i sogni mirano ai nostri lati oscuri, non a ciò che già conosciamo,
non sono l’espressione dei nostri desideri e delle nostre paure. Associare o
proiettare eventi accaduti nei sogni a cose che conosciamo nella realtà può
rivelarsi incorretto o impreciso. I sogni hanno una struttura ed un linguaggio
a sé e ciò può rende complicato fare un’autoanalisi.

Abbiamo detto che è importante comunicare con
il proprio inconscio attraverso i sogni, ma sappiamo bene che non è così facile
registrarli prima ancora di analizzarli e tradurli. Molte persone fanno fatica
a ricordare i propri sogni. Ci vuole un po’ di allenamento, in effetti, ma
anche l’impegno di scriverli non appena svegli. Perché questi, al mattino, con
il primo raggio di luce che contempliamo, 
svaniscono come una folata di vento.

Una buona tecnica sarebbe quella di prendere
un foglio e dividerlo in due, come si faceva con i temi alle superiori. Nella
parte sinistra registriamo il sogno e nella parte destra annotiamo le nostre
associazioni, quello che il sogno ci ha evocato. E bisogna farlo nel modo meno
razionale possibile. Lasciare la mente libera di vagare e lasciar parlare le
immagini, come se fossimo di fronte al Trittico del Giardino delle Delizie di
Hieronymus Bosch. Opera complessa, sublime ed assolutamente folle agli occhi
severi della razionalità.

I sogni sono spontanei e imprevedibili eppure
tutti presentano una struttura identificabile nella quale si organizzano.

La psicologia junghiana ci permette di
esaminare il sogno dividendolo nelle sue tre componenti strutturali: introduzione
o ambientazione, azione e conclusione (obiettivo del sogno, la
fase che fornisce la soluzione inconscia). Ma alle volte semplicemente non
esiste una libera associazione. E qui è il caso di alzare l’asticella e passare
al livello superiore, prendendo in considerazione i sogni archetipici. Gli
archetipi sono dei modelli di comportamento primitivi, che l’umanità ha
sviluppato nel tempo attraverso l’adattamento all’ambiente. Dei veri e propri
centri di gravità dell’inconscio collettivo. Hanno quindi un significato
mitologico, che prescinde dall’individuo stesso.

Spesso quando sogniamo qualcuno, magari qualcuno
che non c’è più, ci abbandoniamo a un senso di nostalgia e/o pensiamo che lo
spirito di quella persona voglia comunicare con noi.  Qui bisogna stabilire su quale piano ci
troviamo: oggettivo o soggettivo. Mi spiego meglio, se nel sogno compare il nonno,
interpretarlo sul piano oggettivo vuol dire che le azioni di questo personaggio
appartengono davvero a lui, mentre su un piano soggettivo le attribuisco ad una
parte di me, che può avere delle affinità con la figura rappresentata (il nonno
può essere il lato maschile della mia personalità, per esempio). Nella
stragrande maggioranza dei casi, la giusta interpretazione ha carattere
soggettivo!

Solitamente nella prima metà della vita i
sogni riguardano maggiormente l’andamento della vita esteriore terreno e
materiale Nella seconda metà invece il modello onirico induce l’individuo a
occuparsi del suo mondo interiore, a sviluppare una certa saggezza, a prendere
coscienza dell’aspetto profondo dell’esistenza. A rendere il sé un luogo non
completamente abbandonato.

“Il
leone sulla giraffa”: Madre, giornalista, scrittrice, imprenditrice, Giovanna
La Vecchia e le sue figlie inventano favole per costruire un piccolo angolo di
paradiso

Come
nasce una favola?

In
molti modi ed ognuno di essi assume un significato straordinario quando il
risultato è un dono prezioso per il lettore curioso in attesa del miracolo
della narrazione.

“Dunque, una madre e due figlie, che invece di fare quello che fanno tutte le persone comuni, ossia andare in libreria, comprarsi un libro di storie, leggerselo in santa pace, lo inventano e se lo scrivono in proprio. E l’idea non è affatto male, è quasi come farsi il pane in casa, che non è buono solo perché lo mangi, ma soprattutto perché lo lavori, e intanto che lo lavori chiacchieri, ridi, inventi forme fantasiose, intriganti, qualche volta spettegoli. Ecco, farsi il pane in casa dà soddisfazione perché fa l’effetto di una storia, e una storia, proprio come il pane fatto in casa, deve tenere vicini, insieme, chi la racconta e chi l’ascolta. Deve aiutare a ‘stare’, voce del verbo stare, il verbo migliore del mondo.

(Scatto dell’Ospite)

Le
storie esistono proprio per questo, conta più lo stare della trama, e anche se
non tutti sono d’accordo lo dico lo stesso, anzi lo ripeto con maggiore forza,
un genitore che ‘sta’ conferisce energia e credibilità a qualsiasi racconto,
trasformandolo in un atto educativo compiuto.

Se
non c’è nessuno che ‘sta’, tutte le storie sono inutili. Come accade oggi nella
comunicazione virtuale, dove nessuno ‘sta’ ma tutti credono il contrario.”

Domenico Barrilà.

Il leone sulla giraffa (Antonio Stango Editore, pag. 100, euro 15) è la recente pubblicazione di Giovanna La Vecchia in collaborazione con le tre figlie Chiara, Maria ed Iris. La prefazione è di Domenico Barrilà, noto psicoterapeuta e analista adleriano, scrittore, da oltre trent’anni impegnato nell’attività clinica. Il libro è corredato da bellissime illustrazioni di Francesco Barbetti. Si tratta della prima pubblicazione di favole per bambini della scrittrice e giornalista Giovanna La Vecchia.

Oltre
vent’anni di giornalismo, diverse pubblicazioni di narrativa, poesia,
saggistica, ha ricoperto il ruolo di capo ufficio stampa per importanti
aziende, organismi, enti pubblici e privati in ambito nazionale. Come nasce “Il
leone sulla giraffa”?

“Nasce da una felice intuizione di una madre e le sue tre figlie, Chiara, Maria ed Iris. Per alcuni anni ho ideato ed organizzato presso le scuole elementari svizzere, dove vivo dal 2014, corsi di “inventastorie”, scrittura creativa, giornalismo, teatro e poesia. Mi sono accorta di come i bambini, soprattutto quelli più problematici, con vissuti anche molto difficili e complessi, riuscissero ad esprimere sentimenti positivi attraverso le parole e l’immaginazione. Erano percorsi attraverso i quali raggiungevano un equilibrio interiore molto profondo e duraturo. Accadevano dei piccoli miracoli e le espressioni di negatività, attraverso l’immaginazione, si trasformavano in personaggi o eventi grazie ai quali si poteva facilmente anche ipotizzare il loro disagio.

(Copertina de “Il Leone sulla Giraffa”)

Ma
il libro nasce anche e soprattutto da una urgenza ed emergenza personale,
quella di trasformare il dolore in guerrieri di pietra, clown, contadini,
scolari, maggiordomi, giraffe e leoni, baroni, principesse, galline, topi e
ghepardi. Personaggi strampalati, divertenti, buffi, che rappresentavano tutte
le difficoltà, di volta in volta magicamente superate, che stava vivendo la mia
famiglia. I momenti in cui io e le mie figlie eravamo insieme sdraiate sul
prato a guardare il cielo o sul letto ad immaginare le stelle e la luna al
posto di un soffitto, si trasformavano in viaggi straordinari, avevamo la
libertà, che in realtà non ci era temporaneamente concessa, di essere dovunque
volevamo e per tutto il tempo che desideravamo. La separazione dei genitori,
vissuta con problematicità e drammaticità, per due bambine è qualcosa di terribile,
a volte bisogna inventarsi un mostro, magari con sette teste che sputa fuoco e
calpesta i fiori ad ogni suo passo, e magari un principe bellissimo su un
cavallo alato che ferma il mostro e salva il castello, il re, la regina, la
principessa e tutto il mondo. I figli impareranno che non ci sono sfide
impossibili e che affrontare le difficoltà non sempre vuol dire soffrire, può
significare crescere con la consapevolezza di come è realmente la vita, né
bella, né brutta, semplicemente vita”.

Sulla
copertina, sotto al titolo, scrive “fiabe favolose per creature avventurose –
otto storie consigliate dagli 8 ai 100 anni”, quindi in pratica è un libro per
tutti?

“I
nostri personaggi raccontano vissuti di ogni tipo ed in ogni luogo, reale,
immaginario, sogno. Ciò che accade alla gallina Teresina, al vecchio contadino,
al principe Magrino, al leone, alla giraffa, al barone di Santandrè, al bambino
dispettoso o alla principessa insonne in realtà è ciò che potrebbe accadere ad
ognuno di noi a qualsiasi età. L’amore, la libertà, la malattia, i vizi ed i
capricci, la solitudine, la prepotenza, l’arroganza e l’inganno fanno parte di
tutti noi nei diversi momenti della nostra vita. Anche i luoghi rappresentati,
la selva oscura, Benzo Benzo, la savana, Pirulì, Tvlandia, rappresentano a
volte un punto di partenza altre un traguardo, un approdo, una salvezza. Ed
ancora tutti i sentimenti che coinvolgono i personaggi, il coraggio, l’onestà,
la fiducia, l’amore rassicurano il bambino sulla circostanza che, a volte gli
adulti possono sbagliare ed anche tanto, possono perdersi, smarrirsi, anche
sparire, ma nulla di tutto ciò è necessariamente “per sempre”. La parola
“definitivamente”, mi disse un mio caro amico settantenne, non esiste, questo
ai bambini può far paura, ma i miei personaggi interagiscono con ogni forma di
sentimento ed emozione, e ne escono fuori sempre vincenti e forti”.

Quindi
con queste favole ha voluto in qualche modo affrontare il tema della
separazione, della perdita, del cambiamento?

“Una
vicenda molto complessa ha visto me e le mie due figlie coinvolte in un
distacco temporaneo ma molto doloroso. Brevi ma intensi gli incontri quotidiani
durante i quali il tempo doveva essere necessariamente ‘impreziosito’ per
lasciare impresse nel cuore e nella mente delle mie bambine la voce ed il
calore di una madre piena d’amore. E cosa può esserci di più prezioso al mondo
che il dono di una favola? Chiedevo alle mie figlie di ‘darmi i personaggi’,
così le piccole coautrici iniziavano a scavare sempre più a fondo della loro
curiosità, fantasia, immaginazione e magia. Mi chiedevano di ‘inventare una
nuova storia con i loro protagonisti’ e così accadde il primo miracolo, senza
affannosa ricerca o disperata volontà di stupire, abbiamo dato vita a qualcosa
che ci terrà legate per sempre, e che le piccole ricorderanno anche da adulte,
quando il peggio sarà passato ed il male, forse, speriamo, le avrà abbandonate
lasciando spazio e rendendo eterno un sentimento forte e tenace. Non a caso il
primo personaggio del libro è un guerriero con il cuore di pietra alla ricerca
di un vero cuore pulsante che possa fargli provare il sentimento più bello del
mondo, l’amore. Il nostro viaggio avventuroso è durato otto storie e, sempre
non a caso, si è concluso con il felice coronamento di una bellissima e dolorosa
storia d’amore. Nulla è un caso in questo libro, neppure le illustrazioni di
Francesco Barbetti, che ha saputo cogliere il significato di questo lavoro con
estrema sensibilità ed intensità, entrando a far parte anche lui, con grande
garbo, di questa vicenda di cui, inconsapevolmente, ha rappresentato tutto il
senso.  Lui non conosceva cosa stava
accadendo nella vita reale”.

Le
favole sono state scritte tra il 2016 ed il 2017, ma sono state pubblicate solo
a dicembre dello scorso anno. Ha volutamente atteso che Maria ed Iris fossero
più grandi affinchè potessero vedere quelle storie come “favole per tutti i
bambini” prendendo un po’ le distanze da quanto accaduto.

“Esatto.
Avevamo tutti bisogno di far trascorrere un tempo sufficiente per
familiarizzare maggiormente con tutti i personaggi. Rileggerlo adesso è stata
un’esperienza incredibile, tante cose sono cambiate, non mi riferisco agli
eventi esterni. Siamo cresciute e abbiamo lasciato che anche Maria, Iris e
Giovanna abitassero tra quelle pagine. C’è stato un distacco tra il prima ed il
dopo e forse anche i personaggi delle otto storie sono cambiati nel frattempo.
Lo sapremo nel seguito de “Il leone sulla giraffa” perché quello che abbiamo
intenzione di fare è continuare a raccontare, nella prossima pubblicazione,
cosa è accaduto agli stessi personaggi della prima edizione e credo che in
quella occasione si aggiungeranno anche una mamma e due bambine che ne combineranno
delle belle. Tutto è cambiato in questi anni, dalla scrittura alla
pubblicazione del libro.

Mentre inventavo queste favole con e per le mie
figlie avevo i minuti contati, il tempo da trascorrere con loro era limitato e
appena finita la storia se ne sarebbero andate via mano nella mano con il padre
senza neppure rendersi conto di ciò che stava accadendo. Ed io raccontavo di
principesse, leoni, baroni, bambini capricciosi e dispettosi, circensi.
Ridevamo sdraiate nell’erba a guardare il cielo. Dentro di me ipotizzavo che
una semplice folata di vento ci avrebbe potuto sollevare da terra per farci
scomparire. Volevo andare lontano. Non mi accorgevo che in realtà eravamo già
lontanissime, catapultate in quelle storie che ci hanno guarito e ci hanno
salvate. “Il leone sulla giraffa” è la dimostrazione di come si possa
descrivere il paradiso pur vivendo l’inferno, di come l’immaginazione, la
creatività e la poesia siano i veri miracoli del nostro tempo, di ogni tempo.
Le bombe esistono e distruggono ogni cosa, ma noi continuiamo a vivere il
nostro sogno e ad urlare libertà”.

Ci racconti delle sue tre figlie Chiara, Maria
ed Iris, protagoniste fondamentali in questo volume. Tre personalità molto
diverse eppure legate da un sentimento forte e profondo. Come le presenterebbe
ai lettori le coautrici de “Il leone sulla giraffa”?

“Posso descriverle con
un breve racconto scritto poco prima della pubblicazione del libro, mentre
riflettevo sulla ovvia frase “i figli sono tutti uguali”. Mi piace riproporlo
in questa intervista.

“Sono madre di tre figlie uniche.

I figli sono tutti uguali. Non è vero, non è assolutamente vero. Lo diciamo noi genitori pensando di non deludere nessuno e convincendoci che sia la cosa giusta, eticamente corretta da dire. Mai bugia più grande ed inutile. I figli sono TUTTI figli unici e li amiamo in un modo completamente diverso, “problema” sconosciuto a chi ha un solo figlio. “Problema”…mi vien da ridere. Ricchezza, risorsa, bellezza, straordinaria sensazione di avere davanti tanti altri sé completamente diversi, unici, “pezzi” unici, con crepe, difetti e particolarità che ci rendono “miliardari” anche senza un soldo e senza un bel niente di niente. Le guardo tutte e tre, ogni volta che posso, me le guardo sempre più in profondità, arrivo fin dove posso e fin dove credo di poter arrivare, consapevole del fatto che c’è un universo infinito a me ancora sconosciuto, e grazie a Dio, mi ripeto incessantemente. Non voglio conoscere tutto, non voglio sapere tutto, non voglio vedere tutto. Mi piace da impazzire quando d’improvviso arriva qualcosa di completamente inaspettato e sorridendo mi dico “questo me lo sarei aspettato da Maria, non da te” oppure “somigli sempre di più a Chiara”, “non parlarmi come farebbe tuo padre!”. Sempre più spesso dico idiozie del genere, il più delle volte quando la rabbia si impossessa di me e mi trascina in vocabolari fin troppo ovvi e scontati ed allora sono loro che mi guardano come se non fossi io, ma mia madre o mia sorella, mai mio padre, purtroppo, la persona più equilibrata e pacata che io abbia mai conosciuto nell’universo.

(Scatto di Iris)

Ebbene sì, la figlia preferita è Iris. Lo ammetto, voglio essere onesta. La sua dolcezza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo spazio, irrompe, travolge. Morbida e liscia come seta, calda come lana, rotonda come una perla, straordinaria nelle sue esternazioni. E’ la parte di me che non sono mai riuscita a far crescere, è quello che mi è sempre mancato per essere “perfetta”. Penso “E’ arrivata per farmi capire che con la calma e con il sorriso si può arrivare dovunque, anche lontanissimo, andata e ritorno”. Non esplode mai, rimane ferma, ferita, offesa e piena di dolore, si nasconde il viso tra le mani, per qualche istante, poi sposta le mani e sorride illuminando il pianeta di stelle. S’accende tutto ed un calore potente si diffonde tra le carni ed il sangue. Mi sento sciogliere, mi dissolvo, evaporo, svanisco da quel mio essere irruenta e prepotente e divento un angelo, mi spuntano due enormi ali e mi sollevo da terra. Lei lo sa l’effetto che produce e se la ride tra sé e sé, come se nulla fosse ed invece è tutto. Ha occhi immensi, di un colore imprecisato, indefinibile, che cambia con il tempo, con le svariate passioni che vive, con lo stato d’animo, con le parole, con i gesti, con i sapori del cibo e con gli orari del giorno e della notte. Comunica con le minuscole venature delle pupille, paralizza quando li sgrana, quegli occhi da aliena e li punta verso una qualsiasi direzione, si riconoscerebbe in mezzo a milioni di esseri pensanti, vien voglia di rapirla e di portarla su un altro pianeta per vedere l’effetto che potrebbe causare il suo esserci. Ha un pugno forte e grande, ma è quando arriva con la mano aperta che riesce ad essere sè stessa, con una sola carezza fa crescere prati di girasoli in mezzo al deserto.

(Scatto dell’Ospite)

Ebbene sì, la figlia preferita è Maria. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua creatività è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Quando la cerco per tutta casa per punirla o
sgridarla o rimproverarla, lei appare “travestita”, una nuvola leggera, una
piuma, un soffio di vento leggero e fresco, mille colori addosso come fosse il
più perfetto tra tutti gli arcobaleni. Gesticola, si agita, balla, canta,
scompigliata, scapigliata, scalmanata, scomposta. Mi punta gli occhioni giganti
addosso e improvvisa uno show davanti al mio dito puntato. La sua camera è un
accampamento, a volte ospita gli indiani d’America, altre indigeni africani,
poi arrivano eserciti dalla Mongolia o geishe ammalianti bianche come
porcellane. Lei arriva da Palenga, ne parla perfettamente la lingua
incomprensibile, la notte viaggia, il giorno è assonnata e stanca, si nutre
appena giusto per sopravvivere, tutto l’annoia, è al di sotto delle sue
aspettative. Legge al mattino alle sei e mezza prima di andare a scuola, fa
lunghe passeggiate da sola nei boschi, raccoglie sassi e legni e foglie. Ha un
innato talento in tutto ciò che fa. E’ sorprendente. E’ bellissima quando in
silenzio adagia il suo viso sulla mia spalla e si lascia baciare. E’ preziosa.
Creatura misteriosa. Incomprensibile. Passa dal sorriso al pianto in un
istante. Non se ne conosce il motivo e non è poi così importante conoscerlo. Si
autoguarisce da ogni tipo di ferita. Si lascia amare ma ama con enorme
difficoltà, perché amare è darsi completamente e per lei questo è difficile.

Ebbene sì, la figlia preferita è Chiara. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua forza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Impossibile starle dietro, impossibile anche
camminarle di fianco, di lato, a destra, a sinistra, sotto, sopra. Guerriera
disarmata, in giro per il mondo con valigia e computer. Se lo mangia questo
stupido mondo insignificante. Se lo ingoia e lo risputa fuori migliorato.
Coraggiosa come una tempesta. Furiosa e furibonda. Un fiume in piena senza
rive, argini, approdi. Non si attracca al suo porto anche perché porto non ne
ha e non ne vuole. Impaziente, insaziabile, incontentabile. Sufficiente a sè
stessa. Si basta da sola. Si autogestisce. Si autodistrugge. Ma poi si rialza, si
ricompone e ricomincia. Tutto da sola come fosse l’unica abitante di un pianeta
abbandonato dagli esseri umani, un’apocalisse. Babilonia. “Mamma so io cosa
devo fare”, la frase che ripete incessantemente come un mantra, se ne vuole
convincere, in realtà sa bene che ha bisogno di me ed io di lei, gemelle
diverse, ma incredibilmente uguali. Potente. Attila. Fa paura. Purtroppo anche
a sè stessa. Si contorce frequentemente dal dolore per tutto quello che non
riesce a sputare fuori perché teme di ferire, di far male, di sbagliare.

Ho tre figlie uniche, sono madre di tre figlie uniche,
raro caso al mondo. Mi sento la donna più ricca del pianeta e la più fortunata
e la più completa. Anche loro dicono di avere una mamma unica, una sola. Raro
caso al mondo. Siamo pezzi unici in attesa di un sogno gigante, di quelli che
non durano una sola notte, ma una vita intera. Nel frattempo inventiamo fiabe:
“Sai nascono cosi fiabe che vorrei dentro tutti i sogni miei e le racconterò
per volare in paradisi che non ho. E non è facile restare senza più fate da
rapire, e non è facile giocare se tu manchi”. Abbiamo imparato a giocare tutte
insieme, sempre, per non farci più del male e per non farci fare più male da
nessuno. Non è difficile il gioco che facciamo, semplicemente non ha regole,
così, incredibilmente nessuno vince mai e nessuno perde mai”.

Madre a 15 anni, in un sud di quasi quarant’anni fa,
uno scandalo che la portò ad abbandonare la sua terra per trasferirsi a Roma
dove ha vissuto per quasi trent’anni. E’ stato forse questo avvenimento a
lasciare intatto ed immutato quel suo sguardo da bambina sul mondo?

“Sicuramente quella esperienza ha fatto sì che sentissi dentro di me l’esigenza di recuperare quegli anni persi, quell’adolescenza bloccata, quello smarrimento e quella paura che andava prima o poi necessariamente guardata in faccia senza filtri.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Ho affrontato la belva scrivendo il mio primo romanzo autobiografico “Le apparenze”, ho cercato di perdonare tutti, principalmente me stessa ed è nato in quel momento il bisogno di fare qualcosa per aiutare tutti i bambini ad affrontare i loro dolori più grandi. Perché a 15 anni ero una bambina, che vestiva con i maglioni di lana giganti ed i calzettoni al ginocchio. Quella subita fu una vera e propria violenza da parte di tutti, la società condannava una bambina e le dava anche un nome ben preciso e non proprio piacevole. Ma io non mi identificavo in quella etichetta piena di cattiveria e pregiudizio. Io mi sentivo come la gallina Teresina, la principessa insonne, il leone in fin di vita salvato dalla giraffa, il bambino dispettoso e capriccioso al primo giorno di scuola che cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione, la gazzella spaventata, tutti i personaggi de “Il leone sulla giraffa” hanno qualcosa di quella ragazzina costretta a lasciare la sua città per evitare le maldicenze e per salvare la buona reputazione della famiglia. Ma non è stato certo solo quell’episodio a formare la donna che sono diventa

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

ta. Quasi trent’anni fa ho perso mia sorella e l’anno dopo mio padre, i miei punti di riferimento più importanti. Poi un matrimonio approdato ad un divorzio disumano e disonesto. Il 10 febbraio di quest’anno, l’anniversario della morte di mia sorella Mariella, ho ripensato un po’ alla mia vita. Quasi trent’anni senza di lei.

Stavo per addormentarmi, Maria, mia figlia,
chiacchierava senza smettere un attimo. Ho guardato l’orologio. È apparso quel
numero 10 che mi ha riportato alla memoria quella sera. Roma. Policlinico
Umberto I. “Mi dispiace. Non ce l’ha fatta”. Fine della storia. Le solite
spalle di un camice bianco che se ne va e ci lascia a digerire quel dolore
inconcepibile, inaccettabile, ingiusto. E poi subito dopo aver visto il numero
10 sul mio orologio ho guardato Maria che si era addormentata. Iris era nella
sua stanza, dormiva anche lei. Chiara mi aveva scritto poco prima o poco dopo
la mezzanotte subito prima di addormentarsi, per darmi la buonanotte. Continuavo
a pensare a come risolvere ciò che sta accadendo. Il mio problema di sempre.
Lui. Il padre delle mie figlie. E allora ho ripercorso in pochi secondi
un’altra storia. Agosto 1984, avevo 15 anni e mezzo. Avevo partorito a Roma da
un mese più precisamente il 3 giugno. Avevo lasciato mia figlia in ospedale,
sulla sua cartella clinica la scritta
ADOTTABILE. Ero tornata a casa mia a Crotone. Lo scandalo
era stato evitato, ingenuamente pensavamo. Non era trascorso un solo istante in
cui non avessi pensato a mia figlia Chiara Ileana Francesca, chiamata con i
nomi delle tre infermiere presenti al parto. Il 14 agosto prendo la decisione
di tornare a Roma per riprendere mia figlia. Mia madre decide di accompagnarmi.
Partiamo troviamo una stanza vicino la stazione termini. Andiamo al tribunale
per i minorenni ci dicono che occorre fare una causa e bisogna trovare un
avvocato. Apriamo l’elenco telefonico a caso, il primo nome che appare, una
cabina telefonica, l’appuntamento. Dopo pochi giorni l’udienza. C’è stato un
errore. Prima del compimento dei 16 anni non si può scegliere se riconoscere o
non riconoscere un figlio. Un errore commesso in ospedale. Mia figlia deve
tornare da me. Dopo qualche ora rivedo Chiara e fino al 15 novembre rimango con
lei a vivere in un istituto per ragazze madri a Monteverde. Avevo 15 anni e
mezzo, mia figlia 2 mesi. Quando le luci dell’istituto si spegnevano la sera
iniziavo a piangere e smettevo solo quando arrivavano le prime luci dell’alba.
Ho vissuto così per tre mesi ma a me sembrarono 30 anni. C’erano le sbarre alle
finestre. Una guardia al cancello per impedirci di scappare. Ragazze
abbandonate dalla famiglia, con realtà di droga, prostituzione, violenza. Avevo
15 anni e mezzo, mia figlia due mesi. E quella sera, il 10 febbraio di
quest’anno, in quel  preciso istante in
cui una figlia mi dormiva vicina, un’altra nella stanza di fianco ed un’altra
ancora, quella del miracolo, mi aveva dedicato il suo ultimo pensiero prima di
addormentarsi, dicevo a me stessa “Se ho superato tutto questo puoi tu uomo mettermi
in difficoltà fino al punto di farmi crollare, soccombere, spezzarmi? E no,
caro mio, hai fatto male i conti ed hai scelto la donna sbagliata per
esercitare tutto il tuo potere distruttivo. Una madre che si è vista strappare
sua figlia una volta ed è sopravvissuta, stai pur certo e sicuro, caro uomo,
che sarà in grado di sopravvivere anche a te. Rincara pure la dose ed io di
quella scena ne farò un tempio in cui pregare non un dio qualunque, ma il dio
delle madri e dei figli, e non lo pregherò per me, ma per te, affinché abbia
pietà e non ti faccia pagare un prezzo troppo alto per tutto il male che hai
fatto, prezzo che tu di certo non saresti in grado di sopportare. Amen e così
sia”. Da quel 3 giugno 1984 non ho mai smesso neppure per un giorno di pensare
a come fare del bene a bambine e ragazze a cui è stato impedito finanche di
sognare, non solo di sperare. Mi sono impegnata in battaglie gigantesche
affinchè nessuno si arrogasse il diritto di mettere un’etichetta ad un essere
umano, soprattutto se piccolo, indifeso e spaventato dagli eventi. Anche “Il
leone sulla giraffa” è un piccolo contributo in tal senso. Se sono capace io,
ancora oggi a 53 anni di inventare e raccontare favole, chiunque può farlo in
qualunque condizione si trovi, anche sotto le bombe, sotto le dittature e sotto
tiranni che non hanno nulla di essere umano ma somigliano sempre di più al
mostro dalle sette teste di cui mi raccontava mio padre quando avevo appena
pochi anni”.

Il male che si riceve ed il dolore che si subisce possono trasformarci in
qualcosa che non vorremo mai essere?

“No, assolutamente no. Noi a casa abbiamo un nostro particolare modo di affrontare le “botte” che la vita ci ha dato, ci dà e ci continuerà a dare.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Una botta? due chili di farina lievito olio e
sale. Due botte? Raddoppiamo le quantità e di pane ne vengono fuori due. Tre
botte? Triplichiamo tutto e la casa profuma di famiglia, figli, pasta, pane e
torta di mele. E no, potremmo essere bestie, animali feroci, orchi, draghi
maledetti, streghe e malvagi guerrieri avidi di conquiste, e invece sforniamo
fiabe e pane e ne facciamo dono anche ai nemici, perché lo dobbiamo a noi
stesse, non diventare mai come loro. Che poi chi lo sa, qualcuno trasformó i
pani ed i pesci moltiplicandoli, può darsi che quel pane pieno d’amore in bocca
ai peggiori demoni si trasformi in veleno e allora sarà ciò che deve essere, ma
per noi rimarrà sempre il più grande gesto d’amore. Siamo fatte così e si illuda
pure chi pensa di averla fatta franca. Non cerchiamo vendetta, noi gridiamo
giustizia in questo ed in tutti i mondi possibili. Nulla può renderti ciò che
tu non sei, nulla può tirar fuori da te ciò che tu non hai”.

Domenico
Barrilà è l’autore della prefazione de “Il leone sulla giraffa”, molto
intuitivo il suo paragone tra le favole ‘fatte in casa’ dalle autrici ed
il pane caldo e fragrante, accogliente e nutriente che ‘fa famiglia’
sempre e comunque, ovunque in ogni casa ed in ogni angolo dell’universo.

“L’incontro con Domenico Barrilà è stato
illuminante, un uomo che da sempre si occupa del disagio giovanile, che ha
scritto tantissimo dimostrando di conoscere molto bene i giovani, il contesto
sociale con tutte le sue trasformazioni ed i suoi velocissimi cambiamenti. Uno
psicoterapeuta attento e scrupoloso cui ho affidato le mie favole nella speranza
che avesse tempo e voglia di leggerle e di commentarle insieme per lasciare un
messaggio ai lettori. E’ stata una gioia grande quando mi ha inviato il suo
scritto cogliendo straordinariamente ed esattamente la natura profonda di
questo lavoro per me così importante. Non potrò mai smettere di ringraziarlo e
di essergli riconoscente. Ogni sua espressione è pregna di significato. “Le
storie che fabbricano, che si leggono tra di loro e poi ci raccontano, sono
piene zeppe di “vecchia” umanità, quella che se muore siamo morti tutti. Non
c’è una sola delle otto fiabe che non contenga un monito intelligente, privo di
moralismo”, scrive Barrilà. E conclude “Ce n’è per tutti i gusti, ma solo per
chi è disposto a credere che il futuro esiste solo se ci portiamo appresso il
meglio del passato, compresa quell’innocenza che per tanti è diventata una
zavorra invece è una solidissima zattera”. Straordinario”.

Il libro è corredato da numerose colorate
illustrazioni di Francesco Barbetti. Com’è nata questa solida collaborazione?

“Conoscere Francesco è stato un altro miracolo
di questo lavoro,
io li chiamo così i
momenti importanti, non un caso, perché il caso non esiste, esistono equilibri
fatti di istanti irripetibili, di unioni di cuori e neppure è un caso che un
padre abbia compreso così bene il messaggio d’amore di una madre, pur essendo
all’epoca del nostro incontro, due perfetti sconosciuti, legati solo dalle
fiabe scritte e da pubblicare.
È esattamente
ciò che avrei voluto. Grazie davvero ad un grande artista, oggi amico sincero e
lavoratore instancabile. Le modifiche al lavoro originario di Francesco sono
state minime, quasi inesistenti. Ha colto sin da subito esattamente ciò che
avevo in mente, senza nessun tipo di difficoltà. Una intuizione ed una
sensibilità incredibili accompagnate da una mano delicata e leggera. Le
illustrazioni sono poesia pura. Il libro non sarebbe stato quello che è e non
avrebbe rappresentato il messaggio che avevo deciso di trasmettere senza i suoi
disegni bellissimi”.

Alcune
delle favole contenute nel libro sono state messe in scena con la
partecipazione di sua figlia Chiara Stirpe, che ha collaborato anche nella
stesura del volume. Sua figlia è un ingegnere presso una multinazionale, come è
riuscita a coinvolgerla in questo progetto?

 “Chiara è un essere speciale, un elfo, una
fata, uno gnomo, un folletto che mi ha sempre sostenuta in ogni folle idea ed
iniziativa, spesso partecipandovi in prima persona, interprete dei miei
racconti in veste di attrice drammatica o comica. Un piccolo gioiello nella mia
vita, senza il quale non sempre avrei avuto modo di ‘brillare’ pur con spunti e
pensieri ‘luccicanti’. Indimenticabile la sua interpretazione della gallina
Teresina, vestita di piume, tacchi altissimi e spacco vertiginoso, una tra le
più belle rappresentazioni teatrali dei miei scritti. Improvvisava davanti ad
un pubblico,  bambini ed adulti,
entusiasta e partecipe che non riusciva a trattenere le risate. E’ un po’ tutto
fatto in casa questo lavoro, ma una casa davvero particolare, nessuno si è mai
sottratto alle mie direttive, sono un capo esigente ed intransigente, mi viene
concesso tutto perché agli artisti, si sa, non si può mai dire di no e non si
possono porre limiti,  come ad un
sonnambulo, se lo svegli mentre vaga per tutta la casa in preda al suo
disturbo, le conseguenze sono imprevedibili, o come un funambulo, se lo distrai
mentre esegue il suo esercizio con le sue regole ed il suo equilibrio, può
accadere il peggio. Io sono una mamma a metà tra l’uno e l’altro. Ad ogni modo
mi temono e questo serve a me ed a loro”.

Incredibilmente queste favole sembrano
cresciute irrigate da fiumi di lacrime e di risate. Sembra un miracolo in
equilibrio perfetto.

“Di risate ne abbiamo fatte tante, fino a
sentirci male, fino quasi a non respirare. Ma io credo fermamente che ciò che
ha contato di più sono state le lacrime.

Potrei versare tutte le lacrime del mondo ma
non basterebbe a raccontare questo bellissimo dolore che vivo per voler amare così
tanto e a tutti i costi la vita, di cui, sono sincera nel dirlo, non cambierei
neppure un giorno. Ci vuole poco per essere felici, ma occorre un grande cuore
ed una coraggiosa fantasia per rimanere per sempre bambini”.

Abbandono, morte e rinascita

Ancora devo capire bene questa faccenda delle mie visioni, moltissime hanno riscontro, altre no. Ora, ultimamente succede che crollino, che il loro fallire mi ponga ancora più nuda, spogliata del mio orgoglio (se le azzeccassi tutte non potrebbe non gonfiarsi un po’!), pronta a vincere sull’ultima tentazione-trabocchetto della mente, quella che maschera l’ultimo tentativo d’agganciamento da parte dell’ego proprio sul ciglio del baratro, con il manto della saggezza e della sapienza.

NO, LA MENTE DEVE MORIRE SENZA PIETA’.

(Scatto di Marco Tanfi)

Perlomeno temporaneamente. Ma lei, che non vuole perdere il potere, il controllo sul nostro io che la mantiene in vita, eviterà fino all’ultimo momento che il piede, prima uno poi l’altro, irrecuperabilmente, vada nel vuoto, lasciando l’apparente sicurezza della roccia.

Quello è il momento in cui l’arrendevolezza si deve accompagnare al coraggio. Questo è l’appuntamento che tutti noi abbiamo e che tutti noi temiamo al punto da non riuscire a veramente vivere, per paura di morire. Dobbiamo invece sperimentare senza paura la morte che è un semplice fulcro di nero-nulla, in realtà accogliente, in realtà un niente che dopo la prima fase di neutralità totale ed esasperante, non può non trasformarsi, riempiendosi di Tutto; il niente e il tutto sono in affrancabili.

Mai come quest’ultima volta ho voluto buttarmi in questo mare nero, mai come questa volta nessun velo di paura mi tratteneva al di qua, sulla terraferma. No, volevo perdermi per sempre nel vuoto, ero pronta a morire definitivamente. L’ho fatto, ci sono stata, annegata, molti, molti minuti. Era un fatto, ero inattaccabile da qualunque moto della mente, pensiero di Loretta, fremito di desiderio o propensione, non c’era neanche l’amore.

Questo per un attimo mi ha congelato: nella dimensione nulla-morte non c’è amore. E’ vero, nello stadio della morte più assoluta non c’è nulla in modo “totalmente totale” da non lasciare spazio nemmeno all’amore. Nella mia resa totale, nella completa morte di Loretta, ho accettato perfino questo. Infatti poco prima del salto nel buio mi era stato richiesto di recidere tutti gli attaccamenti affettivi, da quelli con i miei amori uomini, a quelli in teoria impossibili da spezzare, con i miei figli. Ho fatto perfino questo. Ero lì, anzi, non ero lì, sdraiata in un bagno di nero e silenzio. Sapete però che la morte è costretta ad un certo punto ad accogliere la vita? Quando ha avuto la sua soddisfazione, quella di essere padrona e possederti fino all’ultima cellula, si intenerisce e come una madre, non può non lasciar filtrare semi di luce, che man mano si impossessano del mare nero e di ciò che ci galleggia dentro. E il mio corpo, il mio essere senza forma, comincia a recepire una carezza di dolcezza e luce che alla fine pervade con potere crescente il niente. E il niente diventa il TUTTO.

Il tutto con la sua luce irrorata con la forza di mille soli e il piacere divino che scorre nelle vene di un nuovo essere. NUOVO. La morte ripulisce e tu sei nuovo. La vita mi ha voluto richiamare dal mio nulla, sebbene il mio desiderio fosse di rimanere là; la mano della vita mi attirava, ed era quella di un uomo.

(estratto del mio prossimo libro “Essere nulla”)

In questo numero, in questo ultimo numero, di Condivisione Democratica parliamo di “Luoghi abbandonati” e di “Luoghi dell’abbandono”.
Poco prima della pubblicazione, rileggendo gli articoli che avevo scritto mi sono accorto che in tutti c’era un filo – a volte molto più di un filo o di un velo, un vero e proprio diluvio! – di nostalgia. Un pò quel senso di nostalgia dei tempi che furono, dei bei tempi andati, che poi può sfociare nel “si stava meglio, quando si stava peggio”.

Questa sensazione, anzi questo sentimento, la nostalgia è sempre stato con l’uomo: Ulisse che navigava nei mari tra mille peripezie in un viaggio lungo 10 anni, aveva nostalgia della sua Itaca.
“nóstos” e “álgios”, il “dolore per il viaggio”, “il desiderio, quasi doloroso, di ritornare”. Conosciuta dall’antichità, quindi, ma definita in tempi – tutto sommato – recenti. Era alla corte del Re Sole il medico che coniò il termine scrivendo il suo “Dissertatio medica de nostalgia” per raccontare il senso di depressione dei mercenari svizzeri che non tornavano nelle valli da tanto tempo.
Un pò la storia di Heidi e della sua malinconia per le Montagne e del Nonno, la storia dei giocatori di calcio brasiliani che hanno la Saudade mentre giocano in Europa, e se vogliamo il sentimento che animava Cicerone mentre scriveva rimpianti strazianti per la Roma di Catone, così come Tacito per quella di Cicerone.
E’ un sentimento, la Nostalgia, che nasce da una inquietudine per il presente, che ci fa sentire, insieme al rimpianto malinconico per il passato, la gioia per quel passato che invece è sfuggito, come se in quel passato le cose fossero più giuste, più belle, quasi perfette. Come un Paradiso Perduto, come un’età dell’oro ormai lontana.
Tra l’altro Eric Hobsbawm dà un significato, un ruolo, a questo sentimento per spiegare il processo di consolidamento della cultura (e del potere) nel suo “Invenzione della Tradizione”, perché è un “ingranaggio” di un meccanismo ben definito, ben avviato, ben oliato.
Ma la Storia non è scritta solo guardando indietro, anzi. Gli storici scrivono cercando i segni nel passato, mentre “chi fa la Storia” per lo più guarda in avanti, poi cercando riferimenti a ritroso, prova a consolidarla. Penso a coloro hanno segnato la storia moderna, come Napoleone Bonaparte o Otto Von Bismarck tanto per fare due nomi, che hanno sempre guardato al presente “spingendo” la Storia a prendere la direzione che volevano, come questa fosse un nuovo letto per un fiume. Concetti come la “Tradizione” o la “Consuetudine”, così come la “Nostalgia” erano utilizzati per ammantare il proprio operato senza strappi, mentre ce n’erano e tanti. Forse il campione in questo è stato Augusto che della “Tradizione” fu fermo sostenitore e paladino, sconvolgendola, di fatto, completamente.
Quando penso alla Nostalgia mi viene sempre in mente un personaggio in particolare. Non un personaggio così famoso, così conosciuto, ma nella sua storia c’è quella apertura al mondo, al futuro che è proprio l’opposto della Nostalgia. Penso a Luis de Torres.
Era imbarcato sulla Santa Maria con Cristoforo Colombo, che lo volle con sè come interprete.
Colombo, lo sappiamo, aveva convinto (ma forse non fino in fondo) i regnanti di Castiglia a finanziare una spedizione che potesse affrontare l’Oceano Atlantico per raggiungere l’Asia, le Indie, il Catai e il Cipango. Da uomo del medioevo, qual era, riteneva di poter raggiungere i territori del “Khaghan”, descritti da Marco Polo 200 anni prima. Il Catai dovrebbe essere la Cina sud-orientale, mentre il Cipango, quello che è l’attuale Giappone. Di sicuro – come sostenevano i suoi detrattori – aveva sbagliato le misure (Colombo stimava 4.400Km, mentre nella realtà sono oltre 20.000 i km che dividono la Spagna dal Giappone) e per puro caso trovò un Continuente completamente sconosciuto nel mezzo.
Ma Luis de Torres in questa avventura era l’interprete.
L’interprete in una terra che nessuno conosceva, se non attraverso quel racconto quasi “cavalleresco” che è Il Milione, con popoli che nessuno conosceva, e che praticavano usanze sconosciute.
Alla nascita (probabilmente) si chiamava Yosef ben HaLevi HaIvri ed era un ebreo convertito al cattolicesimo, conosceva Ebraico, Aramaico, Arabo e Portoghese, oltre ovviamente allo Spagnolo. Non era solo la conoscenza dell’Aramaico a far ritenere a Colombo che fosse la persona giusta per questo compito. Il Genovese pensava ci potessero essere, in quei territori lontanissimi, le 10 tribù semite disperse e l’Aramaico antico poteva sicuramente far comodo. No, quello che fece di Luis de Torres un interprete per un mondo sconosciuto era il suo sguardo nel futuro. E a ragione: è stato capace di comunicare con gli indios senza conoscere assolutamente nulla di loro. Fu il primo uomo a fare una “ambasciata” presso quei regnanti: al primo contatto tornò dopo 4 giorni trascorsi nel villaggio dove scoprì ad esempio l’uso del tabacco.
Questo spirito di avventura, l’idea non solo di trovare nuove terre da conquistare – come avrebbe potuto avere qualsiasi marinaio e mozzo sulle tre caravelle – ma di trovare un modo per comunicare, per entrare in contatto con nuove realtà, di proiettarsi nel futuro, questo mi sembra l’opposto della Nostalgia che si può provare a guardare il passato e i luoghi abbandonati.
L’idea che davanti a noi ci siano nuove possibilità e nuove realtà, ci siano nuove forme e nuove esigenze, nuovi continenti con i quali venire in contatto, in un modo ancora incognito.

(L’approdo di Colombo. Cristoforo Colombo e altri mentre mostrano oggetti ad uomini e donne native americane sulla spiaggia. Wikiquote.)

“Ciò
di cui sono convinto è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini
del mondo e costringere la finanza a fare un bel passo indietro”.
Ivan Grossi, una vita dedicata alla
scienza, alla tecnologia ed al progresso, ci racconta cinquant’anni di storia
italiana.

Era il 2004, il mio giornale mi aveva
inviata a Cortino, un comune abruzzese in provincia di Teramo di 609 abitanti,
per seguire il progetto “Ecotourism: places ad traditions”, che aveva
come obiettivo la diffusione e la valorizzazione del turismo ecologico e vedeva
coinvolti 12 partners provenienti da Italia, Spagna, Germania, Croazia, Grecia,
Cipro, Portogallo e Lituania. Un progetto molto interessante. Io seguivo
solamente la parte italiana. In quella occasione il gruppo formato da diversi
professionisti, giornalisti, ambientalisti, scienziati, letterati, artisti e
agricoltori condivise tre giornate memorabili all’insegna delle tradizioni e
del buon cibo, ma soprattutto di lunghe passeggiate “raccontate” da
gente del luogo in cui tutto veniva vissuto con semplicità e profondo
interesse. Mi ritrovai quasi tutto il tempo a dialogare con un uomo
incredibilmente gentile, sensibile, carismatico ed affascinante di cui
inizialmente ignoravo completamente il ruolo: era il direttore del progetto,
Ivan Grossi.

Laureato in fisica, consulente senior
nel settore dell’innovazione tecnologica per diverse importanti società a
livello internazionale, docente di comunicazione pubblica ed istituzionale,
consulente del ministero degli affari esteri ambasciate d’Italia a Beirut e a Tirana, formatore di personale, coach,
direttore generale presso la pubblica amministrazione, programmatore-analista e
coordinatore, studioso presso l’università di Glasgow, Delaware (Usa), Belfast,
autore di numerose pubblicazioni in diverse lingue e paesi, dal 2011 presidente
dell’Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana di
Assisi.

Amante del jazz e della poesia del Novecento
italiano, della poesia arabo-musulmana, interessato alla saggistica, alla
fantascienza, alla letteratura di viaggio, ai film d’autore, all’arte
contemporanea e d’avanguardia.

Le sue parole, nel corso degli anni,
hanno sempre avuto un valore alto, durante conversazioni e scambi a distanza,
mentre uno camminava in montagna e l’altro in riva al mare.

In questo momento particolarmente
delicato abbiamo apprezzato molto i suoi interventi e lo ringraziamo per
l’intervista concessa che proponiamo, con grande piacere, ai nostri lettori.

Nella nostra introduzione abbiamo
tentato di sintetizzare un curriculum imponente. La sua esperienza in ambiti
così tanto diversificati la rende un referente importante per fare il punto
della situazione in questo momento storico arduo. Anni di difficoltà che ci
impongono riflessioni profonde. Qual è il suo pensiero in proposito?

“Concordo con il caratterizzare questi
anni come anni difficili, anni in cui – grazie anche allo sviluppo tecnologico
– i luoghi decisionali si sono lentamente ma inesorabilmente spostati da quelli
“democratici” – i parlamenti, i consigli regionali e comunali – ai consigli di
amministrazione di aziende private che ora non si riuniscono nemmeno più sul
territorio su cui ricadranno le loro decisioni. Non è inverosimile immaginarsi
un amministratore delegato a Chicago che decide delle sorti di centinaia o
addirittura migliaia di lavoratori di una fabbrica, in provincia di Modena, che
opera nel settore elettromedicale. Quanto appena citato mi fa ricordare che
nella seconda metà dell’Ottocento uno scrittore portoghese, Eça de Queiroz, in
una sua opera intitolata O Mandarim (Il Mandarino) si immaginava come avrebbe
potuto comportarsi un portoghese se avesse avuto la possibilità, schiacciando
un pulsante, di uccidere un mandarino cinese in cambio di un tangibile
vantaggio in Portogallo: quella finzione letteraria è diventata oggi realtà e
l’amministratore delegato di Chicago è il portoghese dell’opera di
Eça de Queiroz, i lavoratori della
fabbrica modenese sono i mandarini di oggi: sacrificabili per un vantaggio a
Chicago. Tutto questo credo stia a testimoniare che le difficoltà attuali
vengono da lontano e sono tutte figlie del modello economico di sviluppo che,
soprattutto in Occidente, è stato adottato, modello che è responsabile anche
dei cambiamenti climatici, come ha ricordato in una recentissima conferenza
Emilio Padoa-Schioppa, dell’Università di Milano-Bicocca.

Non ho ricette, soprattutto perché
sono fermamente convinto del primato della politica sulla finanza e la
tecnologia ed anche perché non sono un decisore politico. Ciò di cui sono
convinto però è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini del mondo
e costringere la finanza a fare un bel passo indietro. Per chiudere questa
breve riflessione, credo che se dovessi, fra i tantissimi problemi che abbiano
di fronte, individuarne uno ed uno solo non avrei dubbi: l’immigrazione, non
certo per alzare muri o affondare barconi bensì per cercare, a livello globale,
una soluzione che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di avere una vita
dignitosa per sé e per i propri figli. Leggiamo di sofferenze indicibili cui
sono sottoposti i migranti davanti alle quali l’unica cosa che mi viene in
mente è il grido di Primo Levi: Se questo è un uomo!”

Oltre cinquant’anni di attività
professionale in ambiti differenti con uno sguardo scientifico. Com’è cambiato
il mondo in questo lungo lasso di tempo?

“L’unica cosa certa è che il mondo è cambiato molto non solo nelle cose ma soprattutto sono cambiate le persone, le scale di valori riconosciute e utilizzate. Posso tentare di sintetizzare cosa è cambiato nel mio mondo, nella sfera delle mie relazioni sociali, nei luoghi di lavoro che mi hanno ospitato: è pertanto una visione molto parziale di un cambiamento più ampio e più profondo che ha coinvolto l’intero mondo. Non avendo paura di tradire il fatto che ho la barba bianca, sono passato dall’uso a scuola della “cannetta” con il pennino (e i diversi tipi di pennino per i diversi tipi di tratto), che si intingeva nel calamaio alloggiato nel banco (che il personale della scuola riempiva ogni mattina) all’uso della Apple Pencil sul mio iPad mentre sto condividendo ciò che scrivo con un collega in quel momento molto lontano da me. La tecnologia mi ha salvato – almeno per ora – la vita aiutandomi a curare una malattia per la quale trent’anni fa la prognosi sarebbe stata assolutamente infausta.

(Scatto dell’Ospite)

Questi pochi esempi spero diano la dimensione di quanto la tecnologia, che ha tradotto in beni e servizi le conquiste scientifiche, sia progredita in un lasso di tempo assolutamente breve, soprattutto se comparata con quanto avvenuto nei secoli passati. Come mi chiede la gentile intervistatrice, per questo benessere abbiamo dovuto pagare un prezzo: la qualità dei rapporti umani e la progressiva perdita delle “radici” culturali. Non sono un laudator temporis acti. il lavoro che ho svolto è sempre stato all’insegna dell’innovazione, tuttavia si è voluto a tutti i costi – nella maggior parte delle situazioni – tagliare i ponti con le tradizioni, con gli stili di vita che caratterizzavano territori, comunità, gruppi sociali per tendere ad una omologazione almeno su scala continentale se non addirittura su scala planetaria. È in atto, ma non da ora, un processo di omologazione che se da un lato mi fa sentire a casa in qualunque città perché ritrovo gli stessi negozi, gli stessi cibi, gli stessi spettacoli dall’altro sento tutto questo estraneo perché costruito negli uffici marketing e non grazie al lento evolversi di un processo locale. Forse è chiaro ormai ai più che, come dice Stigliz, la globalizzazione così come è stata realizzata abbia favorito solo un ristrettissimo gruppo sociale e finanziario ed abbia penalizzato tutto il resto del mondo. Come risultato tangibile della trasformazione (in senso negativo) dei rapporti umani abbiamo di fronte ai nostri occhi il modo in cui viene gestito il problema delle migrazioni di massa (come vede – gentile intervistatrice – è un tema che ricordo spesso): fin dal momento in cui queste persone disperate lasciano la loro terra per puntare verso l’opulento Occidente, reso opulento da secoli di prelievo di risorse da quelle terre da cui provengono i migranti, inizia per loro un viaggio che non ho riserve a definire simile ai viaggi in treno per Treblinka. Confido nelle giovani generazioni per marcare un significativo cambio di rotta nel segno della solidarietà: da questo punto di vista, la mia generazione, quella del Sessantotto, ha mancato clamorosamente l’obiettivo”.

Cos’è la paura?

“La paura è una compagna di viaggio necessaria. La paura di non essere all’altezza del compito assegnato è la molla che mi spinge ad impegnarmi, a non sopravvalutarmi. Ho pagato a caro prezzo il non aver avuto paura nell’affrontare certe situazioni. Anche mentre rispondo a queste domande, postemi da una gentilissima ed apprezzata giornalista, la paura è seduta qui vicino a me e mi ricorda che ciò che sto per dire non sia scontato ma interessante, che l’ovvio è sempre pronto ad entrare in scena. E certe indecisioni nell’eloquio (che purtroppo il testo non potrà riportare) sono il tangibile segno della sua presenza. A volte mi assalgono paure irrazionali che coinvolgono persone a me molto molto care: fortunatamente sono molto sporadiche ed ho imparato a gestirle. Non ho paura di morire e di questo devo ringraziare la mia professoressa di lettere del liceo Giacomo Leopardi: “è funesto a chi nasce il dì natale” possiamo leggere nella splendida poesia dedicata al pastore dell’Asia. È il prezzo che dobbiamo pagare per vivere e sarei disposto a pagarlo cento volte in cambio di cento altre vite!”

(Scatto dell’Ospite)

Il tema di questo numero di
Condivisione Democratica è l’apparenza. Quanto conta ciò che non si vede?

“L’apparire ha molte valenze, sia
positive che negative: anche il non apparire ha questa doppia valenza che
dipende da come e perché la si usa.

L’abito non fa il monaco, si è sempre
detto, ma in tanti contesti – più attenti alla forma che alla sostanza,
probabilmente perché non in grado di valutarne il merito – vestirsi in un certo
modo, utilizzare un certo tipo di linguaggio fa la differenza. Come ho
affermato in altre occasioni, se in forza di una crescita culturale a tutto
tondo, il tendere ad un certo modello, ad un certo stile di vita, anche se si
deve fare ancora della strada, ti suggerisce di cominciare a comportati “come
se fossi già al traguardo”, quell’apparenza rappresenta la palestra in cui
esercitarsi per impratichirsi di un ruolo cui si aspira. Se invece l’apparenza
è solo una maschera per coprire vizi e animo cattivo allora il
compito degli altri è togliere
quel mantello. Specularmente, a volte un aspetto “dimesso”, al limite da
sembrare ciò che non si è, può servire a mettere a suo agio l’interlocutore o
valutarne le capacità a rapportarsi con persone meno attrezzate. Ho utilizzato
quest’ultima tecnica più volte quando volevo capire quanto fosse preparato il
mio interlocutore su un determinato argomento (di cui ritenevo di avere buone
conoscenze). Mi fingevo un principiante, di poche letture su quel tema: dalla
chiarezza con cui mi illustrava un certo tema potevo comprendere quanto chiara
fosse per lui ciò che mi stava esponendo. E’ una tecnica che ritengo molto
utile per farsi un’idea – in un tempo ragionevolmente breve – del livello di
preparazione di una persona. Peraltro Churchill diceva che riesci a dire una
cosa in modo chiaro solo se la conosci molto bene”.

La scienza e la tecnologia hanno fatto
passi da gigante. Qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare?

“La mia è una risposta “di parte” avendo avuto una formazione molto legata alle discipline scientifiche per antonomasia: la fisica e la matematica sono per me le categorie con cui non solo comprendere la scienza ma il modo principale con cui leggere il mio quotidiano. Il Determinismo è un faro! È ciò che mi ha permesso di tenere ferma la barra nella bufera della pandemia dove si elevavano a leggi universali ciò che si era appreso su Facebook confondendo discipline deterministiche con quelle probabilistiche, facendo equivalere opinioni personali ad evidenze scientifiche.

(Truccato da Nonno Gatto dall’adorata nipotina Cecilia – 5 anni)

Una necessaria premessa, propedeutica
all’analisi del prezzo che il consorzio umano ha dovuto pagare. Il progresso
scientifico, da cui deriva quello tecnologico, ci ha permesso di mettere in
soffitta l’ “ipse dixit” (chiunque si voglia individuare con ipse), ovvero la
categoria che ha permesso di condannare Galileo Galilei; inoltre ci ha  costretto a non credere a ciò che ci viene
detto ma a rispettare solo “le evidenze scientifiche”, il metodo galileiano in
ultima analisi, consapevoli tuttavia che ogni passo in avanti nella conoscenza
non sarà mai un passo definitivo e che potrà essere smentito,
corretto o inglobato da un futuro
passo in avanti. Si pensi alla legge della gravitazione universale di Newton e
la relatività generale di Einstein, dove la seconda ha inglobato la prima.
Sgombrato la strada dal macigno dell’ipse dixit e con in mano la bussola del
metodo galileiano, si è potuto riprendere un cammino per tanti secoli ridotto
ad una strettoia. Abbiamo dovuto accantonare tante illusioni, tante superstizioni,
tante false verità che l’umanità si era costruita nel tempo: ora la Terra non è
più al centro dell’universo, il grembo di una Donna non è più un semplice
contenitore ma un co-attore nella creazione di una nuova vita, l’Uomo non è
stato creato in un paradiso terrestre ma è il frutto di un’evoluzione che
peraltro non lo aveva previsto, per citare il noto saggio di Telmo Pievani.
Certo abbiamo dovuto ammettere che il miraggio fosse solo un fenomeno ottico
che la fisica spiega perfettamente; abbiamo dovuto accettare che i vaccini
abbiano più efficacia del decotto della nonna, anche se non sempre sortiscono
l’effetto desiderato (la medicina è una disciplina probabilistica non
deterministica!)  e consolarci con il
fatto che quelli salvati sono molti, molti di più di quelli cui il vaccino ha
nuociuto. Per farmi capire: se lascio cadere un sasso, qualunque sia la sua
forma o il
suo peso, esso cadrà sempre a terra e con la stessa
accelerazione grazie alla forza di gravità, quando invece somministro un
farmaco, anche se è passato al vaglio di tutti i protocolli di sperimentazione
fin qui noti, avrò un’alta probabilità che sortisca l’effetto desiderato (la
guarigione di una certa patologia) non la certezza.

In ultima analisi, il prezzo che
abbiamo dovuto pagare alla scienza è la perdita di una lettura semplificata (a
volte addirittura semplicistica) del mondo che tuttavia ci viene restituito
sotto la forma di una aumentata capacità di saper leggere la Natura.

Diverso discorso è per le tecnologie.
Il benessere di cui soprattutto il mondo occidentale gode è merito delle
innovazioni tecnologiche: la plastica ad esempio ha permesso di realizzare
oggetti utili a costi molto bassi: dalla semplice terrina per l’insalata al
bypass cardiaco, passando per i paraurti di un’auto, per la tastiera del
computer. Tutto molto bello, comodo, a basso costo se …. in mezzo all’oceano
Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) non si fosse formata un’isola di rifiuti
di plastica ampia come la Spagna (alcuni dicono come gli Stati Uniti). Ci si
chiede: la compromissione della vita degli oceani vale la comodità di una
terrina per l’insalata? Credo che i lettori di questa interessante rivista
digitale (Condivisione Democratica) siano anche frequentatori dei social media:
io li uso molto sia per informarmi sia per tenere i contatti sia ancora per
divertimento. È davvero bello poter interagire con immediatezza anche con chi
sta dall’altra parte del mondo, è molto utile avere informazioni di prima mano,
è molto comodo potersi fare aiutare nella ricerca di un ristorante o di un
prodotto ed un istante dopo prenotare (avendo anche uno sconto) o ordinarlo ed
il giorno dopo averlo a casa. Come avrà facilmente compreso vivo appieno il mio
tempo (in altri contesti si sarebbe usata la locuzione “è uomo del suo tempo”).
Tutte queste comodità hanno però un costo molto alto per ciascuno di noi che
navighiamo grazie ad un browser (uso prevalentemente Safari), utilizziamo un
motore di ricerca (uso Google, peraltro ho tenuto tanti seminari sui motori di
ricerca), teniamo i contatti con i social (uso molto Facebook e Instagram,
abbastanza Twitter e Telegram e ormai l’indispensabile WhatsApp) però pagando
il prezzo che tutto ciò che caratterizza la mia presenza sulla rete è diventato
di proprietà dei grandi player della rete (Google, Facebook, ecc.) che
utilizzano i miei dati per fare business. I miei interessi, i mei gusti
interessano chi produce beni o servizi in grado di incontrali o soddisfarli; le
mie convinzioni politiche interessano le organizzazioni politiche ma anche la
polizia (per non parlare dei servizi di intelligence); i miei orientamenti
sessuali o religiosi possono interessare un datore di lavoro o un gruppo
sociale. La mia immagine può essere utilizzata, insieme a migliaia e migliaia
di altre, per costruire un archivio con cui istruire un algoritmo di
riconoscimento facciale; oppure la mia immagine essere scelta da un altro
algoritmo fra i probabili responsabili di un certo fatto criminoso perché l’identikit
fornito all’algoritmo lo rimanda alla mia immagine; oppure le ormai ubique
telecamere davanti cui transito spostandomi semplicemente da un punto all’altro
della città permettono ai gestori di quelle telecamere di ricostruire i miei
spostamenti, in modo analogo a ciò che può fare il gestore della SIM del nostro
smartphone che sa in ogni istante dove siamo ed a che velocità ci spostiamo. In
sintesi, paghiamo tutto ciò in termini di compressione delle
libertà individuali. Il mio
maestro mi ammoniva sempre: comincia a
preoccuparti seriamente quando ti
renderai conto che non potrai più metterti le dita nel naso senza che nessuna
ti veda. Siamo giunti purtroppo a questo punto.

D’altra parte chi sarebbe disposto a
ritornare al solo telefono a gettoni, allo scambio epistolare per dare ed avere
notizia? L’importante è non lasciare tutte queste informazioni nelle mani dei
consigli di amministrazione di imprese private senza aver varato norme
stringenti che ne regolino l’acquisizione e la conservazione. Ritorno al
problema del ruolo centrale dei parlamenti che dovrebbero urgentemente normare
questo settore, con norme sia a livello nazionale sia sovranazionale. Come ben
sappiamo in Internet non esiste la dimensione spaziale – ogni web è lì a
portata di un click – e questo costringe ad avere una normativa sovranazionale
oltre ad una nazionale. Come si può ben comprendere stiamo pagando un prezzo
molto salato per potere fruire dei servizi di una società digitale.

Se il mondo digitale è così “costoso”,
altri settori tecnologici sono meno voraci. Penso ad esempio all’aumentata
sicurezza nei trasporti (le auto sono sempre più sicure), alle macchine
salvavita (come quelle per la dialisi o i pacemaker) che sono sempre più
affidabili ed efficienti, alle protesi sono sempre più sofisticate per citar
solo alcune applicazioni della tecnologia delle quali non potremmo fare a meno.
Credo che si possa convenire che se arriveremo in breve tempo ad una normativa
sulla gestione delle informazioni personali il bilancio dell’uso delle
tecnologie possa essere certamente positivo senza alcuna riserva. D’altra parte
chi sarebbe disposto a tornare al calesse, alla candela, al decotto di lino?”.

Nel 1970 si laureava in fisica presso
l’Università di Bologna con una tesi sperimentale svolta presso l’Istituto
Nazionale di fisica nucleare
.
Cosa significava essere uno scienziato allora quando tutto sembrava ancora
da scoprire ed il futuro appariva come qualcosa da costruire per un mondo
migliore e possibile?

“Sono approdato all’università solo pochi anni prima che scoppiasse il Sessantotto e la facoltà che frequentavo fu uno dei centri di quel movimento mosso dall’utopia di rivoluzionare il mondo. Allora ci si credeva, si leggeva la scienza prevalentemente in chiave sociale e di classe. Come lei certamente saprà il filosofo di riferimento era Herbert Marcuse e L’uomo ad una dimensione il verbo a cui attingere, la scienza doveva essere strappata dalle mani “del capitale e dei padroni” ed essere messa a disposizione delle masse proletarie e degli operai.

(Bologna – Scatto dell’Ospite)

Parole d’ordine che allora avvolgevano e convincevano ma che oggi, a più di 50 anni di distanza, stento francamente a comprenderne la reale valenza e soprattutto il vero obiettivo. Di allora ricordo la passione per i passi da gigante compiuti dalla fisica nei 50 anni precedenti: dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla fisica nucleare all’uomo sulla Luna. Erano la conferma che la fisica ed anche la matematica permettevano di leggere correttamente il mondo e che tutto ciò avrebbe reso il mondo migliore. Non avevo fatto i conti, non avevamo fatto i conti, allora con gli altri attori sociali, oltre gli scienziati. Infatti ero ancora all’università quando scoppiò la bomba alla filiale della banca nazionale dell’agricoltura in piazza fontana a Milano; già lavoravo al Centro interuniversitario CINECA quando cominciarono ad apparire le prime stelle a cinque punte inscritte in un cerchio (il simbolo delle Brigate Rosse), quando fu rapito Aldo Moro e quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. In un simile contesto sociale le utopie o anche semplicemente le aspirazioni personali e collettive passano in secondo piano perché è in pericolo il bene primo: la democrazia. Ho dovuto attendere gli anni Ottanta per riprendere a “sognare” un mondo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia e ciò è successo quando fui chiamato ad unirmi al gruppo di lavoro che avrebbe dovuto assistere il ministro (meglio la ministra) della pubblica istruzione di allora a redigere e tradurre in pratica le linee guida del Piano nazionale informatica per le scuole medie superiori. Gli anni del progetto furono l’occasione per adottare soluzioni innovative, per formare una classe di docenti più preparata (ebbi la responsabilità di organizzare la formazione complessivamente circa 6.000 docenti). Furono anni in cui sperammo che una scuola più in linea con i tempi potesse garantire agli studenti di allora un futuro meno difficile: non potevamo immaginare che dieci anni dopo sarebbero arrivati ministri della pubblica istruzione che invece di aiutare la scuola pubblica a migliorarsi ancora avrebbero adottato provvedimenti che la avrebbero fortemente penalizzata a vantaggio della scuola privata. Per fortuna quegli anni Novanta videro l’uscita di Internet dai laboratori di ricerca (al Centro presso cui ero cominciammo ad utilizzare Internet nel 1986) e raggiungere il grande pubblico. Fu quella l’occasione per far conoscere questa tecnologia ai decisori nazionali e locali e dar vita alle prime reti civiche. Fui coinvolto fin dal suo concepimento alla progettazione e alla realizzazione della rete civica Iperbole (vinse il premio europeo della Bangemann Challenge) e l’utopia (in parte realizzata) di portare il Cittadino all’interno delle istituzioni e in grado di interagire con esse in tempo reale. Erano le basi per quella democrazia diretta che tanto mi interessa e che sarebbe stata di stimolo per quella rappresentativa. Il modello Iperbole (acronimo di Internet per Bologna e l’Emilia-Romagna) lo esportai in tante altre città dell’Emilia-Romagna e in altre regioni italiane. La tecnologia più recente veniva portata nelle case dei Cittadini e avrebbe dato loro la possibilità di far sentire la propria voce. Forse una delle utopie sessantottine concretizzata?”.

I temi legati all’ecologia sono stati
sempre a lei molto cari. Gli esiti però non sembrano essere stati quelli che
tutti si auguravano, cosa è andato storto? C’è ancora la speranza di poter fare
qualcosa di buono, giusto, sano e corretto?

“Il tema mi è sinceramente caro anche
se, come lei ben sa, non sono un esperto. Le opinioni che mi sono fatto sono il
frutto di letture (buone) e di ottime conferenze come quella di sabato scorso
di Bruno Carli, accademico dei Lincei, cui ho assistito. Lei mi chiede cosa sia
andato storto: la risposta non può che essere al plurale, vale a dire che il
comportamento di ognuno di noi ha contribuito a far ammalare il nostro pianeta.
Certo con responsabilità affatto diverse fra un presidente del Consiglio e chi
scrive, ad esempio, ma con la consapevolezza che è sul modello di sviluppo che
occorre intervenire in primis. Scrive infatti il prof. Carli in un articolo del
2020:

<<Come risultato della crescita della popolazione e dell’aumento dei
consumi, la domanda di energia e risorse è cresciuta talmente che tutte le
evidenze scientifiche mostrano che ci stiamo scontrando con i limiti
fondamentali del pianeta.
>>, ed ancora sempre Carli in un saggio del
2017 edito da il Mulino: <<La scienza ci dice che è in corso un
cambiamento climatico, che questo è causato dall’uomo, che in futuro alcune
risorse e alcune regioni del pianeta potrebbero non essere più utilizzabili nei
modi in cui siamo abituati e che per arrestare questo processo occorrono
interventi drastici […]. Se e come agire sulla base di queste conoscenze è ora
una scelta politica che riguarda la strategia con cui vogliamo gestire il
futuro nostro e del pianeta
>>. Da ciò che ho letto ed ascoltato
non esiste una soluzione: occorre trovare il concerto fra le diverse soluzioni
ognuna delle quali ne ottimizza l’applicazione, tenendo conto anche di fattori
specifici. L’unica cosa certa è che occorre fare presto, molto presto e bisogna
farlo tutti assieme: non è sufficiente – anche se utile – che solo una parte di
noi diventi virtuosa, occorre che lo si diventi tutti. L’anidride carbonica
emessa in aria in Italia contribuisce al problema del riscaldamento e non solo
dell’Italia ma dell’intero globo. Occorre puntare, sottolineava Bruno Carli,
sulle energie rinnovabili, sull’efficientamento energetico, sul passaggio
all’elettrico abbandonando l’uso dei combustibili fossili”.

Non sempre la scienza è stata legata a
progetti autonomi ed indipendenti, spesso si è arresa al servizio di interessi
economici molto importanti che in qualche modo l’hanno indirizzata verso
obiettivi pilotati e commissionati. Chi può e deve difendere la scienza da
percorsi fuorvianti e dannosi?

“Certamente l’episodio più importante
di indirizzamento della scienza verso obiettivi discutibili è individuabile nel
progetto Manhattan, vale a dire la realizzazione della prima bomba atomica e la
conseguente distruzione di Hiroshima e Nagasaki, che ha visto la partecipazione
dei più preparati fisici e matematici allora esistenti. Per inciso ricordo che
un ruolo fondamentale in quel progetto fu ricoperto da Enrico Fermi cui è
dedicato l’istituto di fisica dell’Università dell’Illinois e un grande
laboratorio di ricerca, il FermiLab, entrambi negli USA. Da quell’esperienza,
certamente fondamentale dal punto di vista scientifico, Fermi trasse un
insegnamento che fu poi recepito nello statuto del Centro Europeo di Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra: un centro di ricerca accademico non può essere
utilizzato per ricerche coperte da segreto militare. Fu questo il testamento
che Fermi, morì infatti pochi mesi dopo, consegnò ad Edoardo Amaldi, incaricato
di redigere lo statuto del costituendo CERN. Alla sua domanda rispondo quindi:
gli scienziati e solo loro devono decidere verso dove orientare la loro
ricerca, almeno per quella parte della ricerca che viene detta di base, vale a
dire che studia le parti fondanti dell’universo in cui viviamo. Questa ricerca
deve essere finanziata senza condizionamenti se non quelli insiti nei metodi
stessi che la comunità scientifica si dà, vale a dire che i risultati devono
essere riconosciuti tali anche dagli altri scienziati. Se poi un governo o una
società privata vogliono che si esplorino ad esempio le potenzialità e i campi
di impiego di un nuovo materiale, che si cerchino farmaci per curare una certa
malattia ecco tutto questo attiene alla trasformazione dei risultati
scientifici in applicazioni tecniche ed industriali. Resta evidentemente il
grande problema degli aspetti etici: se lo studio dell’atomo non ne pone, ne
pone tantissimi lo studio e la manipolazione delle cellule. Non mi trova
d’accordo che in alcuni settori di ricerca un comitato (ad esempio quello
bioetico), formato anche da rappresentanti di confessioni religiose, o ad esse
riferentisi, possano mettere il veto su una proposta di ricerca. Come vede,
gentile sig.ra La Vecchia, pur essendo credente sono molto laico, una laicità
corroborata anche da importanti letture come il saggio di Peter Harrison
The Territories of science and
religion
”.

E’ giusto credere in una scienza ed in
un progresso tecnologico ad ogni costo?

“L’unica cosa che deve essere fatta ad ogni costo è ciò che può impedire qualcosa di irreparabile. La scienza e la tecnologia sono entità, mi passi questo termine, che per loro natura non possono essere cristallizzate. Si possono rallentare ma mai fermare o far regredire per la semplice ragione che la scienza nasce ed abita la mente dell’uomo. Pensi che Newton formulò la teoria corpuscolare della luce mentre era confinato in campagna a causa di una epidemia e aveva con sé solo carta e penna. Il raggio di luce che, entrando da un foro della finestra, disegna sulla parte opposta un “arcobaleno” lo spinge a indagare sulla natura della luce. Quali gli strumenti a disposizione? Una giornata di sole, un forellino in una finestra socchiusa, una stanza in penombra e la straordinaria mente di uno dei più grandi scienziati di sempre. Questo improbabile mix è il responsabile di uno dei più importanti risultati della fisica contemporanea; coinvolto nel calcolo delle traiettorie delle mitragliatrici della contraerea, a John von Neumann, forte anche di esempi precedenti (ad esempio Babbage, Zuse), fa sul foglio di un bloc-notes uno schizzo che alla stazione di Filadelfia (siamo all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale) mostra al direttore dei laboratori di calcolo di Aberdeen dell’esercito americano. Quello schizzo è lo schema funzionale di tutti i computer che dal 1943 in poi sono stati utilizzati, anche quello che il lettore sta utilizzando nel momento in cui legge questo articolo. Come vede la scienza non è imbrigliatile. Ci possono essere momenti in cui ingenti fondi vuoi pubblici vuoi privati possono essere resi disponibili per un certo settore di ricerca. Di norma questi settori coincidono con la presa di coscienza dell’esistenza di un importante problema (la necessità di abbandonare i combustibili fossili, ad esempio): la spinta ad impegnarsi “ad ogni costo” su questi temi ha alle spalle una motivazione condivisibile e spesso urgente. Quello che occorre assolutamente evitare è che il dirottamento di cospicue risorse finanziarie su questi temi urgenti impediscano agli altri settori di continuare il loro lavoro. Purtroppo non sempre c’è la sensibilità, da parte dei decisori politici, ad operare per non penalizzare nessuno”.

Nel 1997 è ideatore del progetto TECA
della Pro Civitate Christiana di Assisi per l’informatizzazione del museo e la
digitalizzazione dei beni culturali ivi contenuti. Ci parli di questa
importante iniziativa. Come nasce l’idea?

“Nel lontano 1997, in aprile, alcuni professionisti di Faenza (che erano in contatto con la Pro Civitate Christiana, detta anche Cittadella di Assisi) vennero al Cineca per propormi di progettare la digitalizzazione del museo della Cittadella. Dagli inizi degli anni ’90 al Cineca mi occupavo anche di Digital Cultural Heritage e pertanto l’invito fu prontamente accettato. In quel periodo, ero impegnato in un importante progetto (detto NUME), in collaborazione con l’Università di Bologna, che aveva l’obiettivo di ricreare in 3D la Bologna medievale con la possibilità di vederne le trasformazioni nel tempo. Quel progetto mi permise di familiarizzare con le tecnologie più all’avanguardia (il progetto fu presentato ad un convegno negli USA) rivolte all’acquisizione e all’elaborazione di immagini in ambito culturale.

(Una sala del Museo – Scatto dell’Ospite)

Dopo una serie di sopralluoghi in
Assisi, scrissi un progetto, dedicato all’informatizzazione del museo (che
battezzai TECA – Testimonianze Ecumeniche alla Cittadella di Assisi) che
presentai al MiBAC e che fu finanziato per intero: 1500 milioni di lire. Il
progetto TECA fu realizzato fra il 2001 e il 2003 ed io ne fui il project
manager. Il progetto TECA ebbe un’immediata ricaduta anche sulla biblioteca del
Sacro Convento di Assisi, in cui sono conservati tra l’altro i manoscritti di
san Francesco, perché appena si seppe che stavo lavorando per la Cittadella fui
contattato per scrivere un progetto per digitalizzare gli antichi manoscritti
conservati in quella biblioteca. Fu una vera emozione poter prendere in mano
(dopo aver indossato un paio di guanti) i manoscritti del Poverello di Assisi.

Tornando
al progetto TECA, i suoi frutti possono essere così sintetizzarli:

  1. Digitalizzazione di 2681 opere della
    Galleria, pari al 65,9% delle opere conservate, e rendere accessibili i
    corrispondenti oggetti digitali via Internet;
  2. Protezione gli oggetti digitali con la
    tecnologia del watermarking (filigrana digitale);
  3. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 1535 opere, pari al 37,7% dell’intera collezione della Galleria, e renderlo
    accessibile via internet;
  4. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 35.002 volumi (pari al 50% del patrimonio conservato) e renderlo accessibile
    via internet;
  5. Digitalizzazione dell’intero fondo
    antico delle Cinquecentine, 17 volumi per complessive 8098 pagine, proteggerle
    con la tecnica del watermarking e renderle accessibili integralmente via internet;
    due di esse sono state trasposte anche in formato full-text;
  6. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    delle opere della Fonoteca registrate su supporto vinilico e renderlo
    accessibile via Internet. Sono state catalogate 6207 opere per complessivi 8150
    supporti;
  7. Conversione analogico-digitale dei
    dischi di maggior interesse e/o in precario stato di conservazione pari a circa
    140 ore di ascolto;
  8. Restauro digitale dei brani musicali
    compromessi da supporti in precario stato di conservazione;
  9. Creazione del portale attraverso cui
    accedere agli archivi, effettuare delle visite virtuali, avere informazioni
    sulle mostre, i seminari e le altre iniziative culturali, acquistare poster,
    riproduzioni, aderire all’Associazione “Amici dell’Osservatorio – ONLUS” [ora
    “Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana Organizzazione di
    Volontariato (ODV)”]

Tutto questo 20 anni fa”.

Perché l’interesse per Assisi?

“Ero stato in Cittadella per un
convegno nel dicembre del 1971 ma lo consideravo un episodio che non avrebbe
avuto un seguito. Furono le tante visite propedeutiche alla scrittura del
progetto TECA a farmi prima conoscere quella realtà e poi legarmi con un affetto
straordinario ai volontari laici che la gestiscono. Furono le persone con cui
interagii, purtroppo molte di loro non ci sono più, che con la loro cultura,
umanità e gentilezza mi accolsero subito come uno di loro. La “magia” che
ancora pervade la Cittadella è quella di far sentire a proprio agio chiunque:
dal credente all’ateo, dal conservatore al progressista, dall’uomo della strada
al docente universitario. Nel corso degli anni (fu fondata nel 1939) tutti i
grandi della cultura, delle arti figurative, del cinema e del teatro, della
musica e della politica italiana si sono fermati in Cittadella lasciando
preziose testimonianze in convegni e congressi, oltre a scritti e interviste.
Si sono fermati in Cittadella ad esempio Rossellini, Vlad, Pasolini, Luzi, De
Chirico, Moro ed anche papa Giovanni XXIII, amico fraterno del fondatore della
Pro Civitate don Giovanni Rossi. Ho quindi iniziato ad affezionarmi a questa
abbazia laica attraverso le opere d’arte conservate nella Galleria d’arte
contemporanea (curata con abnegazione da Anna Nabot), che ospita capolavori del
secondo Novecento italiano, con qualche eccezione come l’americano William
Congdon, che per tanti anni frequentò la Cittadella, dopo essersi trasferito da
Venezia ad Assisi. Un museo che sorprenderà per la ricchezza e singolarità
delle opere ospitate, un numero importante delle quali appartiene alla
collezione di Gesù lavoratore, opere in cui viene reso omaggio ai lavoratori,
dal muratore al carpentiere, al fabbro attraverso la figura del Cristo”.

Qual è attualmente la situazione
dell’associazione e quali sono i progetti e le iniziative future?

“Come tutte le associazioni di
volontariato che non hanno alle spalle uno o più sponsor, l’associazione Amici
dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana – Organizzazione di
Volontariato (ODV) che presiedo dal 2011, la cui missione è assistere e
promuovere il museo della Cittadella, ha sempre più idee di quante ne possa
realizzare. Se da un lato i soci sono distribuiti un po’ in tutta Italia –
negli scorsi anni ne abbiamo avuti anche dall’estero – permettendoci di avere
un qualche riscontro anche in luoghi lontani da Assisi, dall’altro l’attività
ricade prevalentemente sul presidente e sui consiglieri, non potendo contare su
adeguate forze ubicate in Assisi. Oltre alla carenza cronica di persone
fattivamente coinvolgibili, l’associazione vive una perenne situazione di
inadeguatezza del budget a disposizione. Nonostante queste condizioni, non
certamente ottimali, con tenacia e perseveranza cerchiamo di onorare gli
impegni che lo statuto ci impone e quindi, grazie anche alla “quiete” del
lockdown abbiamo messo a punto alcune idee progettuali per i prossimi anni.

Partendo dalla considerazione che
dalla realizzazione del progetto TECA ad oggi la tecnologia del web aveva fatto
passi enormi, soprattutto in termini di accesso alle informazioni, alla loro
condivisione e alla loro ricerca e che il look del sito web scaturito dal
progetto (
www.procivitate.assisi.museum) mostrava i segni del tempo, come una
rosa recisa, abbiamo deciso di metterci mano. Delle scelte tecnologiche di
allora tuttavia si sono rivelate time independent gli standard adottati per
digitalizzare le immagini, la fase del progetto più onerosa sia in termini di
tempo sia di risorse umane e finanziarie.

La fase uno del progetto JANUS

Con queste premesse, risulta
abbastanza naturale pensare di cambiare la “cornice” ad una “tela” di pregio e
con queste finalità è stato concepito il progetto JANUS. Il nome tradisce
apertamente gli obiettivi: ci saranno due interfacce web, una per accedere alle
informazioni del museo, l’altra per accedere al web dell’associazione: entrambe
accederanno, tramite una opportuna interfaccia, a tutte le informazioni digitali
esistenti (opere d’arte, stampe antiche, musica, libri, cinquecentine) come
fossero in un unico archivio che sarà trasportato sul Cloud in modo da
garantirne la funzionalità h24 ed avere una velocità di accesso molto maggiore
da qualunque parte del mondo l’utilizzatore si colleghi. L’interfaccia web sarà
multilingue: italiano e inglese per ora.

Questa riorganizzazione dell’accesso
alle informazioni digitali permetterà al visitatore virtuale di accedere a
tutte le informazioni disponibili su un certo autore o una certa opera nelle
diverse sezioni. Ad esempio, un visitatore interessato a Giorgio De Chirico (la
Galleria conserva una splendida opera del grande maestro metafisico dal titolo
Gesù Divino Lavoratore del 1951) digitando il suo nome otterrà l’immagine della
tela del 1951, le immagini dei 4 disegni conservati nel Gabinetto delle stampe,
l’elenco dei libri che sono dedicati a lui.

Le interfacce web permetteranno di
soddisfare le esigenze di visitatori affatto diversi: dal semplice “curioso”,
all’appassionato di arte, allo studioso e al ricercatore.

Il progetto JANUS esplorerà anche la possibilità
di creare delle immagini NFT (Non-Fungible Token), immagini digitali uniche e
non replicabili, per dare la possibilità al museo di crearsi una fonte di
finanziamento vendendo gli NFT delle sue opere, avendo già la base digitale per
realizzarle.

Inoltre le opere della Galleria d’arte
contemporanea, una sezione del museo, verranno corredate di un codice QR per
permettere al visitatore di avere sul proprio smartphone le informazioni utili
per comprendere l’opera di fronte alla quale si trova.

Il progetto JANUS è stato finanziato
al 60% dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia: il restante 40% è
in parte coperto con i fondi dell’associazione che presiedo e per la parte
rimanente contiamo su donazioni e sponsorizzazioni che sto cercando. Iniziato
nel dicembre del 2021 avrà una durata di 12 mesi.

Abbiamo già pensato ad una fase due e
tre del progetto: il problema, come si può facilmente intuire, è rappresentato
dalle risorse finanziarie.

La fase due di JANUS prevede la digitalizzazione dell’epistolario
degli autori le cui opere sono conservate nel museo. Si tratta di circa 10.000
lettere che i diversi artisti, da De Chirico a Prosperi, da Carrà a Pirandello
e Rosai, hanno scritto a don Giovanni Rossi per spiegare, commentare le loro
opere. Molte lettere, tuttavia, vanno oltre il mero dato “contingente” e sono
vere e proprie confidenze ad un sacerdote. Si ha un quadro molto umano di
questi artisti, molti di loro pilastri dell’arte italiana del secondo
Novecento. Crediamo sia importante mettere a disposizione questo materiale
autografo a studiosi e ricercatori, senza compromettere l’integrità
dell’archivio. Il progetto potrebbe essere completato nell’arco di 18 mesi e
l’archivio generato integrato con quello creato dalla fase 1 di JANUS. Stiamo
cercando i fondi e sarò felice di illustrare i dettagli ad un eventuale
sponsor.

La fase tre di JANUS è un progetto molto ambizioso. La Pro
Civitate Christiana fondata nel 1939, come già ricordato, ha svolto un ruolo
molto importante nella cultura e nella società italiana. Si sono fermati lì
tantissimi protagonisti della cultura e della politica italiana: da Moro a
Rossellini, da papa Giovanni XXIII a Roman Vlad, da Pasolini a Luzi per citarne
solo alcuni.

E queste persone hanno lasciato
testimonianze scritte, sonore e di immagini ora conservate (su supporti
analogici) nell’archivio generale della Pro Civitate Christiana. Inoltre i
volontari ancora in vita e che hanno vissuto quelle passate stagioni e quelle
più recenti sono “memorie” viventi cui vorremmo “far raccontare la loro vita” e
rendere disponibili anche queste testimonianze ai posteri.

Purtroppo l’archivio non è mai stato
digitalizzato. Vorremmo intraprendere questa iniziativa per consegnare alla
storia tutte queste informazioni. Il progetto è ambizioso ed anche molto
costoso: ad una prima stima occorrerebbero non meno di 5 anni ad un team di
almeno 4-5 persone in modo da mettere a disposizione del progetto competenze
archivistiche, informatiche, biblioteconomiche avvalendosi anche di strutture esterne
per realizzare le (lunghissime) interviste. Sarebbe molto bello che un
importante mecenate, o un gruppo di mecenati, volesse associare il proprio nome
a questa iniziativa che verrà consegnata alla storia. Anche in questo caso sarò
lieto di poter esporre il progetto a chi potrebbe esserne interessato.

Infine alcune informazioni sull’associazione che presiedo.: Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana ODV (organizzazione di volontariato) ha sede in Assisi presso la Pro Civitate Christiana (nota anche come Cittadella di Assisi) in via degli Ancajani 3 – 06081 Assisi è stata fondata nel 2000 per aiutare il museo della Pro Civitate dopo il terremoto del 1997. Ha soci sparsi in tutta Italia e si finanzia con le quote sociali, le donazioni e il 5 x mille e con questi fondi assiste il museo, purtroppo non per tutte le necessità per l’esiguità delle risorse disponibili. L’indirizzo di posta elettronica è amiciosservatorio@gmail.com e il sito web è www.amiciosservatorio.org”.

(Scatto dell’Ospite)

Una breve visita virtuale del museo
può essere effettuata raggiungendo questo link

L’idea di essere un uomo di scienza è
sempre stata presente nella sua vita?

“Mi è sempre sembrato naturale
occuparmi di scienza fin dai tempi del liceo quando mi resi conto che il
professore di matematica e fisica (ho frequentato il liceo scientifico Serpieri
di Rimini) era l’unico in grado di catturare il cento per cento della mia
attenzione. L’iscrizione a fisica fu una cosa quasi naturale (oggi sceglierei
matematica, ma questo è un altro discorso), così come fu casuale il mio
diventare un informatico. Lo stesso giorno in cui mi laureai andai nella sede
del Cineca a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, per salutare alcuni
compagni di corso che già lavoravano là ed anche un professore di fisica, con
cui ero in contatto, che aveva iniziato a collaborare con quel centro. Entrai
come visitatore e ne uscii come dipendente. Non sono rimasto disoccupato
nemmeno dodici ore! La matematica, l’informatica e le loro applicazioni nelle
diverse discipline scientifiche prima e poi in quelle statistiche ed
umanistiche divennero il mio “pane” quotidiano. Non ho mai preso in considerazione
il cambio di campo.

Tuttavia qualcosa cominciava a
bruciare sotto la cenere: una costante necessità di leggere “cose” non
tecniche: mi appassionai alla letteratura ispano-americana e
portoghese-brasiliana di cui ho letto tantissimo, mia appassionai alla musica
sinfonica e da camera (che nel 2005 abbandonai per abbracciare il Jazz),
all’arte senza aggettivi.

Quando agli inizi degli anni ’90 mi fu
proposto di occuparmi di tecnologie digitali per i beni culturali queste due
passioni, quella professionale e quella privata, avevano trovato una casa
comune.

La scienza e soprattutto il metodo
scientifico fanno così parte del mio modo di pensare che ho elaborato – per
alleggerire quest’intervista, della quale la ringrazio infinitamente – una
teoria matematica dei vizi.

Questa teoria afferma che il numero di
vizi di ognuno di noi è una costante (detta K) e che i vizi si dividano in
confessabili (Vc) e inconfessabili (Vi). In formula:

Vc + Vi = K

Vale a dire che più si sembra
perfetti, più vizi inconfessabili si hanno.

È la santificazione dei mascalzoni!”

Eppure il suo animo è fortemente
“inquinato” da note artistiche, creative, poetiche e letterate, questo ha
rappresentato un “disturbo” o una distrazione nella sua vita professionale?

“Lo dicevo anche poco fa: l’amore per
l’arte nelle sue moltiplici forme è stato prima un fiume carsico che ha trovato
nel settore del digital cultural heritage il suo punto di emersione. Devo anche
ammettere che l’informatica e solo lei (e non le altre discipline) mi ha come
prosciugato perché è un campo in cui solo molto poco di quello che si è fatto
ed imparato permane nel tempo. Mi spiego meglio: ciò che ho studiato di
matematica all’università è ancora tutto completamente attuale e utilizzabile,
ciò che ho imparato di fisica è al 99% utilizzabile. Ciò che ho imparato (e
conoscevo molto bene) di informatica negli anni Settanta e Ottanta è
utilizzabile solo al 20%, nella migliore delle ipotesi. Quindi le scorribande
nel settore umanistico sono state una necessità che fortunatamente sono
riuscito a rendere compatibile con l’attività professionale”.

Che cosa vuole fare il dott. Grossi da
grande?

“Vorrei scrivere un libro. Ho provato
alcune volte ad iniziare un’impresa di questo genere ma “il da fare quotidiano”
ha sempre avuto la meglio”.

La prima cosa che le viene in mente da
dire ad un giovane oggi.

“Leggi molto, leggi tutto ciò che ti
passa sottomano. Studia, studia, studia e se hai la fortuna di amare il
pensiero astratto studia matematica: è la più straordinaria costruzione
astratta mai creata dalla mente umana”.

I suoi impegni professionali l’hanno
vista da sempre impegnato in giro per il mondo. Come si concilia questo con una
famiglia?

“È stato un problema che non sono
stato capace di risolvere. Gli impegni professionali mi costringevano molto
spesso a spostarmi in Italia e all’estero e devo confessare che amavo quei
viaggi perché mi permettevano di incontrare persone, imparare cose nuove,
visitare luoghi mai visti e non facilmente accessibili come quando, ad esempio,
sedevo nel comitato creato dalla Commissione Europea per l’introduzione
dell’Information Technology o in quello per la collaborazione fra università e
imprese che si riuniva di volta in volta in un paese diverso. Essendo un
comitato europeo riconosciuto venivamo ospitati nei palazzi delle istituzioni
del paese ospitante: edifici per lo più storici che non avrei mai avuto la
possibilità di visitare.

Ho soggiornato per periodi abbastanza
lunghi negli USA (in quelle occasioni portai con me la famiglia), la norma però
era viaggiare solo o con colleghi. Fu durante questi lunghi viaggi che, per
ottimizzare il contenuto della valigia, iniziai a portarmi dietro dei libri di
poesie: un solo libro di poesie può farti compagnia per settimane perché le
poesie si leggono e rileggono più volte anche durante la stessa giornata. Non
lo si fa – almeno a breve – con un libro di narrativa. L’ottimizzazione del
peso della valigia mi ha permesso di addentrarmi nello splendido universo della
poesia.

Non ricordo se nel 1986 o 1987
trascorsi in trasferta più della metà delle giornate lavorative di quell’anno.
Rientrando a casa una sera mia moglie mi chiese di mostrale i documenti prima
di togliere il chiavistello. Come vede il problema c’è stato.

Ora che non sono più in attività ho
una regola aurea: prima gli affetti e poi il resto e finora sono riuscito a
mantenere, nella stragrande maggioranza delle volte, questo impegno”.

Il covid ci ha tolto momenti
importanti e ci ha costretti ad un blocco forzato, ad una paralisi fisica ed
emotiva. In molti parlano di perdita importante, ma ci sono state anche
ricchezze altrettanto importanti. Fermarsi non sempre è un male. Qual è il suo
bilancio?

“Confesso che ho vissuto con una certa leggerezza i mesi del lockdown stretto del 2020. Lo stare in casa mi ha permesso di leggere ed ascoltare tanto Jazz. Con le video conferenze ho recuperato incontri sempre invocati al telefono ma mai realizzati. Avevamo (ed abbiamo) il vantaggio di abitare nello stesso edificio di un grande supermercato per cui non ci è mancato mai nulla né siamo stati costretti a lunghe file potendo decidere quando scendere. Avendo fatto la scelta di essere molto prudenti,  vuoi per le norme imposte, vuoi per i consigli di amici medici, abbiamo ridotto al minimo i contatti: la famiglia di mio figlio maggiore (il minore vive all’estero). Solo sporadicamente la famiglia di mio fratello e quella degli amici più cari: peraltro abitando tutti questi fuori provincia abbiamo dovuto attendere le necessarie autorizzazioni.

(Manifesto di una delle Conferenze)

Mi è mancato l’andare al cinema almeno
due volte la settimana: dal marzo 2020 ad oggi sono stato al cinema una sola
volta nel novembre scorso; mi sono mancati i viaggi; mi è mancata Assisi.

Ho cercato di supplire a questa sosta
forzata organizzando delle conferenze in modalità streaming, di fare riunioni
in videoconferenza.

Ho sempre indossato la mascherina
anche se ora mi accorgo di essere un po’ insofferente.
La sosta forzata cui siamo stati costretti, più che i regimi di
semilibertà che mi hanno creato più problemi che vantaggi, mi ha permesso di
essere padrone assoluto del mio tempo. La giornata era scandita dalle cose che
volevo e mi piaceva fare. Avevo tirato fuori dal fondo di un cassetto un
comodissimo abito da casa con cui sono entrato rapidamente in simbiosi. Un
periodo che mi ha regalato tranquillità e tanto tempo per me. Un paio di mesi
l’anno di lockdown li accetterei molto volentieri”.

Città fondate e cresciute, raffazzonatamente, durante la “febbre dell’oro” in Klondike o in California, le cui case ora sono riempite dalla sabbia del deserto e contengono un’aria polverosa che vortica, riempendo solo di rumori quello spazio altrimenti silenzioso e vuoto.
Antiche costruzioni erette dalla sapiente opera dei Popoli Antichi. Mura, a frammenti, che hanno respinto barbari per secoli e ora nulla possono contro l’edera e la natura che le vince con nuove foglie e nuovi fiori.
Questo, forse, abbiamo in mente quando pensiamo ai “luoghi abbandonati”.
Forse.

(Immagine dal Web)

Pensando ai Luoghi Abbandonati, mi vengono anche in mente diversi luoghi che ho attraversato – rigorosamente a piedi – avendo dentro quella strana sensazione di vivere in un mondo post-olocausto atomico, con tutta la popolazione svanita nel nulla, cose se fossi un sopravvissuto. Attorno a me un silenzio assordante.
Non c’è bisogno di arrivare in Klondike o di visitare Pompei. E’ stato così entrare in un ospedale durante il periodo di “Lockdown stretto”, a Marzo 2020, ed è stato così tornare all’Università nel periodo estivo di quell’anno terribile, è stato così prendere il treno al mattino presto, in una Stazione Termini popolata solo di qualche “invisibile” e di qualche “vigilantes” schivo.
Una sensazione stranissima.
Del resto – pensai proprio su quel treno preso prestissimo – quei luoghi sono stati proprio creati per ospitare persone, e tante, hanno significato intrinsecamente “Antropico” e senza di loro, senza gli essere umani, ne sono snaturati. Sono luoghi che mantengono “tracce di vita” anche se lì di vita non ce n’è più. Se ne può sentire l’impronta, il segno del passaggio dell’essere umano, degli esseri umani. Forse è questo che mi colpisce molto: vedere il segno di quello che l’uomo riesce a fare per adattare lo spazio a sè stesso, a proprio uso e consumo. Mentre lo viviamo ci sembra “naturale”, funzionale per noi, e quindi non ne percepiamo gli effetti, così come quando camminiamo sulla spiaggia pensiamo a mettere un passo avanti all’altro e non pensiamo alle orme che lasciamo dietro di noi. Ma questi luoghi abbandonati sono delle enormi impronte che pian piano la natura ricopre, così come il mare fa sparire le orme sulla sabbia.

Confesso che ho sempre provato un grande fascino per questi luoghi abbandonati.

(Immagine dal Web)

Quando ci penso mi vengono in mente gli attraversamenti dei loro “confini”. Penso alle Reti o ai Muri da superare, passandoci sotto – sfruttando qualche buco nella recinzione – oppure sopra – stando attenti a non graffiarsi con il filo spinato o con i luccicanti cocci di bottiglia rotti impastati nel cemento – oppure attraverso. Sento ancora la sensazione dei mattoni, spaccati e sbrecciati, o di un pezzo di rete ricurvo, che mi graffiano il petto, la schiena, i fianchi, che lacerano la maglietta o i pantaloni. “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” mi dicevano i miei cugini che mandavano avanti me, il più piccolo, per incitarmi. Sento ancora la fatica e l’impegno di voler raggiungere quei luoghi, per poterli visitare, per poterci passeggiare dentro, per guardare attraverso i vetri delle finestre ormai opacizzati dal tempo. Per cercare di capire a cosa servissero i macchinari ormai decisamente obsoleti.

Oltre a questi luoghi fisici, a pensarci, ci sono poi anche luoghi dell’anima, luoghi che sono dentro la nostra anima e che – per qualche motivo – non frequentiamo più, non visitiamo più, eppure hanno lasciato una impronta dentro di noi.
Forse non li frequentiamo più per paura, forse perché presi dal tran-tran quotidiano, forse perché non più coerenti con quello che siamo diventati nel frattemppo. Anche questi luoghi – penso – a visitarli, daranno la stessa strana sensazione: costruiti nell’arco degli anni per ospitare persone, per ospitare voci, luci, per ospitare risate fragorose o lacrime silenziose. Luoghi con la propria “impronta antropica” dentro.

Così come per i luoghi fisici – con le loro stanze polverose, i loro saloni dai vetri rotti, le fessure delle mura dalle quali sparare con gli archibugi, i loro macchinari bloccati, le bobine antiche, i ganci sul soffitto – cerchiamo di capirne il significato, la funzionalità, cerchiamo di capire come camminassero gli uomini, come corressero i legionari sui camminamenti, come vivessero quegli spazi.

Ecco, dopo tanti anni ho capito che quella esortazione forse fisicamente non era proprio vera ma, “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” è proprio vero.