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Il film di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese prosegue le sue presentazioni nel tour italiano.

Nel 1996 uno scoop giornalistico rivela all’Italia che il poeta Dario Bellezza è malato di AIDS: la notizia segna l’inizio del suo calvario. Additato per strada come un appestato, il poeta si chiude in casa per difendere la propria privacy e rivendicando il diritto a rivolgersi a cure sperimentali, in mancanza di un vaccino sicuro contro l’HIV.

Detto “il Rimbaud di Monteverde” per il precoce talento poetico e per la fuga da casa, amico di Amelia Rosselli e di Aldo Braibanti, Dario Bellezza è stato inquieto protagonista di una stagione culturale romana di grande splendore, condivisa con Sandro Penna, Alberto Moravia, Elsa Morante, Anna Maria Ortese e molti altri. “Miglior poeta della nuova generazione” secondo Pier Paolo Pasolini, dopo gli anni della Neoavanguardia Dario Bellezza rimette al centro del discorso poetico l’io e le sue passioni, le invettive e le licenze, gli amori e la morte, in una lingua esplicita e barocca.

Omosessuale provocatorio e controverso, lo definivano “il nostro poeta maledetto”. “Semmai benedetto, dalle Muse” replicava lui, col suo spirito polemico e irriverente.

Bellezza, addio, il nuovo film documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, prodotto da Zivago Film e Luce Cinecittà, con Barbara Alberti, Antonella Amendola, Ulisse Benedetti, Franco Cordelli, Ninetto Davoli, Giuseppe Garrera, Maurizio Gregorini, Fiammetta Jori, Renzo Paris, Elio Pecora, Paco Reconti e Nichi Vendola, presentato in prima mondiale al Pesaro Film Festival lo scorso 20 giugno prosegue le presentazioni nelle varie regioni italiane con un grande e positivo riscontro.

In “Bellezza, addio” gli amici Renzo Paris e Franco Cordelli ricordano il poeta dai tempi dell’Università fino agli anni maturi, passando per le performance nella cantina teatrale romana Beat 72 e il glorioso Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano. Ninetto Davoli, Barbara Alberti e Elio Pecora raccontano una Roma in cui si aggiravano ancora i grandi nomi del Novecento italiano, da Gadda a Palazzeschi, insieme a nuovi “mostri sacri”, mentre i materiali di repertorio, con rarità e video inediti, contribuiscono a disegnare un ritratto inedito di Dario Bellezza e dei suoi “vent’anni di felicità”.

Poi gli anni Ottanta cambiano il mondo e, celebrando il trionfo del libero mercato, viene strappata ai poeti l’ultima briciola di funzione sociale. Ma quegli anni portano con sé anche un virus sconosciuto. Nichi Vendola racconta quello che fu un trauma collettivo, mentre Maurizio Gregorini e Fiammetta Jori ricostruiscono gli ultimi mesi di una vita tutta spesa nel “sacerdozio della poesia”.

Eppure, quando il collezionista Giuseppe Garrera mostra l’archivio privato del poeta che, messo all’asta, lo Stato non ha voluto comprare, ci chiediamo: forse non sono più tempi di poesia? “Finché esisteranno poeti,” rispondeva Dario Bellezza, “sarà sempre tempo di poesia”.

“Il primo incontro che ho avuto con Dario è stato attraverso le opere di Rimbaud che lui aveva tradotto in italiano” racconta la regista Carmen Giardina “e che io divoravo insaziabile da adolescente. Il documentario di Dario non è soltanto il ritratto di un poeta ma è anche una riflessione su quello che abbiamo perduto e anche su dov’è oggi la poesia, se ancora ce ne sia bisogno, se ancora abbia un senso, se è ancora viva. Dentro il film c’è tutto questo, infatti il titolo, non casuale, è Bellezza, addio”

“Provocatore, talentuoso, maledetto, sicuramente una personalità fuori misura, Dario Bellezza è stato detestato, ma anche molto amato” prosegue la regista, “Nel film, poeti, scrittori e amici di Dario danno un prezioso e affettuoso contributo non solo con le testimonianze personali, ma anche con un confronto a distanza sullo stato di salute della poesia, permettendo di allargare lo sguardo dal mero racconto biografico ad un orizzonte più ampio.

Ancora una volta, la collaborazione con Pivio e Aldo De Scalzi è stata per me basilare, la colonna sonora è uno dei pilastri su cui è costruita l’architettura del film. Una musica che non si nasconde, anzi, diventa quasi un personaggio in più, spaziando dall’elettronica al lirismo dei brani orchestrali.

Io sono stata un’adolescente affamata di poesia, e oggi? Chissà che Bellezza, addio non spinga qualcuno a leggere i versi di Dario… Di poesia abbiamo sempre bisogno”.

Una rassegna stampa incredibilmente vasta e bella che elogia quest’opera grandiosa che ha voluto fortemente “raccontare” la poesia, una Roma viva culturalmente dove si percepiva ricchezza artistica fatta di teatro, letteratura, arti figurative, musica, una stagione fantastica di cui faceva parte anche Dario Bellezza.

Definitivo “film dalla solida e avvincente drammaturgia che lascia l’amaro in bocca ma che il desiderio di leggere o rileggere Dario Bellezza”, “Non è affatto un film triste, perché la poesia è salvifica, perché è commovente ascoltare Elio Pecora”, “Giardina e Palmese bravissimi a catturare la meravigliosa drammaticità di un uomo che era un insieme di contraddizioni, gioia, dolore, sorrisi, malinconie, amori, frustrazioni”.

Appassionato e coinvolgente Bellezza, addio ci pone davanti a mille questioni, a scandali assurdi da immaginare, a vite rivoluzionarie, ad artisti che della loro voce hanno fatto un sentiero invitandoci tutti a seguirlo, ognuno a modo suo ovviamente. Perché quel momento, quella Roma, quell’insieme di intellettuali straordinari che “solo a nominarli tutti viene il capogiro”, hanno creato un lavoro incredibile che noi tutti oggi abbiamo il terrore che possa andare perduto ed anche a questo pensiero non solo ci gira la testa ma ci tremano anche le gambe.

“L’Italia non ricorda”, diceva lapidario Aldo Braibanti. Fin da quando mi sono imbattuto in questo pauroso giudizio sul nostro Paese ho pensato a un cinema documentario che scavasse tra le pieghe della memoria collettiva” racconta il regista Massimiliano Palmese.

“A questo scopo il mio lavoro di drammaturgo mi è utile. Penso che per raccontare vita e opera di artisti e scrittori occorra trovare o costruire un architrave drammatico, così che un film possa non solo informare ma stupire, scuotere, incidere. E quello a cui mi dedico nell’ideazione dei documentari è sottolineare in quelle vite la tragica frizione tra artista e società, individuo e mondo.

Trattare i poeti al cinema non è però cosa facile: il pericolo del “santino” è dietro l’angolo. Per questo trovo sia meglio lasciar parlare l’artista attraverso i testi e i materiali di repertorio, e scegliere di intervistare quelli che l’hanno conosciuto prima di chi l’ha soltanto studiato. E poi non censuro i lati bruschi dei caratteri, i temperamenti appuntiti, le vite di eccessi e di errori. Solo così, mi pare, una biografia vive e respira, e l’artista torna a parlarci dicendo di sé cose palpitanti e vere.

Oggi che siamo tutti concentrati sul presente, se non sull’attimo, mi dedico a riscoprire figure del passato. Spiriti inquieti che potrebbero risvegliare la memoria di un Paese assonnato.

La poesia, lì dove sono nato, è il luogo dove ritorno grazie al cinema. E dunque da Aldo Braibanti a Dario Bellezza e in futuro a Sandro Penna, la mia ricerca nel cinema documentario mi pare segnata”.

La vedo tutta lì la sorte mia:

unico interesse di giornate

smarrite ormai è dietro di me,

e tanta avanti ne avrei potuto

avere, con dedizione e calma

al quotidiano scorrere del tempo.

Ignoro perché Qualcuno abbia

deciso il contrario!

Poveri, pochi anni

sono rimasti, gelidi, limitati;

li dubito e li annuso sperando

di moltiplicarli e cedo deluso

al rimpianto calunnioso – non so

più poetare. Io so, l’idea lucente

del nulla stasera non aggiunge

allegra compagnia. Oh come è finita

la speranza! Dio non punirci

ancora se siamo vivi.

Da “L’avversario” di Dario Bellezza (1994)

Biografie

Carmen Giardina

Attrice e regista formatasi presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova.

Come attrice è diretta da Cristina Comencini, Marco Risi, Peter Greenaway, Giancarlo Sepe, Umberto Marino, Manetti Bros., Alessandro D’Alatri, Jèrome Salle e molti altri.

È interprete e co-sceneggiatrice di Sleeping around, film di Marco Carniti con l’attore argentino Dario Grandinetti (Parla con lei) e Anna Galiena.

È tra i protagonisti del film Il contagio insieme ad Anna Foglietta e Vinicio Marchioni, regia di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini in concorso alle Giornate degli Autori alla 74° Mostra del Cinema di Venezia. Attualmente sta interpretando l’icona della moda Anna Piaggi nella serie Kaiser Karl prodotta da Gaumont per Disney Plus.

Come regista dirige tre cortometraggi pluripremiati: Turno di notte prodotto da Cinecittà Holding con Leo Gullotta, La grande menzogna con Gea Martire e Luciana De Falco, e Fratelli Minori con Paolo Sassanelli e Alessio Vassallo.

In teatro è ideatrice e regista di God save the punk!, successo di pubblico e critica che viene ripreso per tre stagioni, e per AMREF collabora con il musicista Giovanni Lo Cascio alla realizzazione di Juakali Drummers, spettacolo con venti musicisti ex ragazzi di strada degli slum di Nairobi, che debutta ad Umbria Jazz.

Nel 2020 è autrice e regista con Massimiliano Palmese del film documentario Il caso Braibanti, vincitore di numerosi premi, tra cui il Premio del Pubblico al Pesaro Film Festival, il Premio Giuria Studenti al Salina Doc Fest, quindi il Nastro d’Argento 2021 come Miglior Docufiction.

Massimiliano Palmese

Poeta, narratore, regista, ha pubblicato i romanzi L’amante proibita (2006, finalista Premio Strega, tradotto in Germania e Spagna), Pop life (2009), Il peccato originale (Rizzoli, 2021). Lavora al quarto romanzo.

Ha scritto le raccolte poetiche Lettere di Ganimede, La parola tonica e Questa disperazione felice, vincendo i premi Eugenio Montale e Sandro Penna.

Per il teatro ha scritto sia testi originali (Come treni in paesaggi nuovi, Fast Love, Il figliastro, Il caso Braibanti), che adattamenti (La primavera romana della signora Stone, Il carteggio Aspern, Pierre e Jean, L’arte di essere povero) e traduzioni (Sogno di una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta): testi interpretati, tra gli altri, da Claudio Santamaria, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli.

Ha tradotto i Sonetti di William Shakespeare (Tutte le opere vol. IV, Bompiani 2019) apparsi sulle principali riviste e blog letterari italiani (Poesia, Nazione indiana, Interno Poesia). A dicembre 2023 la sua traduzione dei Sonetti sarà ripubblicata da Elliot nella collana di poesia diretta da Giorgio Manacorda. E’ ideatore, coautore e coregista de Il caso Braibanti (Premio del pubblico al Pesaro Film Festival, Nastro d’argento 2021 miglior docufiction). Sta scrivendo il documentario Vita di Sandro Penna (2024).

Presentazione di Giovanna La Vecchia

Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale già nel 2020 in occasione di un’intervista in cui ci aveva raccontato le “mille e una vita” di un uomo “Obelix” caduto nel paiolo della pozione magica delle parole. Giuseppe Cesaro: la musica, la bellezza, la famiglia, le parole, la forza. Fu un incontro inconsueto ed informale con un grande protagonista del nostro tempo: “Siamo noi l’anima delle cose. La fragilità è bellezza. Ed è infinitamente più ricca della solidità. Che, spesso, è pura apparenza”.

Giuseppe Cesaro (Sestri Levante, 12 marzo 1961) ha cominciato a scrivere professionalmente alla fine degli anni ’80. Giornalista, scrittore, ghostwriter, curatore, editor e traduttore, si occupa di musica, politica, società, narrativa, saggistica. Negli ultimi vent’anni, ha pubblicato 50 titoli – tra racconti, romanzi, memoir, graphic novel, saggi, biografie, traduzioni e sceneggiature – per alcuni tra i più importanti editori nazionali (Bompiani, Mondadori, La Nave di Teseo, Skira, Rizzoli). Dal 1998 è consulente ai testi di Claudio Baglioni. Ha firmato due romanzi (“Indifesa” – 2018, e “31 Aprile. Il male non muore mai” – 2021, entrambi editi da La Nave di Teseo) e un graphic novel (“Michelangelo. La parete perfetta” – 2017, edito da Round Robin) ed è co-autore di due libri inchiesta: “Ombre sul web” (2019) e “La fabbrica fantasma” (2020), pubblicati da Lastaria Edizioni. Lo scorso settembre, per Round Robin, ha pubblicato “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”: il metodo di lavoro messo a punto in quasi quarant’anni di scrittura.

Per il numero di Dicembre di Condi-Visioni ha voluto “condividere” con noi il suo pensiero sull’attuale momento storico e per questo gli dobbiamo un ringraziamento speciale. Giuseppe Cesaro è senza alcun dubbio una delle personalità più interessanti e poliedriche del nostro paese, leggerlo “crea dipendenza” perché ci obbliga ad una riflessione quanto mai necessaria. Certezza e speranza di un futuro possibile sono solo nelle nostre azioni, perché se è vero che “non dobbiamo aprire quella porta”, ricordiamoci che di porta non ce n’è mai una sola.

“A volte ritornano: non aprite quella porta!” di Giuseppe Cesaro

“A volte ritornano. E, di solito, sono incubi. E il ritorno che stiamo vivendo, non fa eccezione. Purtroppo. Del resto, quasi mai il passato è migliore del presente. Basta un’occhiata fugace a un (serio) libro di Storia per rendersene conto. Né è detto che un buon passato possa diventare anche un buon presente. Figurarsi, dunque, se può diventarlo un passato pessimo. Sto parlando del Fascismo, evidentemente. Il giudizio sul quale è totalmente negativo. E non è impugnabile, dal momento che è passato in giudicato da un bel pezzo. Non parlo del mio giudizio, che conta poco. Parlo del giudizio della Storia. La Storia vera, autorevole, documentata, meditata. Non le favolette degli imbonitori mediatici che cercano di spacciare per verità le bugie, per progresso il regresso, per libertà l’oppressione. Al contrario di ciò che sosteneva Novalis: non tutto, in lontananza, diventa poesia. L’errore resta errore. Il crimine, crimine. L’orrore, orrore.

La nostalgia, però, è un sentimento-rifugio che, ahimè, fa sempre presa. Soprattutto quando – come accade oggi – il presente fa paura. Una paura indotta, quasi sempre esagerata e ingiustificata. È allora che l’idea di un ritorno al passato rassicura, come l’abbraccio amorevole di un’amorevole madre o il tepore di un focolare domestico al quale tornare, per sentirsi, finalmente, al sicuro.

E, così, invece di guardare avanti, guardiamo indietro, dimenticando, appunto, che il passato non è migliore del presente. Eppure, la propaganda ci sta convincendo del contrario. Come? Da una parte, alimentando le paure, vecchie e nuove, dell’opinione pubblica (quella che Umberto Eco chiama “la costruzione del nemico”); dall’altra, fornendo risposte tanto facili, veloci e capaci di incantare, quanto false, folli e antistoriche.

Come una mamma che, accarezzandoci, sussurra: “dormi tranquillo: ci sono io, veglierò io su di te!”, la politica vuole che chiudiamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte e ci addormentiamo sereni. Non ci dobbiamo preoccupare di niente. Spegnerà la luce, chiuderà la porta e penserà a tutto lei. Riuscite a immaginare qualcosa di più rassicurante e tranquillizzante?

Sono queste le ragioni per le quali, ancora una volta, ci ritroviamo alle soglie di una svolta autoritaria. Questo, non altro, è il premierato. Altro che “democrazia decidente”. La nostra democrazia è “decedente”. In fin di vita, cioè. Vogliamo davvero staccarle la spina? Come mai ci ritroviamo di nuovo a questo punto? Non ci è bastata la catastrofe di cento anni fa? No, evidentemente.

Per capire a cosa stiamo andando incontro, dovremmo, innanzitutto, smettere di chiamare “politica” qualcosa che politica non è più, da decenni. Nel nostro Paese, la politica è morta 45 anni fa: 16 marzo 1978, quando Aldo Moro è stato rapito e i cinque agenti della sua scorta, trucidati. Quanto accadde 55 giorni dopo, fu solo il colpo di grazia. Morte violenta, dunque, non naturale. La politica andava tolta di mezzo e venne tolta di mezzo. Fine dei giochi.

Tutto quello che è venuto dopo l’omicidio Moro – andreottismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, grillismo, contismo, melonismo, per ricordare solo i passaggi più significativi – non è politica: è occupazione, spartizione, gestione e mantenimento del potere.

La politica è stata tolta di mezzo perché il Potere – che non è la politica ma la forza che condiziona ogni politica – non vuole rotture di scatole. E la politica – se è vera politica – è un’immane rottura di scatole. Perché fa domande inopportune (democrazia, diritti, giustizia, libertà, pace…), accampa pretese assurde e costose (istruzione e sanità gratuite, salari dignitosi, pensioni…), è lenta a decidere (confronto con le parti sociali, bicameralismo paritario…).

Contrariamente a ciò che crediamo, dunque:

  1. la politica non detiene il Potere. È esattamente il contrario: il Potere detiene la politica;
  2. gli “uomini politici” non esercitano il potere: sono strumenti nelle mani del Potere. “Utili idioti” che – come marionette ventriloque – fanno e dicono tutto ciò che il Potere comanda loro di fare e dire;
  3. il Potere non ha un nome e un cognome e nemmeno una faccia.È una forza – anonima, invisibile, onnipresente – che ha un potere di seduzione così forte, che è quasi impossibile resisterle. Si impossessa della coscienza degli uomini, fino a renderli schiavi. In cambio, offre loro l’illusione del comando (“Cumannari è megghiu ri futtiri” – “Comandare è meglio di fottere” – recita la millenaria saggezza siciliana), soldi, sesso, droghe, lusso, glamour, fama…

“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

Gesù resistette alle tentazioni. La maggior parte degli esseri umani, purtroppo, no. Il Potere lo sa: arruola coloro i quali cedono alle sue seduzioni e fa in modo di mettere gli altri in condizioni di non nuocere.

Il Potere ha solo quattro obiettivi: ottenere, conservare, incrementare e perpetuare sé stesso. E, per raggiungere questi obiettivi è disposto a qualunque cosa. Con “le buone”: favori, prebende, corruzione, morale e materiale. O con “le cattive”: ricatto, violenza psicologica e fisica, demolizione della credibilità e dell’immagine pubblica degli avversari o loro eliminazione.

Per parafrasare una celebre favola dell’antichità, il Potere è lo scorpione, il popolo è la rana, e la classe dirigente (che, personalmente, preferisco chiamare “digerente”), il “coro” che fa di tutto per convincere la rana a fidarsi dello scorpione, caricarselo sulle spalle e lasciarsi indicare da lui la rotta giusta per attraversare il fiume. 

Ma le vere domande sono:

  • perché preferiamo chiudere gli occhi, girarci dall’altra parte e dormire, lasciando che pensi a tutto “mammina”, piuttosto che tenere gli occhi ben aperti e assumerci la responsabilità delle scelte importanti che riguardano la nostra vita?;
  • perché, anche se sappiamo benissimo che lo “scorpione” ci ucciderà (è la sua natura!), continuiamo a dare retta al “coro”, e crediamo che lo scorpione ci indicherà la rotta giusta per arrivare, sani e salvi, sull’altra sponda del “fiume”?

La risposta è semplice. Semplice ma devastante: siamo codardi e profondamente bugiardi. Dichiariamo di amare e desiderare la libertà e, invece, non la vogliamo affatto, perché abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità.

Del resto, che la natura umana non fosse proprio perfetta, lo sapeva fin troppo bene colui il quale dettò a Mosè le Tavole della Legge. Non è certo un caso, infatti, se Dio comanda all’uomo di Non uccidere, Non commettere adulterio, Non rubare, Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo, Non desiderare la moglie del tuo prossimo, Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo. Se avesse saputo che l’uomo non aveva bisogno di tali raccomandazioni, il Padre Eterno non avrebbe certo perso tempo a dargliele. Evidentemente, invece, conosceva così bene le sue creature che sapeva di doverlo fare.

E assai bene conosceva gli uomini anche Gesù, quando decise di introdurre il comandamento che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché sentì il bisogno di farlo? Perché sapeva benissimo che gli esseri umani sanno amare solo sé stessi e che amare l’altro è contro natura. Del resto, se amare l’altro fosse qualcosa di naturale, non ci sarebbe stato certo bisogno di un comandamento che impone di farlo!

Ma la natura umana è ben nota anche a noi umani. Da sempre. Non sbagliava, ad esempio, Machiavelli quando, quasi cinquecento anni fa, scriveva che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Questo siamo. Ed è esattamente su questo che conta il Potere.

Né sbagliava Étienne de La Boétie quando – pochi anni dopo la pubblicazione de “Il Principe” – nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”, si chiedeva come fosse possibile che “tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se quella che essi gli danno; che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo”. E tutto questo non perché gli uomini siano “costretti da una forza più grande”, ma perché “incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”. “Son dunque – scriveva ancora La Boétie – gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi”. È il popolo, dunque, che “acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. Evidentemente, “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

Analisi condivisa anche da una delle coscienze più alte e lucide della storia dell’umanità, Fëdor M. Dostoevskij. A fine Ottocento, in uno dei capitoli de “I fratelli Karamazov” noto come “La leggenda del grande inquisitore”, Dostoevskij è piuttosto chiaro riguardo alla nostra fobia della libertà: “Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”; “nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”; “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”. E, ancora: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

Su tutte queste cose conta il Potere, che conosce la natura umana almeno quanto Dio, Gesù, Machiavelli, La Boétie e Dostoevskij.

“Governabilità”, “stabilità”, “monocameralismo”, “premio di maggioranza”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, “democrazia decidente” sono, dunque, tutte parole d’ordine-truffa. Le marionette ventriloque vogliono farci credere che, più rinunceremo a quel po’ di potere di decisione che ci è rimasto, più potremo decidere del nostro futuro. Non sembra anche a voi una follia? Eppure, ancora una volta, stiamo per dare retta al “coro” e caricarci sulle spalle lo “scorpione”, perché sia lui a indicarci la rotta giusta per attraversare il “fiume”.

La follia più grande di tutte, dal momento che, come tutti sanno, lo scorpione ci ucciderà. E quando, in punto di morte, gli chiederemo: “Perché?”, ci risponderà: “È la mia natura!”. E solo allora ci renderemo conto di quanto siamo stati stupidi. Tornare indietro, però, non sarà più possibile.

Cambiare è un privilegio molto recente. I popoli del passato non ne godevano. Perché noi vogliamo rinunciarci? Perché siamo disposti ad accettare che chi sta al governo ci resti il più a lungo possibile? Chi avvantaggia questa “stabilità”? Noi o lui? Prima di rispondere, riflettiamo sul monito di Bobbio: “meglio cinquanta governi in cinquant’anni che uno solo in venti”.

Non solo. Se, come diceva Gaber, libertà è partecipazione: è evidente che, meno partecipiamo alle scelte che riguardano la nostra vita, meno siamo liberi. Pensiamoci ogni volta che ci chiedono di dare a loro il potere di scegliere e decidere per noi.

Se coloro i quali preferiscono rinunciare alla loro libertà lo facessero, senza pretendere che anche tutti gli altri facciano la stessa cosa, il problema sarebbe grave ma limitato, poiché riguarderebbe soltanto coloro i quali si voglio rendere servi. Dato, però, che i servi vogliono che anche tutti gli altri diventino servi come loro, il problema diventa molto infinitamente più grande e più grave, poiché il servilismo di pochi finirà col rendere servi anche tutti quelli che non vogliono diventare servi ma rimanere liberi. E la democrazia avrà fatto harakiri.

L’ho detto: a volte ritornano. E, di solito, sono incubi. I peggiori. Meditate, gente, meditate. E, soprattutto, non aprite quella porta!” 

A oltre sessanta anni dalla loro prima uscita discografica – 5 ottobre 1962 con Love Me Do – i Beatles rappresentano ancora “la musica”. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, un centro portuale piuttosto misconosciuto fino a quel momento, hanno rivoluzionato, con le canzoni che hanno scritto e il modo di presentarsi, non soltanto il settore delle sette note ma in generale tutta la società. Non c’è aspetto della vita post-bellica, dalla moda al look, che non sia stato influenzato dal gruppo di Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Ma non solo. I Beatles – così come negli Stati Uniti prima di loro aveva fatto Elvis Presley – hanno portato alla ribalta realtà temi come la spiritualità (il viaggio in India del ’66), l’attenzione ai temi sociali (il rifiuto di esibirsi per un pubblico segregato nel sud razzista degli Usa l’anno precedente) e innumerevoli altri settori della vita contemporanea. 

Oggi, a oltre sessanta anni dalla prima volta, i Beatles sono “tornati” con un brano – Now and Then – scritto da John poco prima della sua morte e che la sua vedova Yoko Ono ha affidato a Paul perché lo rendesse un “ritorno” in grande stile. Operazione riuscita, visto che i “Fab Four” sono di nuovo in testa alla classifica dopo tanti decenni. E, curiosamente, a fargli compagnia nella top ten americana ci sono i Rolling Stones, a dimostrazione che certa musica è davvero immortale. 

Paolo Borgognone, giornalista e scrittore, autore per Diarkos Editore delle biografie “Freddie Mercury. The show must go on”, “Io Elvis. La parabola immortale di The King”, “Martin Luther King Jr. I Have a Dream”, ha da poco pubblicato “Beatles. Il mito dei Fab Four”.  Nato nel 1962 coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. Ha collaborato con importanti testate nazionali e realizzato diversi lavori di “ghost writing” ed editing, oltre ad essere impiegato come addetto stampa per un ento pubblico.

Se Elvis, come è stato detto, ha rappresentato il “big bang” della cultura giovanile, i Beatles hanno a loro volta assunto lo stesso significato che nella scienza viene dato alla comparsa della vita. Dal momento in cui è esplosa la Beatlesmania – 1964 – i ragazzi di tutto il mondo hanno trovato un modo per esprimersi. Da qui nascono i generi musicali che ancora oggi si ascoltano e tutti quei movimenti che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’60 con temi come i diritti delle minoranze, l’opposizione alla guerra, il desiderio di libertà e uguaglianza che sono ancora oggi l’urgenza che anima milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. 

“Il libro che ho scritto parte proprio dalle radici, da quella città che tanti conoscono per nome ma che pochi saprebbero trovare su una cartina muta e che ancora meno hanno avuto la fortuna di poter visitare” Borgognone ci spiega il percorso di questa nuova biografia sui Beatles. “Ho ricostruito la storia di Liverpool, prendendo come momento chiave quello dei terribili bombardamenti a cui fu sottoposta durante la Seconda guerra mondiale. Che è proprio il momento in cui i quattro ragazzi vedono la luce. Ho poi cercato di raccontare la storia delle loro famiglie, il retroterra culturale, sociale, politico, di un Paese che stava riemergendo dal conflitto e che, dopo anni di sofferenza e di “grigio” cercava proprio un modo per rinascere. L’esplosione di colori, suoni, mode rappresentata dalla “swinging London” di quegli anni è al tempo stesso causa ed effetto del successo dei Beatles. Ho poi ripercorso le tappe della loro carriera: dal primo incontro tra Lennon e McCartney – 6 ottobre 1957 – fino alla residenza ad Amburgo, apprendistato durissimo e formativo. Poi, a partire dal 1962, un capitolo per ogni anno. Con l’eccezione del 1964, quando ci fu lo sbarco in America, talmente ricco di storie da aver richiesto un doppio capitolo. Un altro l’ho dedicato al breve, ma significativo, tour in Italia del 1965. Solo pochi concerti ma l’occasione giusta per raccontare anche un poco di questo Paese, desumendone atteggiamenti e opinioni dal modo in cui i “Fab Four” vennero accolti, male per la precisione, con un atteggiamento quasi canzonatorio e che cercava di sminuirne le capacità. Si pensi che lo stesso anno delle date italiane, spesso con poco pubblico ad assistere, i Beatles si esibirono allo Shea Stadium di New York per 56mila spettatori! Il testo arriva fino al 1970, anno dello scioglimento della band e della pubblicazione dell’ultimo LP per poi chiudersi con un capitolo finale che racconta i tentativi fatti negli anni di riunire il gruppo. Tentativi che, per vari motivi ma non certo per mancanza di volontà da parte dei protagonisti, non andarono in porto e furono poi stroncati dall’omicidio di Lennon a New York l’8 dicembre 1980”. 

Abbiamo incontrato Paolo Borgognone per i lettori di Condi-Visioni.

Un altro libro sui Beatles? Perché? 

“ Perché i Beatles “sono” la musica. Quello che hanno portato nel settore delle sette note non è finito certo con lo scioglimento del gruppo nel 1970. Ci troviamo davanti a un fenomeno di costume che ritorna continuamente e che sta continuando a influenzare la società contemporanea. Proprio pochi giorni fa, accendendo la tv, ho visto una pubblicità con una loro canzone come sottofondo. Segno tangibile che il loro sound, le mode che hanno lanciato, i messaggi che hanno portato sono attualissimi e ascoltati ancora oggi”. 

Ci sono ancora cose che non sappiamo? 

“Abbiamo appena scoperta una nuova canzone. Con una storia affascinante dietro. Certo, le biografie sui Beatles si sprecano, forse sono gli artisti su cui si è scritto di più e quindi è impossibile trovare la notizia inedita. Ma il processo di avvicinamento alla vicenda personale, sociale e musicale del gruppo si presta a infinite riletture e questa vuole esserne una dedicata in particolare ai ragazzi di oggi, quelli che non 1970 non erano nati e che pure si interessano alla storia della più grande band di sempre”. 

Che tipo di studio ha fatto per realizzare questo libro? 

“Il primo passo è stato riascoltare tutto. Dai primordi, dai “Beatles prima dei Beatles” fino all’ultimo disco, oltre naturalmente alle tappe fondamentali della carriera da solista di ognuno di loro. Quindi ho ripassato le biografie che ne hanno tracciato la storia, a cominciare dalla monumentale “Anthology” che racchiude davvero tutto o quasi lo “scibile” sul gruppo. Poi, naturalmente, ho cercato di limare le differenze che inevitabilmente compaiono tra i vari testi, provando a uniformare le date soprattutto. Per la prima parte, poi, quella dedicata alla città mi sono affidato anche ai ricordi. Ho avuto il privilegio e la fortuna di visitare Liverpool in uno dei periodi più difficili della sua storia, durante il governo della feroce signora Thatcher. Rammento una città ferita, offesa, trascurata, ma viva e piena di musica. Impossibile non amarla…”.  

C’è un punto di vista differente o aspetti nuovi che non erano stati presi in considerazione in precedenza? 

“Un mio carissimo amico, giornalista e scrittore, fan dei Beatles da sempre, nel presentare il volume ha detto: “Io pensavo di sapere tutto sul gruppo, ma questo libro mi ha fatto scoprire aspetti nuovi anche per me”. Ho cercato, in apertura, di situare i “Fab Four” all’interno del periodo storico nel quale sono nati, ovvero durante gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale e anche nel tessuto geografico della loro città di origine. Un posto di cui tanti hanno sentito parlare ma che, in realtà, pochissimi conoscono veramente. E che – invece – ha fatto da sfondo alla loro crescita personale e musicale, diventando protagonista delle vicende che raccontiamo”.  

Questo ritorno secondo lei è stata una pura operazione commerciale o una volontà precisa di affermare “noi siamo ancora qui”? 

“Un’operazione commerciale non direi proprio. Nessuno dei protagonisti ha certo bisogno di far uscire un brano inedito per mettere insieme il pranzo con la cena. Credo fosse giusto, a questo punto, chiudere il cerchio di questa esperienza. Non a caso, il singolo è stato pubblicato insieme a una riedizione di “Love Me Do”, il primo disco – per noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle un “quarantacinque giri” – con il quale era iniziata l’avventura in quell’ormai lontano ottobre 1962”. 

Paul McCartney e Yoko Ono hanno trovato un canale di comunicazione per realizzare insieme ancora dei progetti?

“In realtà i rapporti si sono, per fortuna, molto semplificati con gli anni. Yoko – da tanti considerata una “nemica” del gruppo, idea che non mi trova d’accordo – ha avuto la sensibilità di lasciare a McCartney e Starr l’onore e l’onere di regalarci questa perla. Il lavoro che è stato fatto sulla traccia originale di Lennon è straordinario: alla fine abbiamo una canzone indubitabilmente dei Beatles ma che non risente degli anni che sono passati. Anzi. E il successo discografico – il primo posto nelle classifiche inglesi e americane – testimonia che la scelta fatta è stata giusta”. 

Quanto serve oggi e soprattutto ai giovani “ritornare” ai Beatles?

“Conoscere questa musica – cui accosterei quella di Elvis Presley, un altro titano del settore che ha tracciato la via per innumerevoli altri artisti – significa fare il primo passo per capire tutto quello che è venuto dopo. E anche quello che esiste oggi. Il panorama musicale è stato così fortemente influenzato dai Beatles che ignorandoli si perde la possibilità di comprendere il fenomeno anche nella sua contemporaneità”. 

 Secondo lei qual è il messaggio più importante che hanno dato i Beatles?

“Ne hanno lasciati tanti. Messaggi di amore, pace, voglia di vivere, rispetto per gli altri, anche di impegno per combattere le ingiustizie quando era necessario. Nessuno di questi argomenti può dirsi risolto, quindi le parole e i gesti che i Fab Four hanno tramandato ai posteri sono ancora estremamente attuali. Se proprio dovessi scegliere una frase a simboleggiare il loro lascito, utilizzerei, quella che chiude “The End”, l’ultimo brano che hanno registrato tutti e quattro insieme, pubblicato sull’album “Abbey Road”: “In the end / the love you take/ is equal to the love you make” …” 

 Come sarebbero andate le cose se John Lennon non fosse stato ucciso? 

“Il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere! Esagerazioni a parte, è molto possibile che avremmo potuto avere l’occasione di rivedere i Fab Four esibirsi insieme, come in fondo loro stessi avrebbero voluto fare. Penso a che chiusura sarebbe stata per un evento – per esempio – come il Live Aid del 1985 se, alla fine, fossero comparsi loro quattro e avessero fatto un ritorno in grande stile mettendo insieme cinque o sei delle loro canzoni più celebri: “Yesterday”, “Let It Be”, “Penny Lane”, “Strawberry Fields” “Something”… e così via. Il più grande spettacolo di sempre. Purtroppo l’instabilità mentale di un fanatico religioso ci ha privati di tutto questo”. 

La dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello: Roma nelle liriche di Luigia Panarello, il grande amore di una vita intera. 

Etabeta edita la silloge “Via del cancello” di Luigia Lupidi Panarello.

Pierpaolo Pasolini l’aveva soprannominata “tre vite”. A noi sembrano anche poche per descrivere un’artista come Luigia Lupidi Panarello. C’è tanto di tutto in lei e nella sua vita, tanta Roma, tanta poesia, tante amicizie straordinarie, tante esperienze e tante sofferenze vissute con quella leggerezza e meraviglia allo stesso modo di come si vivrebbero le gioie e i successi della vita. Una combattente in prima linea, una partigiana delle idee e della cultura non paludata e non avulsa dal reale. Così la definisce Titti Presta. E ancora non basta. Una protagonista senza protagonismi, una formazione artistica ed umana ricca e movimentata, “vivere è più semplice di evitare di farlo” dichiara con impulso e stupore. Garbata, “perbene”, naturale e simpatica, Luigia Panarello si impone con umiltà nello scenario poetico italiano, così come fa in questa intervista per la quale la ringraziamo moltissimo. Non è cosa da poco raccontarsi senza filtri e senza prendersi poi così tanto sul serio. Il mondo ha bisogno di voci fuori dal coro perché la bellezza è fatta di piccoli frammenti di lucidità in mezzo ad un mare di improvvisa creatività. La poesia di Luigia Panarello ci ricorda di cosa siamo fatti e per cosa siamo fatti. Vivere. Punto.

La sua silloge “Via del cancello” è un volume che racconta la poesia, la religione, la politica, la società, la cronaca di una “sua” Roma. Quale percorso l’ha portata alla scrittura di un testo così importante?

“Proprio per quella cronaca… che a Roma passa sempre più per l’ispirazione poetica che per la logica intellettuale, altrimenti più dettata da un parlato prosaico che letterario. Vivere a Roma significa la messa in gioco delle emozioni e delle passioni sempre. Non si resisterebbe sennò al suo investire il cittadino del “troppo” che è in tutto. Roma infatti non è una città metropolitana, ma la condizione umana in cui lui viene messo dalla scelta volontaria e volenterosa di starci. Dunque con questa scelta quasi sacrificale, è insita anche il darne una tipologia di lettura personale per orientarcisi. Quella poetica permette di farsi meno male, di avere sorprese anche gratificanti a volte. Non per nulla qui c’è un detto da tifo sperticato: Roma non si discute. Si ama!” 

Come nasce la sua “fame” di poesia?

“La mia testa è uno strumento acustico. Non ragiona. cerca sulle mie corde parole e frasi adatte a descrivere l’immagine, ad enunciare in metafora ciò che penso per districarlo dall’intimismo. Funziona così da sempre, usando soprattutto intuito e percezione. Io “sento” il colore come orbo, leggo dalla bocca cosa “comunica” la circostanza come sordo. Ho una forma di handicap cognitivo, se non esistesse la poesia, probabilmente avrei patito una pena esistenziale ragguardevole, che invece la poesia ha trasformato in veicolo dell’attrazione per la vita”.

Ci racconti come nasce il titolo di quest’opera.

“Via del Cancello è la strada, quasi un vicolo comunicante dal mio ufficio al fiume, che percorro quando esco di lì per tornare a casa. E’ un luogo di liberazione concreta e quotidiana, un momento di svagatezza, un tracciato di identità. Il cancello che si apre con discrezione per lasciarmi andare oltre la ripetitività quotidiana. Cioè un’annotazione cerchiata in rosso sulla cartina dell’esistenza, perché bisogna avere riferimenti certi per non perdersi”.

Una divisione in due parti, Roma mia nello sguardo e Roma mia nell’anima. Perché ha sentito l’esigenza di una così netta suddivisione, in fondo la poesia è canto unico.

“Eh… avere una relazione con la matrona comporta tenere ben spartite le sue qualità seduttive e le sue velleità dominatrici…Roma non è una metropoli moderna, è ancora la dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello, o te ne fai proteggere, e perciò l’accetti magnifica e cinica, oppure se ne ricorderà della tua indipendenza e ti strazierà spesso e volentieri di colpi in agguato e di malinconie struggenti. Devi assolutamente contenerla in due vasi e farne tu la mediazione, per restare conscio con chi hai a che fare”.

Poesie di sguardo e di anima, per descrivere il suo lavoro. Una espressione molto profonda. Cosa ci consente di vedere meglio, gli occhi o l’anima?

“Assolutamente la propria personalità, che le due componenti aiutano nella funzionalità metabolica. Altrimenti è un pasticcio della malora che squilibra”.

Paesaggi interiori e paesaggi naturali, una contaminazione ed una interazione di forza e potenza straordinarie. Percepirli entrambi è una grande ricchezza, possederli entrambi è un’approssimarsi alla perfezione del vivere. Cosa ne pensa?

“Piuttosto è come avere quei doni extrasensoriali, che per carità arricchiscono la qualità dello stare al mondo, ma sono pure delle condanne a non poter stare mai spensierati. Un pizzico di leggerezza, per fortuna, lo offre la romanità con la sua ironia dissacrante, per non prendere ogni elaborazione e se stessi sempre sul serio!”

Roma così tanto appieno descritta è cosa assai rara. C’è ogni aspetto, ogni persona, ogni anima di una città così tanto complessa e così tanto amata. E’ stata un’analisi di sicuro anche dolorosa.

“Ho avuto maestri fantastici in questo, mi hanno educata e istruita con la loro storia fatta di vicende individuali e di fatti epocali raccordati. Pierpaolo Pasolini, mia madre, gli ebrei del ghetto, i bancarellari dei mercati rionali…e le soste sulla banchina dell’ Isola Tiberina a riflettere solitariamente”.

Il suo amore per Roma è completo e complesso. Un amore “organizzato” che, come i più grandi amori, raccoglie in se ogni dettaglio e particolarità, nel bene e nel male. C’è qualcosa di Roma che è rimasta “intatta”, incontaminata, eterna?

“Più che intatta, è inviolata la sua completezza. Roma non è invadibile! L’assediano, di tanto in tanto, dai barbari ai mafiosi, dagli invidiosi ai parassiti, ma Roma quando poi si spazientisce li scrolla di sella e torna a pascolare sul prato della pigrizia, indisturbatamente. Pure il papato ha ridotto in una porzione di terreno recinto! Roma resta signora e padrona della sua indolenza sdegnosa verso ogni bega trionfalistica, le basta farsi le sue gite al mare quando c’è il sole o su qualche colle da rudere all’aria aperta. Il resto non la riguarda: il tempo gli umani se lo trascorrano e se lo perdano come vogliono, lei lo dispone nell’interezza”.

Quale immagine rappresenterebbe meglio oggi la sua Roma?

“Il Gasometro oramai inutilizzato che sta vicino alla Garbatella, unico rione fuori mura, che segna il passare della modernità quanto un monumento”.

Cosa le manca di più della “sua” Roma che vorrebbe resuscitare?

“Le latterie, i bar di una volta, centro sociale casareccio, con le pareti maiolicate e la panna montata fresca la domenica con la cialda per mangiarla. Ma anche lo spirito di “quelle” domeniche che la gente banchettava col pollo arrosto e la romanella nel quartino “co l’amichi de famija” magari alle baracche sull’Aniene”.

Mi vuole raccontare la rabbia per lo sgombero feroce di Piazza Indipendenza nell’agosto del 2017?

“Più che rabbia un dolore da raccapriccio: fu uno sbattere in strada bambini, anziani, donne, uomini decorosi e indifesi, da un posto inutilizzato per anni, cioè abbandonato alla fatiscenza, tenuto bene proprio solo per avere un’abitazione. Fu un sabba di prepotenza inaccettabile, a cui si oppose la rassegnazione disperata di somali ed eritrei, profughi di altrettanti soprusi. Fu un pianto di vergogna il mio, appoggiata ad un albero, perché avveniva ed ero impotente, ed ero comunque una borghesuccia bianca che non poteva soprattutto assolversi per niente”. 

Tra i tanti personaggi conosciuti e frequentati, Pierpaolo Pasolini e Alda Merini. “E come si fa” è la poesia che ha dedicato a Pasolini. “E come si fa a non pensarti”. Ci può raccontare del vostro rapporto?

“Neanche tanto occasionale con entrambi, fortuitamente fruito come tutte le migliori occasioni che ho avuto vivendo di curiosità. Due persone etiche, ma entrambe con delle faide interiori come baratri. In Alda questa generò l’innocenza, in Pierpaolo causò la colpa. Eppure avevano la stessa natura spirituale da asceti, esseri nudi ed esposti come volatili in fuga dalle gabbie. Li hanno bersagliati pure sotto i miei occhi, li hanno traditi senza alcuna remora e dileggiati oltre ogni impudenza. Sono stati “la diversità” rifiutata perché riguardava identità e mente, che ciascuno invece camuffa di banalità spregevole, di pusillanime normalità. Li ho conosciuti perché li ho ascoltati, perché non mitizzo, riconosco però sempre l’autorevolezza di quelli con cui condivido la tavola, sennò preferisco la mia solitudine. E loro due erano e saranno certamente autorevoli, al di sopra del giudizio scontato che si usa per liquidare chi ci turba. Raccontarne porterebbe via la redazione di due volumi interi perché non furono anni trascorsi invano a cercare di crescere!”

So della sua ammirazione per Papa Francesco. Qual è il suo rapporto con la religione?

Sono cristiana e apprezzo anche la filosofia buddista, ma religiosa ben poco come canone di pratica. Ritengo che tutti dovrebbero coltivare la spiritualità in bilanciamento con la laicità. Sono cristiana, ho fede nella compassione come cambiamento del comportamento egoistico che danna la società. Francesco lo “amoro”, arrivo pure a fermarmi in chiesa davanti al crocefisso per chiedere forza per lui. Non sono più reverente al clero vaticano istituzionalizzato. Sarà perché provengo da un’epoca di incontri come Di Liegro, Bello, Gallo e Madre Teresa? Probabile….”

La sua produzione è monumentale, scrive quotidianamente. E’ come fermare ogni emozione su tutto ciò che accade nella sua vita ma anche nella vita degli altri. E’ questo un mezzo per vivere meglio, per vivere bene?

“Por vivere a mi manera”

Una vita, la sua, che sembrano tante vite di tante persone diverse in una sola unica straordinaria città: Roma. Quanto è importante diversificarsi ed adeguarsi senza però mai perdere se stessi?

Pierpaolo Pasolini mi aveva soprannominata “tre vite”. Io penso solo che mi viene spontaneo accettare quel che viene e andare avanti”

“Non mi sono però depressa”, scrive parlando delle difficoltà della sua vita. Oggi ci si deprime per molto meno, per molto poco, per niente. Abbiamo perso il senso ed il valore della parola “difficile”? 

Oggi avverto più l’accasciamento della fatica, non dovuta alla difficoltà, quanto al carico esuberante dell’eccesso, del superfluo”

“C’è domani come giorno come altro opportuno possibile come quantità di tempo”. Trovo questo verso di “Colata di verde” molto delicato, un modo antico per dire che c’è il nuovo, il futuro, la speranza. Quanto è necessario soprattutto oggi guardare avanti?

“Invece curiamoci di rallentare subito, perché cambiare comporterà un salto in lungo, slancio nelle gambe e spinta. Ci vuole metodo studiato per superare la gravità”

“Figlia non riconosciuta di madre ignota”. Quanto ha significato questo aspetto della sua vita nella sua crescita, nel suo sviluppo e nella sua poetica?

Fondatezza del perché leggo e scrivo e disegno. L’ignoto così non diventa ossessione”

La consapevolezza di essere speciali per aver vissuto delle esperienze radicali, profonde quanto eterogenee, e avere continuato a camminare con questo bagaglio compressi verso terra” scrive di lei David Giacanelli. Lei è consapevole di essere un “essere” speciale?

Particolare, sì, particolare quanto un albino o un uomo in kilt ad un concerto”

Coraggiosa, impavida guerriera, con parecchie marce in più, ma non votata alla gloria ed alla fama. Per cosa vale la pena vivere Sig.ra Luigia?

“Per esserci: meravigliosa opportunità vivere!”

“Il suono dei versi ha un potere benefico”, per chi scrive e per chi legge. Quanto abbiamo ancora bisogno di scrivere e di leggere poesia?

Data la brevità, la poesia sarà il linguaggio del futuro, svincolato dalla metrica e dai temi solo romantici”

C’è chi dice e crede ancora che la poesia abbia il potere di salvarci. Perché è nella natura del poeta rimanere lontano dall’inferno dell’ignoranza e della meschinità. Lei ci crede?

La poesia è angelica. Il poeta è soltanto un testimone attento, una piccola vedetta. Può sfracellarsi giù dal pinnacolo ad ogni folata di tentazione, vizio, colpa, peccato. Nessun uomo è santo, semmai può esercitare la beatitudine, ma è uomo”

Mi vuole declamare uno dei versi più cari alla sua vita? 

Ma davvero mi si chiede che attacchi “Le ceneri” di Gramsci? Tra l’altro le recito leggendole a mente, mai pronuncio quello che mi piace. Lo sacrificherei forzandolo all’impudicizia della prosa vocale e lo faccio al cimitero della Piramide”

Alcuni suoi versi mi hanno riportato alla delicata profondità di Peppino Impastato: “I miei occhi giacciono in fondo al mare nel cuore delle alghe e dei coralli”. Vorrei concludere l’intervista con un suo pensiero su Peppino e su questi versi. Mi concede questo regalo? 

“Dei bambini veri non diventeranno mai adulti, saranno vicini nei paesi, nelle merende di niente strofinate alle fette secche, avranno avuto per giochi soltanto le pietre aguzze sotto i piedi per correre. Peppino era un piccolo che seppe diventare grande, restando per la mano a sua mamma Felicia, che gli aveva insegnato il bello del nespolo, il canto del fringuello, tutto quello da avere finchè si può bere, finchè si può respirare, finchè il mare fa tuffare da una giornata libera. Quei bambini delle imprese da coraggiosi come bucanieri, sconfiggeranno vigliacchi serpi e loschi farabutti acquattati, avranno deciso, per vincere, dei massi lisci, podi da saltare a pieppari. Peppino era un mingherlino cui riuscì farsi gigante, andando alla ventura paurosa contro la criminale mafia che lo aveva minacciato di infamarlo, di ucciderlo, perché senza più sangue non sarebbe più cresciuto”.

“Ciò
di cui sono convinto è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini
del mondo e costringere la finanza a fare un bel passo indietro”.
Ivan Grossi, una vita dedicata alla
scienza, alla tecnologia ed al progresso, ci racconta cinquant’anni di storia
italiana.

Era il 2004, il mio giornale mi aveva
inviata a Cortino, un comune abruzzese in provincia di Teramo di 609 abitanti,
per seguire il progetto “Ecotourism: places ad traditions”, che aveva
come obiettivo la diffusione e la valorizzazione del turismo ecologico e vedeva
coinvolti 12 partners provenienti da Italia, Spagna, Germania, Croazia, Grecia,
Cipro, Portogallo e Lituania. Un progetto molto interessante. Io seguivo
solamente la parte italiana. In quella occasione il gruppo formato da diversi
professionisti, giornalisti, ambientalisti, scienziati, letterati, artisti e
agricoltori condivise tre giornate memorabili all’insegna delle tradizioni e
del buon cibo, ma soprattutto di lunghe passeggiate “raccontate” da
gente del luogo in cui tutto veniva vissuto con semplicità e profondo
interesse. Mi ritrovai quasi tutto il tempo a dialogare con un uomo
incredibilmente gentile, sensibile, carismatico ed affascinante di cui
inizialmente ignoravo completamente il ruolo: era il direttore del progetto,
Ivan Grossi.

Laureato in fisica, consulente senior
nel settore dell’innovazione tecnologica per diverse importanti società a
livello internazionale, docente di comunicazione pubblica ed istituzionale,
consulente del ministero degli affari esteri ambasciate d’Italia a Beirut e a Tirana, formatore di personale, coach,
direttore generale presso la pubblica amministrazione, programmatore-analista e
coordinatore, studioso presso l’università di Glasgow, Delaware (Usa), Belfast,
autore di numerose pubblicazioni in diverse lingue e paesi, dal 2011 presidente
dell’Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana di
Assisi.

Amante del jazz e della poesia del Novecento
italiano, della poesia arabo-musulmana, interessato alla saggistica, alla
fantascienza, alla letteratura di viaggio, ai film d’autore, all’arte
contemporanea e d’avanguardia.

Le sue parole, nel corso degli anni,
hanno sempre avuto un valore alto, durante conversazioni e scambi a distanza,
mentre uno camminava in montagna e l’altro in riva al mare.

In questo momento particolarmente
delicato abbiamo apprezzato molto i suoi interventi e lo ringraziamo per
l’intervista concessa che proponiamo, con grande piacere, ai nostri lettori.

Nella nostra introduzione abbiamo
tentato di sintetizzare un curriculum imponente. La sua esperienza in ambiti
così tanto diversificati la rende un referente importante per fare il punto
della situazione in questo momento storico arduo. Anni di difficoltà che ci
impongono riflessioni profonde. Qual è il suo pensiero in proposito?

“Concordo con il caratterizzare questi
anni come anni difficili, anni in cui – grazie anche allo sviluppo tecnologico
– i luoghi decisionali si sono lentamente ma inesorabilmente spostati da quelli
“democratici” – i parlamenti, i consigli regionali e comunali – ai consigli di
amministrazione di aziende private che ora non si riuniscono nemmeno più sul
territorio su cui ricadranno le loro decisioni. Non è inverosimile immaginarsi
un amministratore delegato a Chicago che decide delle sorti di centinaia o
addirittura migliaia di lavoratori di una fabbrica, in provincia di Modena, che
opera nel settore elettromedicale. Quanto appena citato mi fa ricordare che
nella seconda metà dell’Ottocento uno scrittore portoghese, Eça de Queiroz, in
una sua opera intitolata O Mandarim (Il Mandarino) si immaginava come avrebbe
potuto comportarsi un portoghese se avesse avuto la possibilità, schiacciando
un pulsante, di uccidere un mandarino cinese in cambio di un tangibile
vantaggio in Portogallo: quella finzione letteraria è diventata oggi realtà e
l’amministratore delegato di Chicago è il portoghese dell’opera di
Eça de Queiroz, i lavoratori della
fabbrica modenese sono i mandarini di oggi: sacrificabili per un vantaggio a
Chicago. Tutto questo credo stia a testimoniare che le difficoltà attuali
vengono da lontano e sono tutte figlie del modello economico di sviluppo che,
soprattutto in Occidente, è stato adottato, modello che è responsabile anche
dei cambiamenti climatici, come ha ricordato in una recentissima conferenza
Emilio Padoa-Schioppa, dell’Università di Milano-Bicocca.

Non ho ricette, soprattutto perché
sono fermamente convinto del primato della politica sulla finanza e la
tecnologia ed anche perché non sono un decisore politico. Ciò di cui sono
convinto però è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini del mondo
e costringere la finanza a fare un bel passo indietro. Per chiudere questa
breve riflessione, credo che se dovessi, fra i tantissimi problemi che abbiano
di fronte, individuarne uno ed uno solo non avrei dubbi: l’immigrazione, non
certo per alzare muri o affondare barconi bensì per cercare, a livello globale,
una soluzione che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di avere una vita
dignitosa per sé e per i propri figli. Leggiamo di sofferenze indicibili cui
sono sottoposti i migranti davanti alle quali l’unica cosa che mi viene in
mente è il grido di Primo Levi: Se questo è un uomo!”

Oltre cinquant’anni di attività
professionale in ambiti differenti con uno sguardo scientifico. Com’è cambiato
il mondo in questo lungo lasso di tempo?

“L’unica cosa certa è che il mondo è cambiato molto non solo nelle cose ma soprattutto sono cambiate le persone, le scale di valori riconosciute e utilizzate. Posso tentare di sintetizzare cosa è cambiato nel mio mondo, nella sfera delle mie relazioni sociali, nei luoghi di lavoro che mi hanno ospitato: è pertanto una visione molto parziale di un cambiamento più ampio e più profondo che ha coinvolto l’intero mondo. Non avendo paura di tradire il fatto che ho la barba bianca, sono passato dall’uso a scuola della “cannetta” con il pennino (e i diversi tipi di pennino per i diversi tipi di tratto), che si intingeva nel calamaio alloggiato nel banco (che il personale della scuola riempiva ogni mattina) all’uso della Apple Pencil sul mio iPad mentre sto condividendo ciò che scrivo con un collega in quel momento molto lontano da me. La tecnologia mi ha salvato – almeno per ora – la vita aiutandomi a curare una malattia per la quale trent’anni fa la prognosi sarebbe stata assolutamente infausta.

(Scatto dell’Ospite)

Questi pochi esempi spero diano la dimensione di quanto la tecnologia, che ha tradotto in beni e servizi le conquiste scientifiche, sia progredita in un lasso di tempo assolutamente breve, soprattutto se comparata con quanto avvenuto nei secoli passati. Come mi chiede la gentile intervistatrice, per questo benessere abbiamo dovuto pagare un prezzo: la qualità dei rapporti umani e la progressiva perdita delle “radici” culturali. Non sono un laudator temporis acti. il lavoro che ho svolto è sempre stato all’insegna dell’innovazione, tuttavia si è voluto a tutti i costi – nella maggior parte delle situazioni – tagliare i ponti con le tradizioni, con gli stili di vita che caratterizzavano territori, comunità, gruppi sociali per tendere ad una omologazione almeno su scala continentale se non addirittura su scala planetaria. È in atto, ma non da ora, un processo di omologazione che se da un lato mi fa sentire a casa in qualunque città perché ritrovo gli stessi negozi, gli stessi cibi, gli stessi spettacoli dall’altro sento tutto questo estraneo perché costruito negli uffici marketing e non grazie al lento evolversi di un processo locale. Forse è chiaro ormai ai più che, come dice Stigliz, la globalizzazione così come è stata realizzata abbia favorito solo un ristrettissimo gruppo sociale e finanziario ed abbia penalizzato tutto il resto del mondo. Come risultato tangibile della trasformazione (in senso negativo) dei rapporti umani abbiamo di fronte ai nostri occhi il modo in cui viene gestito il problema delle migrazioni di massa (come vede – gentile intervistatrice – è un tema che ricordo spesso): fin dal momento in cui queste persone disperate lasciano la loro terra per puntare verso l’opulento Occidente, reso opulento da secoli di prelievo di risorse da quelle terre da cui provengono i migranti, inizia per loro un viaggio che non ho riserve a definire simile ai viaggi in treno per Treblinka. Confido nelle giovani generazioni per marcare un significativo cambio di rotta nel segno della solidarietà: da questo punto di vista, la mia generazione, quella del Sessantotto, ha mancato clamorosamente l’obiettivo”.

Cos’è la paura?

“La paura è una compagna di viaggio necessaria. La paura di non essere all’altezza del compito assegnato è la molla che mi spinge ad impegnarmi, a non sopravvalutarmi. Ho pagato a caro prezzo il non aver avuto paura nell’affrontare certe situazioni. Anche mentre rispondo a queste domande, postemi da una gentilissima ed apprezzata giornalista, la paura è seduta qui vicino a me e mi ricorda che ciò che sto per dire non sia scontato ma interessante, che l’ovvio è sempre pronto ad entrare in scena. E certe indecisioni nell’eloquio (che purtroppo il testo non potrà riportare) sono il tangibile segno della sua presenza. A volte mi assalgono paure irrazionali che coinvolgono persone a me molto molto care: fortunatamente sono molto sporadiche ed ho imparato a gestirle. Non ho paura di morire e di questo devo ringraziare la mia professoressa di lettere del liceo Giacomo Leopardi: “è funesto a chi nasce il dì natale” possiamo leggere nella splendida poesia dedicata al pastore dell’Asia. È il prezzo che dobbiamo pagare per vivere e sarei disposto a pagarlo cento volte in cambio di cento altre vite!”

(Scatto dell’Ospite)

Il tema di questo numero di
Condivisione Democratica è l’apparenza. Quanto conta ciò che non si vede?

“L’apparire ha molte valenze, sia
positive che negative: anche il non apparire ha questa doppia valenza che
dipende da come e perché la si usa.

L’abito non fa il monaco, si è sempre
detto, ma in tanti contesti – più attenti alla forma che alla sostanza,
probabilmente perché non in grado di valutarne il merito – vestirsi in un certo
modo, utilizzare un certo tipo di linguaggio fa la differenza. Come ho
affermato in altre occasioni, se in forza di una crescita culturale a tutto
tondo, il tendere ad un certo modello, ad un certo stile di vita, anche se si
deve fare ancora della strada, ti suggerisce di cominciare a comportati “come
se fossi già al traguardo”, quell’apparenza rappresenta la palestra in cui
esercitarsi per impratichirsi di un ruolo cui si aspira. Se invece l’apparenza
è solo una maschera per coprire vizi e animo cattivo allora il
compito degli altri è togliere
quel mantello. Specularmente, a volte un aspetto “dimesso”, al limite da
sembrare ciò che non si è, può servire a mettere a suo agio l’interlocutore o
valutarne le capacità a rapportarsi con persone meno attrezzate. Ho utilizzato
quest’ultima tecnica più volte quando volevo capire quanto fosse preparato il
mio interlocutore su un determinato argomento (di cui ritenevo di avere buone
conoscenze). Mi fingevo un principiante, di poche letture su quel tema: dalla
chiarezza con cui mi illustrava un certo tema potevo comprendere quanto chiara
fosse per lui ciò che mi stava esponendo. E’ una tecnica che ritengo molto
utile per farsi un’idea – in un tempo ragionevolmente breve – del livello di
preparazione di una persona. Peraltro Churchill diceva che riesci a dire una
cosa in modo chiaro solo se la conosci molto bene”.

La scienza e la tecnologia hanno fatto
passi da gigante. Qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare?

“La mia è una risposta “di parte” avendo avuto una formazione molto legata alle discipline scientifiche per antonomasia: la fisica e la matematica sono per me le categorie con cui non solo comprendere la scienza ma il modo principale con cui leggere il mio quotidiano. Il Determinismo è un faro! È ciò che mi ha permesso di tenere ferma la barra nella bufera della pandemia dove si elevavano a leggi universali ciò che si era appreso su Facebook confondendo discipline deterministiche con quelle probabilistiche, facendo equivalere opinioni personali ad evidenze scientifiche.

(Truccato da Nonno Gatto dall’adorata nipotina Cecilia – 5 anni)

Una necessaria premessa, propedeutica
all’analisi del prezzo che il consorzio umano ha dovuto pagare. Il progresso
scientifico, da cui deriva quello tecnologico, ci ha permesso di mettere in
soffitta l’ “ipse dixit” (chiunque si voglia individuare con ipse), ovvero la
categoria che ha permesso di condannare Galileo Galilei; inoltre ci ha  costretto a non credere a ciò che ci viene
detto ma a rispettare solo “le evidenze scientifiche”, il metodo galileiano in
ultima analisi, consapevoli tuttavia che ogni passo in avanti nella conoscenza
non sarà mai un passo definitivo e che potrà essere smentito,
corretto o inglobato da un futuro
passo in avanti. Si pensi alla legge della gravitazione universale di Newton e
la relatività generale di Einstein, dove la seconda ha inglobato la prima.
Sgombrato la strada dal macigno dell’ipse dixit e con in mano la bussola del
metodo galileiano, si è potuto riprendere un cammino per tanti secoli ridotto
ad una strettoia. Abbiamo dovuto accantonare tante illusioni, tante superstizioni,
tante false verità che l’umanità si era costruita nel tempo: ora la Terra non è
più al centro dell’universo, il grembo di una Donna non è più un semplice
contenitore ma un co-attore nella creazione di una nuova vita, l’Uomo non è
stato creato in un paradiso terrestre ma è il frutto di un’evoluzione che
peraltro non lo aveva previsto, per citare il noto saggio di Telmo Pievani.
Certo abbiamo dovuto ammettere che il miraggio fosse solo un fenomeno ottico
che la fisica spiega perfettamente; abbiamo dovuto accettare che i vaccini
abbiano più efficacia del decotto della nonna, anche se non sempre sortiscono
l’effetto desiderato (la medicina è una disciplina probabilistica non
deterministica!)  e consolarci con il
fatto che quelli salvati sono molti, molti di più di quelli cui il vaccino ha
nuociuto. Per farmi capire: se lascio cadere un sasso, qualunque sia la sua
forma o il
suo peso, esso cadrà sempre a terra e con la stessa
accelerazione grazie alla forza di gravità, quando invece somministro un
farmaco, anche se è passato al vaglio di tutti i protocolli di sperimentazione
fin qui noti, avrò un’alta probabilità che sortisca l’effetto desiderato (la
guarigione di una certa patologia) non la certezza.

In ultima analisi, il prezzo che
abbiamo dovuto pagare alla scienza è la perdita di una lettura semplificata (a
volte addirittura semplicistica) del mondo che tuttavia ci viene restituito
sotto la forma di una aumentata capacità di saper leggere la Natura.

Diverso discorso è per le tecnologie.
Il benessere di cui soprattutto il mondo occidentale gode è merito delle
innovazioni tecnologiche: la plastica ad esempio ha permesso di realizzare
oggetti utili a costi molto bassi: dalla semplice terrina per l’insalata al
bypass cardiaco, passando per i paraurti di un’auto, per la tastiera del
computer. Tutto molto bello, comodo, a basso costo se …. in mezzo all’oceano
Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) non si fosse formata un’isola di rifiuti
di plastica ampia come la Spagna (alcuni dicono come gli Stati Uniti). Ci si
chiede: la compromissione della vita degli oceani vale la comodità di una
terrina per l’insalata? Credo che i lettori di questa interessante rivista
digitale (Condivisione Democratica) siano anche frequentatori dei social media:
io li uso molto sia per informarmi sia per tenere i contatti sia ancora per
divertimento. È davvero bello poter interagire con immediatezza anche con chi
sta dall’altra parte del mondo, è molto utile avere informazioni di prima mano,
è molto comodo potersi fare aiutare nella ricerca di un ristorante o di un
prodotto ed un istante dopo prenotare (avendo anche uno sconto) o ordinarlo ed
il giorno dopo averlo a casa. Come avrà facilmente compreso vivo appieno il mio
tempo (in altri contesti si sarebbe usata la locuzione “è uomo del suo tempo”).
Tutte queste comodità hanno però un costo molto alto per ciascuno di noi che
navighiamo grazie ad un browser (uso prevalentemente Safari), utilizziamo un
motore di ricerca (uso Google, peraltro ho tenuto tanti seminari sui motori di
ricerca), teniamo i contatti con i social (uso molto Facebook e Instagram,
abbastanza Twitter e Telegram e ormai l’indispensabile WhatsApp) però pagando
il prezzo che tutto ciò che caratterizza la mia presenza sulla rete è diventato
di proprietà dei grandi player della rete (Google, Facebook, ecc.) che
utilizzano i miei dati per fare business. I miei interessi, i mei gusti
interessano chi produce beni o servizi in grado di incontrali o soddisfarli; le
mie convinzioni politiche interessano le organizzazioni politiche ma anche la
polizia (per non parlare dei servizi di intelligence); i miei orientamenti
sessuali o religiosi possono interessare un datore di lavoro o un gruppo
sociale. La mia immagine può essere utilizzata, insieme a migliaia e migliaia
di altre, per costruire un archivio con cui istruire un algoritmo di
riconoscimento facciale; oppure la mia immagine essere scelta da un altro
algoritmo fra i probabili responsabili di un certo fatto criminoso perché l’identikit
fornito all’algoritmo lo rimanda alla mia immagine; oppure le ormai ubique
telecamere davanti cui transito spostandomi semplicemente da un punto all’altro
della città permettono ai gestori di quelle telecamere di ricostruire i miei
spostamenti, in modo analogo a ciò che può fare il gestore della SIM del nostro
smartphone che sa in ogni istante dove siamo ed a che velocità ci spostiamo. In
sintesi, paghiamo tutto ciò in termini di compressione delle
libertà individuali. Il mio
maestro mi ammoniva sempre: comincia a
preoccuparti seriamente quando ti
renderai conto che non potrai più metterti le dita nel naso senza che nessuna
ti veda. Siamo giunti purtroppo a questo punto.

D’altra parte chi sarebbe disposto a
ritornare al solo telefono a gettoni, allo scambio epistolare per dare ed avere
notizia? L’importante è non lasciare tutte queste informazioni nelle mani dei
consigli di amministrazione di imprese private senza aver varato norme
stringenti che ne regolino l’acquisizione e la conservazione. Ritorno al
problema del ruolo centrale dei parlamenti che dovrebbero urgentemente normare
questo settore, con norme sia a livello nazionale sia sovranazionale. Come ben
sappiamo in Internet non esiste la dimensione spaziale – ogni web è lì a
portata di un click – e questo costringe ad avere una normativa sovranazionale
oltre ad una nazionale. Come si può ben comprendere stiamo pagando un prezzo
molto salato per potere fruire dei servizi di una società digitale.

Se il mondo digitale è così “costoso”,
altri settori tecnologici sono meno voraci. Penso ad esempio all’aumentata
sicurezza nei trasporti (le auto sono sempre più sicure), alle macchine
salvavita (come quelle per la dialisi o i pacemaker) che sono sempre più
affidabili ed efficienti, alle protesi sono sempre più sofisticate per citar
solo alcune applicazioni della tecnologia delle quali non potremmo fare a meno.
Credo che si possa convenire che se arriveremo in breve tempo ad una normativa
sulla gestione delle informazioni personali il bilancio dell’uso delle
tecnologie possa essere certamente positivo senza alcuna riserva. D’altra parte
chi sarebbe disposto a tornare al calesse, alla candela, al decotto di lino?”.

Nel 1970 si laureava in fisica presso
l’Università di Bologna con una tesi sperimentale svolta presso l’Istituto
Nazionale di fisica nucleare
.
Cosa significava essere uno scienziato allora quando tutto sembrava ancora
da scoprire ed il futuro appariva come qualcosa da costruire per un mondo
migliore e possibile?

“Sono approdato all’università solo pochi anni prima che scoppiasse il Sessantotto e la facoltà che frequentavo fu uno dei centri di quel movimento mosso dall’utopia di rivoluzionare il mondo. Allora ci si credeva, si leggeva la scienza prevalentemente in chiave sociale e di classe. Come lei certamente saprà il filosofo di riferimento era Herbert Marcuse e L’uomo ad una dimensione il verbo a cui attingere, la scienza doveva essere strappata dalle mani “del capitale e dei padroni” ed essere messa a disposizione delle masse proletarie e degli operai.

(Bologna – Scatto dell’Ospite)

Parole d’ordine che allora avvolgevano e convincevano ma che oggi, a più di 50 anni di distanza, stento francamente a comprenderne la reale valenza e soprattutto il vero obiettivo. Di allora ricordo la passione per i passi da gigante compiuti dalla fisica nei 50 anni precedenti: dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla fisica nucleare all’uomo sulla Luna. Erano la conferma che la fisica ed anche la matematica permettevano di leggere correttamente il mondo e che tutto ciò avrebbe reso il mondo migliore. Non avevo fatto i conti, non avevamo fatto i conti, allora con gli altri attori sociali, oltre gli scienziati. Infatti ero ancora all’università quando scoppiò la bomba alla filiale della banca nazionale dell’agricoltura in piazza fontana a Milano; già lavoravo al Centro interuniversitario CINECA quando cominciarono ad apparire le prime stelle a cinque punte inscritte in un cerchio (il simbolo delle Brigate Rosse), quando fu rapito Aldo Moro e quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. In un simile contesto sociale le utopie o anche semplicemente le aspirazioni personali e collettive passano in secondo piano perché è in pericolo il bene primo: la democrazia. Ho dovuto attendere gli anni Ottanta per riprendere a “sognare” un mondo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia e ciò è successo quando fui chiamato ad unirmi al gruppo di lavoro che avrebbe dovuto assistere il ministro (meglio la ministra) della pubblica istruzione di allora a redigere e tradurre in pratica le linee guida del Piano nazionale informatica per le scuole medie superiori. Gli anni del progetto furono l’occasione per adottare soluzioni innovative, per formare una classe di docenti più preparata (ebbi la responsabilità di organizzare la formazione complessivamente circa 6.000 docenti). Furono anni in cui sperammo che una scuola più in linea con i tempi potesse garantire agli studenti di allora un futuro meno difficile: non potevamo immaginare che dieci anni dopo sarebbero arrivati ministri della pubblica istruzione che invece di aiutare la scuola pubblica a migliorarsi ancora avrebbero adottato provvedimenti che la avrebbero fortemente penalizzata a vantaggio della scuola privata. Per fortuna quegli anni Novanta videro l’uscita di Internet dai laboratori di ricerca (al Centro presso cui ero cominciammo ad utilizzare Internet nel 1986) e raggiungere il grande pubblico. Fu quella l’occasione per far conoscere questa tecnologia ai decisori nazionali e locali e dar vita alle prime reti civiche. Fui coinvolto fin dal suo concepimento alla progettazione e alla realizzazione della rete civica Iperbole (vinse il premio europeo della Bangemann Challenge) e l’utopia (in parte realizzata) di portare il Cittadino all’interno delle istituzioni e in grado di interagire con esse in tempo reale. Erano le basi per quella democrazia diretta che tanto mi interessa e che sarebbe stata di stimolo per quella rappresentativa. Il modello Iperbole (acronimo di Internet per Bologna e l’Emilia-Romagna) lo esportai in tante altre città dell’Emilia-Romagna e in altre regioni italiane. La tecnologia più recente veniva portata nelle case dei Cittadini e avrebbe dato loro la possibilità di far sentire la propria voce. Forse una delle utopie sessantottine concretizzata?”.

I temi legati all’ecologia sono stati
sempre a lei molto cari. Gli esiti però non sembrano essere stati quelli che
tutti si auguravano, cosa è andato storto? C’è ancora la speranza di poter fare
qualcosa di buono, giusto, sano e corretto?

“Il tema mi è sinceramente caro anche
se, come lei ben sa, non sono un esperto. Le opinioni che mi sono fatto sono il
frutto di letture (buone) e di ottime conferenze come quella di sabato scorso
di Bruno Carli, accademico dei Lincei, cui ho assistito. Lei mi chiede cosa sia
andato storto: la risposta non può che essere al plurale, vale a dire che il
comportamento di ognuno di noi ha contribuito a far ammalare il nostro pianeta.
Certo con responsabilità affatto diverse fra un presidente del Consiglio e chi
scrive, ad esempio, ma con la consapevolezza che è sul modello di sviluppo che
occorre intervenire in primis. Scrive infatti il prof. Carli in un articolo del
2020:

<<Come risultato della crescita della popolazione e dell’aumento dei
consumi, la domanda di energia e risorse è cresciuta talmente che tutte le
evidenze scientifiche mostrano che ci stiamo scontrando con i limiti
fondamentali del pianeta.
>>, ed ancora sempre Carli in un saggio del
2017 edito da il Mulino: <<La scienza ci dice che è in corso un
cambiamento climatico, che questo è causato dall’uomo, che in futuro alcune
risorse e alcune regioni del pianeta potrebbero non essere più utilizzabili nei
modi in cui siamo abituati e che per arrestare questo processo occorrono
interventi drastici […]. Se e come agire sulla base di queste conoscenze è ora
una scelta politica che riguarda la strategia con cui vogliamo gestire il
futuro nostro e del pianeta
>>. Da ciò che ho letto ed ascoltato
non esiste una soluzione: occorre trovare il concerto fra le diverse soluzioni
ognuna delle quali ne ottimizza l’applicazione, tenendo conto anche di fattori
specifici. L’unica cosa certa è che occorre fare presto, molto presto e bisogna
farlo tutti assieme: non è sufficiente – anche se utile – che solo una parte di
noi diventi virtuosa, occorre che lo si diventi tutti. L’anidride carbonica
emessa in aria in Italia contribuisce al problema del riscaldamento e non solo
dell’Italia ma dell’intero globo. Occorre puntare, sottolineava Bruno Carli,
sulle energie rinnovabili, sull’efficientamento energetico, sul passaggio
all’elettrico abbandonando l’uso dei combustibili fossili”.

Non sempre la scienza è stata legata a
progetti autonomi ed indipendenti, spesso si è arresa al servizio di interessi
economici molto importanti che in qualche modo l’hanno indirizzata verso
obiettivi pilotati e commissionati. Chi può e deve difendere la scienza da
percorsi fuorvianti e dannosi?

“Certamente l’episodio più importante
di indirizzamento della scienza verso obiettivi discutibili è individuabile nel
progetto Manhattan, vale a dire la realizzazione della prima bomba atomica e la
conseguente distruzione di Hiroshima e Nagasaki, che ha visto la partecipazione
dei più preparati fisici e matematici allora esistenti. Per inciso ricordo che
un ruolo fondamentale in quel progetto fu ricoperto da Enrico Fermi cui è
dedicato l’istituto di fisica dell’Università dell’Illinois e un grande
laboratorio di ricerca, il FermiLab, entrambi negli USA. Da quell’esperienza,
certamente fondamentale dal punto di vista scientifico, Fermi trasse un
insegnamento che fu poi recepito nello statuto del Centro Europeo di Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra: un centro di ricerca accademico non può essere
utilizzato per ricerche coperte da segreto militare. Fu questo il testamento
che Fermi, morì infatti pochi mesi dopo, consegnò ad Edoardo Amaldi, incaricato
di redigere lo statuto del costituendo CERN. Alla sua domanda rispondo quindi:
gli scienziati e solo loro devono decidere verso dove orientare la loro
ricerca, almeno per quella parte della ricerca che viene detta di base, vale a
dire che studia le parti fondanti dell’universo in cui viviamo. Questa ricerca
deve essere finanziata senza condizionamenti se non quelli insiti nei metodi
stessi che la comunità scientifica si dà, vale a dire che i risultati devono
essere riconosciuti tali anche dagli altri scienziati. Se poi un governo o una
società privata vogliono che si esplorino ad esempio le potenzialità e i campi
di impiego di un nuovo materiale, che si cerchino farmaci per curare una certa
malattia ecco tutto questo attiene alla trasformazione dei risultati
scientifici in applicazioni tecniche ed industriali. Resta evidentemente il
grande problema degli aspetti etici: se lo studio dell’atomo non ne pone, ne
pone tantissimi lo studio e la manipolazione delle cellule. Non mi trova
d’accordo che in alcuni settori di ricerca un comitato (ad esempio quello
bioetico), formato anche da rappresentanti di confessioni religiose, o ad esse
riferentisi, possano mettere il veto su una proposta di ricerca. Come vede,
gentile sig.ra La Vecchia, pur essendo credente sono molto laico, una laicità
corroborata anche da importanti letture come il saggio di Peter Harrison
The Territories of science and
religion
”.

E’ giusto credere in una scienza ed in
un progresso tecnologico ad ogni costo?

“L’unica cosa che deve essere fatta ad ogni costo è ciò che può impedire qualcosa di irreparabile. La scienza e la tecnologia sono entità, mi passi questo termine, che per loro natura non possono essere cristallizzate. Si possono rallentare ma mai fermare o far regredire per la semplice ragione che la scienza nasce ed abita la mente dell’uomo. Pensi che Newton formulò la teoria corpuscolare della luce mentre era confinato in campagna a causa di una epidemia e aveva con sé solo carta e penna. Il raggio di luce che, entrando da un foro della finestra, disegna sulla parte opposta un “arcobaleno” lo spinge a indagare sulla natura della luce. Quali gli strumenti a disposizione? Una giornata di sole, un forellino in una finestra socchiusa, una stanza in penombra e la straordinaria mente di uno dei più grandi scienziati di sempre. Questo improbabile mix è il responsabile di uno dei più importanti risultati della fisica contemporanea; coinvolto nel calcolo delle traiettorie delle mitragliatrici della contraerea, a John von Neumann, forte anche di esempi precedenti (ad esempio Babbage, Zuse), fa sul foglio di un bloc-notes uno schizzo che alla stazione di Filadelfia (siamo all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale) mostra al direttore dei laboratori di calcolo di Aberdeen dell’esercito americano. Quello schizzo è lo schema funzionale di tutti i computer che dal 1943 in poi sono stati utilizzati, anche quello che il lettore sta utilizzando nel momento in cui legge questo articolo. Come vede la scienza non è imbrigliatile. Ci possono essere momenti in cui ingenti fondi vuoi pubblici vuoi privati possono essere resi disponibili per un certo settore di ricerca. Di norma questi settori coincidono con la presa di coscienza dell’esistenza di un importante problema (la necessità di abbandonare i combustibili fossili, ad esempio): la spinta ad impegnarsi “ad ogni costo” su questi temi ha alle spalle una motivazione condivisibile e spesso urgente. Quello che occorre assolutamente evitare è che il dirottamento di cospicue risorse finanziarie su questi temi urgenti impediscano agli altri settori di continuare il loro lavoro. Purtroppo non sempre c’è la sensibilità, da parte dei decisori politici, ad operare per non penalizzare nessuno”.

Nel 1997 è ideatore del progetto TECA
della Pro Civitate Christiana di Assisi per l’informatizzazione del museo e la
digitalizzazione dei beni culturali ivi contenuti. Ci parli di questa
importante iniziativa. Come nasce l’idea?

“Nel lontano 1997, in aprile, alcuni professionisti di Faenza (che erano in contatto con la Pro Civitate Christiana, detta anche Cittadella di Assisi) vennero al Cineca per propormi di progettare la digitalizzazione del museo della Cittadella. Dagli inizi degli anni ’90 al Cineca mi occupavo anche di Digital Cultural Heritage e pertanto l’invito fu prontamente accettato. In quel periodo, ero impegnato in un importante progetto (detto NUME), in collaborazione con l’Università di Bologna, che aveva l’obiettivo di ricreare in 3D la Bologna medievale con la possibilità di vederne le trasformazioni nel tempo. Quel progetto mi permise di familiarizzare con le tecnologie più all’avanguardia (il progetto fu presentato ad un convegno negli USA) rivolte all’acquisizione e all’elaborazione di immagini in ambito culturale.

(Una sala del Museo – Scatto dell’Ospite)

Dopo una serie di sopralluoghi in
Assisi, scrissi un progetto, dedicato all’informatizzazione del museo (che
battezzai TECA – Testimonianze Ecumeniche alla Cittadella di Assisi) che
presentai al MiBAC e che fu finanziato per intero: 1500 milioni di lire. Il
progetto TECA fu realizzato fra il 2001 e il 2003 ed io ne fui il project
manager. Il progetto TECA ebbe un’immediata ricaduta anche sulla biblioteca del
Sacro Convento di Assisi, in cui sono conservati tra l’altro i manoscritti di
san Francesco, perché appena si seppe che stavo lavorando per la Cittadella fui
contattato per scrivere un progetto per digitalizzare gli antichi manoscritti
conservati in quella biblioteca. Fu una vera emozione poter prendere in mano
(dopo aver indossato un paio di guanti) i manoscritti del Poverello di Assisi.

Tornando
al progetto TECA, i suoi frutti possono essere così sintetizzarli:

  1. Digitalizzazione di 2681 opere della
    Galleria, pari al 65,9% delle opere conservate, e rendere accessibili i
    corrispondenti oggetti digitali via Internet;
  2. Protezione gli oggetti digitali con la
    tecnologia del watermarking (filigrana digitale);
  3. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 1535 opere, pari al 37,7% dell’intera collezione della Galleria, e renderlo
    accessibile via internet;
  4. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 35.002 volumi (pari al 50% del patrimonio conservato) e renderlo accessibile
    via internet;
  5. Digitalizzazione dell’intero fondo
    antico delle Cinquecentine, 17 volumi per complessive 8098 pagine, proteggerle
    con la tecnica del watermarking e renderle accessibili integralmente via internet;
    due di esse sono state trasposte anche in formato full-text;
  6. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    delle opere della Fonoteca registrate su supporto vinilico e renderlo
    accessibile via Internet. Sono state catalogate 6207 opere per complessivi 8150
    supporti;
  7. Conversione analogico-digitale dei
    dischi di maggior interesse e/o in precario stato di conservazione pari a circa
    140 ore di ascolto;
  8. Restauro digitale dei brani musicali
    compromessi da supporti in precario stato di conservazione;
  9. Creazione del portale attraverso cui
    accedere agli archivi, effettuare delle visite virtuali, avere informazioni
    sulle mostre, i seminari e le altre iniziative culturali, acquistare poster,
    riproduzioni, aderire all’Associazione “Amici dell’Osservatorio – ONLUS” [ora
    “Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana Organizzazione di
    Volontariato (ODV)”]

Tutto questo 20 anni fa”.

Perché l’interesse per Assisi?

“Ero stato in Cittadella per un
convegno nel dicembre del 1971 ma lo consideravo un episodio che non avrebbe
avuto un seguito. Furono le tante visite propedeutiche alla scrittura del
progetto TECA a farmi prima conoscere quella realtà e poi legarmi con un affetto
straordinario ai volontari laici che la gestiscono. Furono le persone con cui
interagii, purtroppo molte di loro non ci sono più, che con la loro cultura,
umanità e gentilezza mi accolsero subito come uno di loro. La “magia” che
ancora pervade la Cittadella è quella di far sentire a proprio agio chiunque:
dal credente all’ateo, dal conservatore al progressista, dall’uomo della strada
al docente universitario. Nel corso degli anni (fu fondata nel 1939) tutti i
grandi della cultura, delle arti figurative, del cinema e del teatro, della
musica e della politica italiana si sono fermati in Cittadella lasciando
preziose testimonianze in convegni e congressi, oltre a scritti e interviste.
Si sono fermati in Cittadella ad esempio Rossellini, Vlad, Pasolini, Luzi, De
Chirico, Moro ed anche papa Giovanni XXIII, amico fraterno del fondatore della
Pro Civitate don Giovanni Rossi. Ho quindi iniziato ad affezionarmi a questa
abbazia laica attraverso le opere d’arte conservate nella Galleria d’arte
contemporanea (curata con abnegazione da Anna Nabot), che ospita capolavori del
secondo Novecento italiano, con qualche eccezione come l’americano William
Congdon, che per tanti anni frequentò la Cittadella, dopo essersi trasferito da
Venezia ad Assisi. Un museo che sorprenderà per la ricchezza e singolarità
delle opere ospitate, un numero importante delle quali appartiene alla
collezione di Gesù lavoratore, opere in cui viene reso omaggio ai lavoratori,
dal muratore al carpentiere, al fabbro attraverso la figura del Cristo”.

Qual è attualmente la situazione
dell’associazione e quali sono i progetti e le iniziative future?

“Come tutte le associazioni di
volontariato che non hanno alle spalle uno o più sponsor, l’associazione Amici
dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana – Organizzazione di
Volontariato (ODV) che presiedo dal 2011, la cui missione è assistere e
promuovere il museo della Cittadella, ha sempre più idee di quante ne possa
realizzare. Se da un lato i soci sono distribuiti un po’ in tutta Italia –
negli scorsi anni ne abbiamo avuti anche dall’estero – permettendoci di avere
un qualche riscontro anche in luoghi lontani da Assisi, dall’altro l’attività
ricade prevalentemente sul presidente e sui consiglieri, non potendo contare su
adeguate forze ubicate in Assisi. Oltre alla carenza cronica di persone
fattivamente coinvolgibili, l’associazione vive una perenne situazione di
inadeguatezza del budget a disposizione. Nonostante queste condizioni, non
certamente ottimali, con tenacia e perseveranza cerchiamo di onorare gli
impegni che lo statuto ci impone e quindi, grazie anche alla “quiete” del
lockdown abbiamo messo a punto alcune idee progettuali per i prossimi anni.

Partendo dalla considerazione che
dalla realizzazione del progetto TECA ad oggi la tecnologia del web aveva fatto
passi enormi, soprattutto in termini di accesso alle informazioni, alla loro
condivisione e alla loro ricerca e che il look del sito web scaturito dal
progetto (
www.procivitate.assisi.museum) mostrava i segni del tempo, come una
rosa recisa, abbiamo deciso di metterci mano. Delle scelte tecnologiche di
allora tuttavia si sono rivelate time independent gli standard adottati per
digitalizzare le immagini, la fase del progetto più onerosa sia in termini di
tempo sia di risorse umane e finanziarie.

La fase uno del progetto JANUS

Con queste premesse, risulta
abbastanza naturale pensare di cambiare la “cornice” ad una “tela” di pregio e
con queste finalità è stato concepito il progetto JANUS. Il nome tradisce
apertamente gli obiettivi: ci saranno due interfacce web, una per accedere alle
informazioni del museo, l’altra per accedere al web dell’associazione: entrambe
accederanno, tramite una opportuna interfaccia, a tutte le informazioni digitali
esistenti (opere d’arte, stampe antiche, musica, libri, cinquecentine) come
fossero in un unico archivio che sarà trasportato sul Cloud in modo da
garantirne la funzionalità h24 ed avere una velocità di accesso molto maggiore
da qualunque parte del mondo l’utilizzatore si colleghi. L’interfaccia web sarà
multilingue: italiano e inglese per ora.

Questa riorganizzazione dell’accesso
alle informazioni digitali permetterà al visitatore virtuale di accedere a
tutte le informazioni disponibili su un certo autore o una certa opera nelle
diverse sezioni. Ad esempio, un visitatore interessato a Giorgio De Chirico (la
Galleria conserva una splendida opera del grande maestro metafisico dal titolo
Gesù Divino Lavoratore del 1951) digitando il suo nome otterrà l’immagine della
tela del 1951, le immagini dei 4 disegni conservati nel Gabinetto delle stampe,
l’elenco dei libri che sono dedicati a lui.

Le interfacce web permetteranno di
soddisfare le esigenze di visitatori affatto diversi: dal semplice “curioso”,
all’appassionato di arte, allo studioso e al ricercatore.

Il progetto JANUS esplorerà anche la possibilità
di creare delle immagini NFT (Non-Fungible Token), immagini digitali uniche e
non replicabili, per dare la possibilità al museo di crearsi una fonte di
finanziamento vendendo gli NFT delle sue opere, avendo già la base digitale per
realizzarle.

Inoltre le opere della Galleria d’arte
contemporanea, una sezione del museo, verranno corredate di un codice QR per
permettere al visitatore di avere sul proprio smartphone le informazioni utili
per comprendere l’opera di fronte alla quale si trova.

Il progetto JANUS è stato finanziato
al 60% dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia: il restante 40% è
in parte coperto con i fondi dell’associazione che presiedo e per la parte
rimanente contiamo su donazioni e sponsorizzazioni che sto cercando. Iniziato
nel dicembre del 2021 avrà una durata di 12 mesi.

Abbiamo già pensato ad una fase due e
tre del progetto: il problema, come si può facilmente intuire, è rappresentato
dalle risorse finanziarie.

La fase due di JANUS prevede la digitalizzazione dell’epistolario
degli autori le cui opere sono conservate nel museo. Si tratta di circa 10.000
lettere che i diversi artisti, da De Chirico a Prosperi, da Carrà a Pirandello
e Rosai, hanno scritto a don Giovanni Rossi per spiegare, commentare le loro
opere. Molte lettere, tuttavia, vanno oltre il mero dato “contingente” e sono
vere e proprie confidenze ad un sacerdote. Si ha un quadro molto umano di
questi artisti, molti di loro pilastri dell’arte italiana del secondo
Novecento. Crediamo sia importante mettere a disposizione questo materiale
autografo a studiosi e ricercatori, senza compromettere l’integrità
dell’archivio. Il progetto potrebbe essere completato nell’arco di 18 mesi e
l’archivio generato integrato con quello creato dalla fase 1 di JANUS. Stiamo
cercando i fondi e sarò felice di illustrare i dettagli ad un eventuale
sponsor.

La fase tre di JANUS è un progetto molto ambizioso. La Pro
Civitate Christiana fondata nel 1939, come già ricordato, ha svolto un ruolo
molto importante nella cultura e nella società italiana. Si sono fermati lì
tantissimi protagonisti della cultura e della politica italiana: da Moro a
Rossellini, da papa Giovanni XXIII a Roman Vlad, da Pasolini a Luzi per citarne
solo alcuni.

E queste persone hanno lasciato
testimonianze scritte, sonore e di immagini ora conservate (su supporti
analogici) nell’archivio generale della Pro Civitate Christiana. Inoltre i
volontari ancora in vita e che hanno vissuto quelle passate stagioni e quelle
più recenti sono “memorie” viventi cui vorremmo “far raccontare la loro vita” e
rendere disponibili anche queste testimonianze ai posteri.

Purtroppo l’archivio non è mai stato
digitalizzato. Vorremmo intraprendere questa iniziativa per consegnare alla
storia tutte queste informazioni. Il progetto è ambizioso ed anche molto
costoso: ad una prima stima occorrerebbero non meno di 5 anni ad un team di
almeno 4-5 persone in modo da mettere a disposizione del progetto competenze
archivistiche, informatiche, biblioteconomiche avvalendosi anche di strutture esterne
per realizzare le (lunghissime) interviste. Sarebbe molto bello che un
importante mecenate, o un gruppo di mecenati, volesse associare il proprio nome
a questa iniziativa che verrà consegnata alla storia. Anche in questo caso sarò
lieto di poter esporre il progetto a chi potrebbe esserne interessato.

Infine alcune informazioni sull’associazione che presiedo.: Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana ODV (organizzazione di volontariato) ha sede in Assisi presso la Pro Civitate Christiana (nota anche come Cittadella di Assisi) in via degli Ancajani 3 – 06081 Assisi è stata fondata nel 2000 per aiutare il museo della Pro Civitate dopo il terremoto del 1997. Ha soci sparsi in tutta Italia e si finanzia con le quote sociali, le donazioni e il 5 x mille e con questi fondi assiste il museo, purtroppo non per tutte le necessità per l’esiguità delle risorse disponibili. L’indirizzo di posta elettronica è amiciosservatorio@gmail.com e il sito web è www.amiciosservatorio.org”.

(Scatto dell’Ospite)

Una breve visita virtuale del museo
può essere effettuata raggiungendo questo link

L’idea di essere un uomo di scienza è
sempre stata presente nella sua vita?

“Mi è sempre sembrato naturale
occuparmi di scienza fin dai tempi del liceo quando mi resi conto che il
professore di matematica e fisica (ho frequentato il liceo scientifico Serpieri
di Rimini) era l’unico in grado di catturare il cento per cento della mia
attenzione. L’iscrizione a fisica fu una cosa quasi naturale (oggi sceglierei
matematica, ma questo è un altro discorso), così come fu casuale il mio
diventare un informatico. Lo stesso giorno in cui mi laureai andai nella sede
del Cineca a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, per salutare alcuni
compagni di corso che già lavoravano là ed anche un professore di fisica, con
cui ero in contatto, che aveva iniziato a collaborare con quel centro. Entrai
come visitatore e ne uscii come dipendente. Non sono rimasto disoccupato
nemmeno dodici ore! La matematica, l’informatica e le loro applicazioni nelle
diverse discipline scientifiche prima e poi in quelle statistiche ed
umanistiche divennero il mio “pane” quotidiano. Non ho mai preso in considerazione
il cambio di campo.

Tuttavia qualcosa cominciava a
bruciare sotto la cenere: una costante necessità di leggere “cose” non
tecniche: mi appassionai alla letteratura ispano-americana e
portoghese-brasiliana di cui ho letto tantissimo, mia appassionai alla musica
sinfonica e da camera (che nel 2005 abbandonai per abbracciare il Jazz),
all’arte senza aggettivi.

Quando agli inizi degli anni ’90 mi fu
proposto di occuparmi di tecnologie digitali per i beni culturali queste due
passioni, quella professionale e quella privata, avevano trovato una casa
comune.

La scienza e soprattutto il metodo
scientifico fanno così parte del mio modo di pensare che ho elaborato – per
alleggerire quest’intervista, della quale la ringrazio infinitamente – una
teoria matematica dei vizi.

Questa teoria afferma che il numero di
vizi di ognuno di noi è una costante (detta K) e che i vizi si dividano in
confessabili (Vc) e inconfessabili (Vi). In formula:

Vc + Vi = K

Vale a dire che più si sembra
perfetti, più vizi inconfessabili si hanno.

È la santificazione dei mascalzoni!”

Eppure il suo animo è fortemente
“inquinato” da note artistiche, creative, poetiche e letterate, questo ha
rappresentato un “disturbo” o una distrazione nella sua vita professionale?

“Lo dicevo anche poco fa: l’amore per
l’arte nelle sue moltiplici forme è stato prima un fiume carsico che ha trovato
nel settore del digital cultural heritage il suo punto di emersione. Devo anche
ammettere che l’informatica e solo lei (e non le altre discipline) mi ha come
prosciugato perché è un campo in cui solo molto poco di quello che si è fatto
ed imparato permane nel tempo. Mi spiego meglio: ciò che ho studiato di
matematica all’università è ancora tutto completamente attuale e utilizzabile,
ciò che ho imparato di fisica è al 99% utilizzabile. Ciò che ho imparato (e
conoscevo molto bene) di informatica negli anni Settanta e Ottanta è
utilizzabile solo al 20%, nella migliore delle ipotesi. Quindi le scorribande
nel settore umanistico sono state una necessità che fortunatamente sono
riuscito a rendere compatibile con l’attività professionale”.

Che cosa vuole fare il dott. Grossi da
grande?

“Vorrei scrivere un libro. Ho provato
alcune volte ad iniziare un’impresa di questo genere ma “il da fare quotidiano”
ha sempre avuto la meglio”.

La prima cosa che le viene in mente da
dire ad un giovane oggi.

“Leggi molto, leggi tutto ciò che ti
passa sottomano. Studia, studia, studia e se hai la fortuna di amare il
pensiero astratto studia matematica: è la più straordinaria costruzione
astratta mai creata dalla mente umana”.

I suoi impegni professionali l’hanno
vista da sempre impegnato in giro per il mondo. Come si concilia questo con una
famiglia?

“È stato un problema che non sono
stato capace di risolvere. Gli impegni professionali mi costringevano molto
spesso a spostarmi in Italia e all’estero e devo confessare che amavo quei
viaggi perché mi permettevano di incontrare persone, imparare cose nuove,
visitare luoghi mai visti e non facilmente accessibili come quando, ad esempio,
sedevo nel comitato creato dalla Commissione Europea per l’introduzione
dell’Information Technology o in quello per la collaborazione fra università e
imprese che si riuniva di volta in volta in un paese diverso. Essendo un
comitato europeo riconosciuto venivamo ospitati nei palazzi delle istituzioni
del paese ospitante: edifici per lo più storici che non avrei mai avuto la
possibilità di visitare.

Ho soggiornato per periodi abbastanza
lunghi negli USA (in quelle occasioni portai con me la famiglia), la norma però
era viaggiare solo o con colleghi. Fu durante questi lunghi viaggi che, per
ottimizzare il contenuto della valigia, iniziai a portarmi dietro dei libri di
poesie: un solo libro di poesie può farti compagnia per settimane perché le
poesie si leggono e rileggono più volte anche durante la stessa giornata. Non
lo si fa – almeno a breve – con un libro di narrativa. L’ottimizzazione del
peso della valigia mi ha permesso di addentrarmi nello splendido universo della
poesia.

Non ricordo se nel 1986 o 1987
trascorsi in trasferta più della metà delle giornate lavorative di quell’anno.
Rientrando a casa una sera mia moglie mi chiese di mostrale i documenti prima
di togliere il chiavistello. Come vede il problema c’è stato.

Ora che non sono più in attività ho
una regola aurea: prima gli affetti e poi il resto e finora sono riuscito a
mantenere, nella stragrande maggioranza delle volte, questo impegno”.

Il covid ci ha tolto momenti
importanti e ci ha costretti ad un blocco forzato, ad una paralisi fisica ed
emotiva. In molti parlano di perdita importante, ma ci sono state anche
ricchezze altrettanto importanti. Fermarsi non sempre è un male. Qual è il suo
bilancio?

“Confesso che ho vissuto con una certa leggerezza i mesi del lockdown stretto del 2020. Lo stare in casa mi ha permesso di leggere ed ascoltare tanto Jazz. Con le video conferenze ho recuperato incontri sempre invocati al telefono ma mai realizzati. Avevamo (ed abbiamo) il vantaggio di abitare nello stesso edificio di un grande supermercato per cui non ci è mancato mai nulla né siamo stati costretti a lunghe file potendo decidere quando scendere. Avendo fatto la scelta di essere molto prudenti,  vuoi per le norme imposte, vuoi per i consigli di amici medici, abbiamo ridotto al minimo i contatti: la famiglia di mio figlio maggiore (il minore vive all’estero). Solo sporadicamente la famiglia di mio fratello e quella degli amici più cari: peraltro abitando tutti questi fuori provincia abbiamo dovuto attendere le necessarie autorizzazioni.

(Manifesto di una delle Conferenze)

Mi è mancato l’andare al cinema almeno
due volte la settimana: dal marzo 2020 ad oggi sono stato al cinema una sola
volta nel novembre scorso; mi sono mancati i viaggi; mi è mancata Assisi.

Ho cercato di supplire a questa sosta
forzata organizzando delle conferenze in modalità streaming, di fare riunioni
in videoconferenza.

Ho sempre indossato la mascherina
anche se ora mi accorgo di essere un po’ insofferente.
La sosta forzata cui siamo stati costretti, più che i regimi di
semilibertà che mi hanno creato più problemi che vantaggi, mi ha permesso di
essere padrone assoluto del mio tempo. La giornata era scandita dalle cose che
volevo e mi piaceva fare. Avevo tirato fuori dal fondo di un cassetto un
comodissimo abito da casa con cui sono entrato rapidamente in simbiosi. Un
periodo che mi ha regalato tranquillità e tanto tempo per me. Un paio di mesi
l’anno di lockdown li accetterei molto volentieri”.

La crudeltà sugli animali è il tirocinio della crudeltà sugli uomini” (Ovidio)

“Sono animalista, buddista, non violento. Ritengo che ciascuno di noi debba impegnarsi nel proprio piccolo per lasciare il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato perché “chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Walter Caporale, fondatore, presidente e legale rappresentante dell’associazione Animalisti Italiani (anno di nascita 1998), da oltre quarant’anni è impegnato a diffondere nel nostro paese una cultura basata sul rispetto del diritto alla vita di tutti gli esseri viventi, uomini e animali, contro ogni forma di violenza, sfruttamento e prevaricazione. Un impegno partito da adolescente e che inizia a concretizzarsi nel lontano 1987 quando presenta ed ottiene l’approvazione della legge 281/91 sul randagismo, che ha abolito l’uccisione dei cani randagi nei canili dopo tre giorni dalla cattura.

(Foto dell’Ospite)

Consigliere direttivo nazionale della LAV dal 1989 al 1994, direttore italiano dell’IFAW (Fondo Internazionale per la Protezione degli Animali) fino al 1998, rappresentante italiano della PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) la più grande associazione animalista al mondo. Ha fatto parte del comitato di redazione della rivista animalista “Impronte”, autore del libro “La crudeltà non è chic”, prima guida italiana per il movimento antipellicce, curatore di copertine ed interviste per il “Venerdì” di Repubblica, promotore, insieme ad altre associazioni e parlamentari di ogni orientamento politico, della nuova legge contro l’abbandono ed il maltrattamento degli animali, che li ha finalmente considerati soggetti di diritto: per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Le più recenti iniziative vedono Animalisti Italiani impegnati per la l’aiuto ed il sostegno agli animali provenienti dall’Ucraina e nella raccolta firme, che scadrà il prossimo 31 agosto, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale (Europa senza vivisezione – Save Cruelty Free Cosmetics). 

Abbiamo intervistato Walter Caporale per i lettori di Condivisione Democratica. 

(Foto dell’Ospite)

L’associazione animalisti italiani compie 24 anni, tante le battaglie affrontate e vinte, gli animali vengono finalmente considerati soggetti di diritto e per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Perché è stato così difficile affermare ciò che dovrebbe essere riconosciuto universalmente e spontaneamente?
“La radice del problema sta nello specismo ossia in quella discriminazione – indifendibile ed antiscientifica – in base alla specie (quella umana superiore a quella animale) che è parente stretta della discriminazione in base alla razza e al genere. Nonostante anni di battaglie animaliste ancora oggi gli animali, malgrado l’evoluzione legislativa, continuano ad esseri mezzi a disposizione dell’uomo e non veri soggetti di diritto. Basti pensare alle attuali normative vigenti concernenti l’uccisione e maltrattamento degli animali (legge 189/2004, artt. 638 e 727 c.p.), compiuti con crudeltà e senza necessità che prevedono pene inferiori ai quattro anni  e la sospensione della pena o addirittura del processo, chiedendo in prima battuta l’istituto per la messa alla prova che dà luogo appunto, in caso di esito positivo della prova, all’estinzione del reato.
Le norme ci sono ma vanno indubbiamente riviste in termini di aumento della pena e in merito alla parte lesa: l’animale va considerato in quanto essere senziente di per sé. Per questo da tempo raccogliamo firme, durante i nostri stand informativi e tramite il nostro sito www.animalisti.it, per la petizione finalizzata a chiedere un inasprimento delle pene in proporzione ai reati commessi. Speriamo che qualcosa cambi realmente grazie al recente inserimento della tutela degli animali in Costituzione. Mettiamoci in testa che siamo tutti inquilini dello stesso palazzo: esseri umani, animali, piante”.

(Foto dell’Ospite)

Chi è violento con gli animali è predisposto ad essere violento anche con gli altri “deboli” della società, anziani, bambini o portatori di handicap, leggiamo tra le pagine dell’associazione. Cosa la porta ad affermare questo parallelismo?
“Quando è stata inaugurata la statua di Snoopy, il cane ucciso a Livorno da un colpo di fucile, alla sua base è stata impressa, appunto, la frase di Publio Ovidio Nasone, il poeta latino vissuto tra il 43 a. C.  e il  17 d. C.: “La crudeltà verso gli animali è tirocinio della crudeltà contro gli uomini”. È impressionante constatare, come già secoli fa, la correlazione tra violenza sugli animali e violenza sugli umani fosse una certezza. Riconoscere che la violenza sugli animali è sintomo di predisposizione alla violenza sui più deboli della società è per noi un’evidenza, dal momento che abbiamo constatato sul campo casi concreti in cui il colpevole aveva precedentemente commesso atti di violenza su esseri umani. La percentuale più alta di tali abusi l’abbiamo rilevata proprio tra le mura domestiche.  Gli studi che riguardano la cosiddetta zooantropologia della devianza sono vastissimi e partono da un assunto fondamentale: la violenza sugli animali è spia di pericolosità sociale. Riconoscere che essa rappresenti un preciso segnale di un possibile futuro comportamento antisociale, è il primo passo per poter cambiare la cultura nei confronti dei crimini sugli animali”.

L’associazione ha come mission quella di opporsi ad ogni tipo di violenza, sopruso ed abuso nei confronti degli animali: dalla caccia alla vivisezione, dai maltrattamenti di animali all’abbandono, dal randagismo agli allevamenti intensivi, dalle pellicce agli zoo, dai circhi e dai delfinari alle manipolazioni genetiche. In quali di questi argomenti avete trovato maggiore resistenza e perché?
“Indubbiamente vivisezione, allevamenti intensivi e caccia, perché attorno ad essi ruotano gli interessi economici, difficili da contrastare, delle lobbies più potenti”.

(Foto dell’Ospite)

Alla radice di molte tra queste situazioni da voi fortemente combattute ci sono enormi interessi economici e la battaglia si fa ancora più dura e complessa. Qual è stata la realtà più drammatica che siete riusciti a smascherare rendendola pubblica?
“Era il 22 maggio 2017, quando 22 macachi utilizzati dal CNR per la vivisezione, vennero salvati e trasferiti, dopo una battaglia durata ben 4 anni, dal Centro ENEA Casaccia (RM) al Centro di Recupero Natuurhulpcentrum Wildlife Rescue ad Oudsbergen in Belgio grazie all’operato degli Animalisti Italiani, all’impegno e alla strenua determinazione con cui si è portata avanti una lotta fatta di molteplici attività: manifestazioni, blitz, conferenze, azioni legali e politiche, campagne di sensibilizzazione.Il Centro ricerche Casaccia a Cesano, vicino Roma, dell’Imri (Istituto Nazionale di Metrologia delle radiazioni ionizzanti) – Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), come emerso dalle nostre investigazioni, deteneva circa 120 macachi allevati, sottoposti a esperimenti e smistati presso altre strutture. Di questi, 65 macachi dopo la sperimentazione erano rimasti chiusi, come vecchi oggetti inutilizzati, negli stabulari, anziché essere affidati a un’oasi o a un centro di recupero. Per questo presentammo subito esposto alla Procura della Repubblica di Civitavecchia. Passarono 4 lunghi anni, prima di riuscire a salvare quelle povere creature tenute in gabbia senza motivo. Riuscire a restituire loro la libertà, ha ripagato ogni nostro sforzo”. 

In questi ultimi anni pare ci sia una maggiore sensibilità verso argomenti animalisti, quali sono i dati e cosa emerge in modo più diretto?

“Le numerose campagne animaliste hanno sicuramente contribuito a sensibilizzare i cittadini, in particolare, sullo sfruttamento degli animali e sulla loro salvaguardia sotto diversi punti di vista. Nello specifico, il tema della produzione e dell’utilizzo delle pellicce, e quindi dell’allevamento di animali a questo scopo, ha trovato negli italiani, un’opposizione quasi plebiscitaria (l’83% dei cittadini secondo i dati Eurispes è contrario): tant’è che finalmente, complice anche la pandemia, gli allevamenti di visoni sono stati chiusi definitivamente. Sicuramente è aumentata anche la sensibilità verso il problema dei cambiamenti climatici i cui dati parlano da soli: secondo le previsioni scientifiche il riscaldamento globale di 1,5°C e 2°C sarà superato durante il corso del XXI° secolo a meno che non si verifichino nei prossimi decenni profonde riduzioni delle emissioni di CO2 che sono state le più alte degli ultimi 2 milioni di anni. Ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima del Pianeta di cui siamo tutti direttamente responsabili”.

Macchine, oggetti, mezzi a disposizione dell’uomo, incapaci di ragionare solo perché non hanno capacità di parola. Gli animali, ancora oggi sono così considerati. L’argomento è anche culturale. Come si fa a sconfiggere determinazioni così fortemente radicate nell’essere umano?
“La sensibilizzazione e la corretta informazione producono il cambiamento culturale che serve per formare, in primis, le nuove generazioni al rispetto degli animali e dei più deboli”. 

La logica è fondamentalmente quella dell’essere superiore ed inferiore. Quella umana su quella animale, quella bianca sulle altre, quella maschile su quella femminile. Si ha bisogno di trovare una giustificazione per lo schiavismo, lo sfruttamento del debole, lo sterminio. Nel corso degli anni avete ampliato molto le vostre battaglie diversificando anche gli argomenti. Non c’è il rischio di perdere l’identità?
“È un rischio che siamo pronti a correre ben volentieri. L’identità è una soltanto ed il messaggio è forte e chiaro. Dobbiamo superare il concetto di superiore ed inferiore in qualsiasi ambito ed attraverso argomentazioni semplici, lineari, sane e corrette. Uno studio inglese di qualche anno fa (università di Cambridge) ha dimostrato come i bambini che rispettano gli animali saranno adulti migliori. Un animale educa alla diversità ed alla differenza, dimostrando al bambino che esistono altri esseri viventi meritevoli ed in grado di offrire molto dal punto di vista affettivo. I bambini che imparano a rispettare gli animali sviluppano una capacità empatica che li porta a leggere e comprendere le emozioni ed i comportamenti altrui, proprio perché allenati fin dalla più tenera età all’osservazione di un essere vivente che è portatore di bisogni fisici ma anche psicologici da interpretare e da rispettare. L’attenzione, la comprensione e la compassione per tutti gli esseri viventi dovrebbero essere al primo posto negli intenti educativi dei genitori. Potrebbe sembrare assurdo che occorrano studi, progetti educativi, iniziative di sensibilizzazione a scuola, dialoghi nel nucleo familiare, parentale e amicale, per far arrivare un messaggio che appare quanto mai naturale, evidente ed intuitivo, eppure è esattamente così e per quanto possa anche stupire per certi versi, noi continuiamo a trattare l’argomento in ogni sua, anche evidente, fattispecie. Le modalità possono essere innumerevoli. Ciò che a noi interessa è il risultato e siamo disposti ad impiegare sempre più tempo, risorse ed energie per concretizzare la reale e concreta difesa e tutela del più debole”.

(Foto dell’Ospite)

Qual è stata la vostra più recente vittoria?
“La nostra più recente vittoria è il divieto, con la Legge di Bilancio 2022, degli anacronistici e pericolosi allevamenti da pelliccia, veri e propri lager per gli animali. L’Italia è così diventata un Paese più civile e cruelty-free, collocandosi come il ventesimo Paese europeo che ha introdotto tale divieto. Una scelta etica che non solo rispetta la vita degli animali, esseri senzienti proprio come noi, ma previene il diffondersi di spillover e zoonosi tutelando la stessa salute collettiva. Animalisti Italiani ha contribuito, nel corso degli anni della sua attività, sia attraverso la consegna di oltre 150.000 firme al Parlamento per la sospensione degli allevamenti di animali da pelliccia che mediante numerosissime battaglie sul campo: manifestazioni, presidi e blitz non sono mai mancati, ad esempio, durante la settimana della Moda a Milano. Mani insanguinate, fischietti e cartelli con volpi, visoni ed il volto di donne bellissime che seguono la moda senza indossare pellicce, come Pamela Anderson e l’indimenticabile Marina Ripa di Meana ci hanno aiutato a sensibilizzare sulla necessità di una moda cruelty-free.

Un’altra importante vittoria che ci sta particolarmente a cuore è quella relativa al salvataggio di 4 delfini del Delfinario di Rimini a cui è seguita la successiva condanna del suo Direttore per maltrattamento di animali e la chiusura definitiva del delfinario. Dal 2013 Animalisti Italiani è al centro di una lunga e importante battaglia legale che abbiamo sostenuto avvalendoci della rappresentanza legale dell’Avv. Michele Pezone per tutelare il diritto alla vita di Lapo, Alfa, Sole e Luna, i 4 delfini protagonisti di questo caso giudiziario che subivano forme di maltrattamento costante, soprattutto a causa di una sistematica ed inappropriata somministrazione di calmanti e di ormoni. Si tratta di un caso unico in Italia: per la prima volta nel nostro Paese è stata portata avanti un’inchiesta approfondita su una vicenda di maltrattamento di delfini. Di certo è una sentenza storica, come è avvenuto per Green Hill, utile affinché si comprenda la fondamentale importanza della tutela non soltanto fisica, ma soprattutto psicologica ed etologica degli animali”.

Ci spieghi come avviene il processo, in tutte le sue fasi, per portare avanti le vostre campagne di sensibilizzazione.
“Lavorare in gruppo ci aiuta a far fluire le idee che evolvono grazie al confronto, ma soprattutto partendo dalle criticità quotidiane segnalate dai volontari che operano sul territorio, a stretto contatto con gli animali, oltre che dall’analisi del contesto generale. Si prende spunto anche dalla rassegna stampa quotidiana e dai testi di legge per individuare i temi più caldi relativi alla tutela degli animali. Da qui, si fa uno screening degli obiettivi da raggiungere e si decide il focus della campagna da realizzare. In concomitanza all’utilizzo di tutti gli strumenti di comunicazione classica (volantini, eventi, spot, media) ci avvaliamo del supporto di vip e influencer per amplificare maggiormente il messaggio anche sui social, divenuti il luogo virtuale più frequentato dal popolo del web. È un lavoro accurato, di fino, molto coinvolgente per la squadra ed efficace per il risultato finale”.

I suoi riferimenti sono Martin Luther King, Nelson Mandela, San Francesco e Madre Teresa di Calcutta. Ai giovani mancano riferimenti importanti e decisivi per l’orientamento delle loro scelte e molti non hanno una conoscenza approfondita, a volte neppure superficiale, di nomi così fondamentali per il nostro progresso, la nostra libertà e la nostra cultura. Cosa ne pensa?

“Ormai è luogo comune dire che i giovani siano spenti e privi di riferimenti culturali importanti. Spesso commentando il comportamento di molti di essi (forse in modo anche un po’ troppo semplicistico), si afferma che i ragazzi di oggi non hanno più valori, non hanno nulla in cui credere, non hanno nessun interesse vero all’infuori del divertimento. No, non è così: cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. I giovani traboccano di buoni valori, di energie, di voglia di fare e di desiderio di affermazione, diversi fra loro ma simili per tenacia e grinta e capaci di trasmettere tanti messaggi positivi. Si pensi a Greta Thunberg e al movimento Fridays For Future”.

La vita non si compra, si adotta. Combattere il commercio degli animali a favore della loro adozione consapevole. Perché l’essere umano ha “necessità” di acquistare animali di razza, belli, costosi e a volte addirittura anche rari?

“Alcuni esseri umani cercano di appagare il proprio ego distorto attraverso finte necessità che gli producano una soddisfazione apparente, ma che in realtà non fanno altro che evidenziare un enorme vuoto esistenziale. “La vita non si compra, si adotta” è lo slogan del nostro ultimo spot televisivo, andato in onda sulle reti Mediaset dal 20 al 26 febbraio, realizzato insieme a Cuori in Corsa, il primo Moto Club animalista d’Italia rappresentato da Giacomo Lucchetti, motociclista battagliero in pista quanto nella lotta per difendere gli animali. Abbiamo unito le forze per trasmettere un messaggio importantissimo: combattere il commercio degli animali, a favore della loro adozione consapevole. Gli animali non sono merce da acquistare in negozio, ma vite preziose da accogliere e amare per sempre. Per questo è fondamentale adottare nei canili e nei rifugi e non comprare. Solo così facendo li rispetteremo e non ruberemo una possibilità di adozione ai cani, chiusi in un canile, che tutti i giorni sognano una vita migliore”.

Con il progetto “Animal care” avete avviato una campagna di sterilizzazioni gratuite interamente finanziata dagli Animalisti Italiani. Quanto è grave ancora oggi il problema del randagismo e dove è maggiormente diffuso?
“Il randagismo è una piaga endemica: ancora molto diffuso nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno dove, sebbene si percepiscano segnali di miglioramento, il fenomeno resta grave. Sono stimati in 600 mila i cani randagi in Italia e più di 2 milioni e mezzo i gatti. Vagano per le strade in cerca di cibo, riparo, una carezza. Nella sola città di Roma, dove è partito il nostro progetto pilota “Animal care”, sono oltre 13.000 i cani randagi. Secondo i dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute, aggiornati al 31 dicembre 2020, gli ingressi dei cani nei canili della Capitale sono stati 8.240, 5.085 nei rifugi, 6.050 i cani dati in adozione e 7.323 i gatti sterilizzati. Tali numeri si “arricchiscono” continuamente di nuovi abbandoni, delle cucciolate dei privati, in molti casi lasciate negli scatoloni vicino ai cassonetti e della prole frutto degli accoppiamenti dei randagi che, per ogni femmina non sterilizzata, danno luogo fino a 300 nuovi cani in 2 anni. Così è un fenomeno tutt’altro che raro quello di residenti dei quartieri che spargono veleno nei parchi e nelle zone di riparo di tali animali per risolvere in modo delinquenziale una piaga che nasce per un comportamento a sua volta irresponsabile di alcuni cittadini e per l’inerzia delle amministrazioni deputate al controllo del fenomeno. “Animal Care” è una risposta concreta a tutto questo: contrastare il randagismo attraverso le sterilizzazioni”.

Animalisti Italiani ha aderito all’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale. Entro il 31 agosto 2022 bisogna raccogliere un milione di firme. Ci spieghi meglio gli obiettivi e ci dia qualche dato concreto sugli esperimenti condotti sugli animali. 

“Molte persone non sanno che i test cosmetici sugli animali sono ancora consentiti nell’UE ai sensi della legislazione sulle sostanze chimiche industriali. Nei test richiesti dall’Agenzia Europea per le sostanze chimiche, migliaia di ratti, conigli e altri animali sono costretti a ingerire o inalare ingredienti cosmetici, causando loro immense sofferenze prima di essere uccisi. In alcuni test, centinaia di conigli femmina vengono alimentati forzatamente durante la gravidanza prima di essere uccisi e sezionati insieme ai loro cuccioli non ancora nati. I marchi di cosmetici corrono il rischio di essere costretti a partecipare a test sugli animali con la conseguenza che non sarebbero più esenti da crudeltà o in grado di commercializzarsi come tali. È essenziale proteggere il divieto di sperimentazione animale sui cosmetici e il diritto dei consumatori ad acquistare prodotti cruelty-free. Pertanto, attraverso l’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, una volta raggiunto l’obiettivo della raccolta di 1 milione di firme, potremo chiedere alla Commissione europea di consolidare tale divieto e la transizione verso metodi di valutazione della sicurezza senza l’impiego di animali.
Nello specifico proporremo di adottare i seguenti provvedimenti: precedenza allo sviluppo e alla convalida di metodi non basati sulla sperimentazione animale nel bilancio dell’UE e nelle nuove politiche generali, quali il Green Deal europeo, la strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili e i piani per la ripresa post-COVID, riorientando i finanziamenti dagli studi sugli animali ad alternative altrettanto valide. Vogliamo modificare la legislazione per proteggere gli animali, i consumatori, i lavoratori e l’ambiente affinché in nessun caso e per nessun motivo gli ingredienti cosmetici siano sperimentati sugli animali. L’obiettivo è trasformare il regolamento UE sulle sostanze chimiche e impegnarsi per una proposta legislativa, pur riconoscendo la direttiva 2010/63/UE, che metta a punto una tabella di marcia per la progressiva eliminazione della sperimentazione animale nell’UE prima della conclusione dell’attuale legislatura”.

Molti ed importanti i ruoli da lei rivestiti in oltre quarant’anni di attività. Una dedizione assoluta e totale che non l’ha mai distratta dall’obiettivo principale della sua vita: il rispetto, il riconoscimento e la nonviolenza. Come si forma in modo così radicato e profondo un essere umano?
“Con l’empatia, la solidarietà, la compassione. Ma soprattutto mettendosi sempre nei panni dell’altro, prima di giudicare e/o condannare. Avevo 14 anni quando ho iniziato a lavorare per i diritti degli animali, dopo aver visto come venivano uccisi i cani nei canili pubblici. Bisogna informarsi, comprendere, vedere, vivere alcune situazioni, osservare non solo con gli occhi, e già quello basterebbe, interrogarsi su cosa ci sia veramente dietro facciate di comodo e di business. Il diritto alla vita e l’assenza di sofferenza inutile, ingiustificata, illegittima sono “emozioni” che ognuno di noi dovrebbe riservare all’altro, oltre a noi ci sono le vite degli altri ed ogni loro respiro dovrebbe essere importante per noi quanto il nostro”.

Il problema è sociale, politico, economico e culturale. Coinvolge molte fasce argomentative differenti ed ognuna di queste con un potere diverso. Non ha mai pensato fosse una impresa titanica? Ha mai avuto momenti di sconforto che potessero portarla a rinunciare?
“Cui prodest? Le sconfitte aiutano a crescere e a vincere nel lungo termine le battaglie più dure, anche quelle che sembrano impossibili. Davide ha sconfitto Golia. A chi giova farsi sopraffare da sentimenti ed emozioni negative? Sapevamo dall’inizio che nulla sarebbe stato facile o comodo o immediato, d’altronde quella che ci accingevamo a fare non era una battaglia semplice ed anche gli interlocutori non erano sempre così ben predisposti all’ascolto. Nulla o quasi ci ha mai colto di sorpresa e di conseguenza il probabile eventuale sentimento di delusione ed amarezza era qualcosa che conoscevamo bene prima ancora di cominciare ma questo non ci ha impedito di procedere a passo veloce e sicuro. Quando si è certi di fare del bene non ci si può permettere fasi di inattività dovuti a risultati che tardano ad arrivare, così come critiche, delegittimazioni. Ciò che facciamo è ciò di cui questa società ha bisogno e noi dobbiamo esserci con tutte le nostre forze”

Ci parli dei volontari, una forza lavoro fondamentale in questa attività.
“Ad oggi abbiamo 15 sedi locali sparse in tutta Italia che sono in continua crescita. I volontari rappresentano l’anima dell’Associazione Animalisti Italiani: la loro dedizione e passione è linfa vitale per gli animali. Senza il loro prezioso supporto giornaliero per la realizzazione dei progetti volti alla salvaguardia di ogni specie e di tutela diretta dei quattrozampe abbandonati, abusati, randagi, presenti sul territorio nazionale, non potremmo andare avanti”. 

Sostenere una buona causa si può. I buoni propositi si possono trasformare in azione concreta con un piccolo gesto di generosità. Attraverso t-shirt, tazze, felpe dell’associazione si possono fare donazioni per sostenere questa battaglia. Le iniziative si diversificano costantemente ma l’obiettivo rimane fermare la sofferenza di tutti gli animali. C’è un riscontro concreto a queste iniziative ed in che misura?
“Si assolutamente, il riscontro è positivo. Ovviamente si tratta di modi diversi per avvicinare e incuriosire le persone al fine di coinvolgerle nella causa animalista. Cerchiamo di sostenere autonomamente le spese per mantenere a vita gli animali che abbiamo salvato: non solo cani e gatti, ma anche pecore, caprette, agnellini, cavalli, asini e maialini di cui ci prendiamo cura e a cui vogliamo garantire un futuro sereno. Attraverso questi piccoli gesti di generosità riusciamo a portare avanti le nostre attività. Le donazioni sono fondamentali per ogni associazione di volontariato”.

Abbiamo avuto modo di leggere della vostra presenza anche nell’ambito della salvaguardia degli animali coinvolti nell’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Un impegno molto importante. Come vi siete organizzati?
“Ci siamo attivati per donare alimenti per gli animali provenienti dall’Ucraina rendendo la nostra sede centrale un punto di raccolta cibo e organizzando una serie di stand, i cosiddetti “Gazebo per la pace”, a Piazza del Popolo a Roma, al fine di incrementare la raccolta cibo. Il 2 aprile, in occasione dell’Assemblea Nazionale degli Animalisti Italiani, provvederemo a consegnare non solo il cibo raccolto, ma anche quello acquistato direttamente da noi. Un piccolo modo per dare il nostro aiuto in questa situazione drammatica”.

Quali sono i prossimi obiettivi di Animalisti Italiani?

“Lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.

Animalisti Italiani

Via Tommaso Inghirami 82, 00179 Roma – tel. 06/7804171 – email news@animalisti.it 

Sito internet www.animalisti.it 

pagina Animalisti Italiani su Facebook, Instagram e TwitterLink pagina web – raccolta firme “Europa senza vivisezione” scadenza 31 agosto 2022 – https://eci.ec.europa.eu/019/public/#/screen/home

La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano. Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa. 

“In questa guerra che ammutolisce, vedo bambini con piccole borse colorate camminare al freddo accanto a madri, sorelle, nonne, zie.
Tutte donne che hanno il coraggio di ricominciare.
Penso tante cose; quelle che chi capisce più di me, sa comprendere e analizzare meglio di me.
Stasera mi atterrisce una cosa minima.
Se sei madre, sorella, nonna, zia e ti trovi in questa situazione e devi fuggire, lasciare la tua casa, le tue cose, il tuo posto, la tua cucina, le tue lenzuola pulite, cosa fai mettere ai tuoi figli, ai tuoi nipoti in quelle borse?
Un cappello per il freddo, matite colorate, un libro, un pupazzo, un maglione in più, la foto di una vacanza al sole, la cioccolata?
Come si fa a dire a un bambino questo sì, quello no. Come si fa a scegliere?
Come si fa?
Il mio pensiero minimo va a quelle donne, tutte, e a quei bambini”.
Eva Romoli 

(Foto dell’Ospite)

Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito.
Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, La Repubblica le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato. 
L’abbiamo incontrata per i lettori di Condivisione Democratica. 

Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare
la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile?

“Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’ìnsegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio, che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose.
Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine”.

Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna?
“Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese”. 

Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?
“Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me”.

Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo?
“Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.  

(Foto dell’Ospite)

Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del “narratore” di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi?

Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere,  quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano”.

Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile?
“La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su fb: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è.
Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali”.

I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro?
“I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da 20 anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me”.

Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda?
“Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata”.

La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano La Repubblica che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo “produttivo” e costruttivo?
“No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte”.

Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album “Lettere antiche” dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori. 
“L’album #lettereantiche su fb è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di fb le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me!
Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra.
Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita?
Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose.
Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia”.  

La rubrica “cose belle”, sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma?
“Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su fb con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra.
È come guardi le cose, che fa la differenza”.

Molti di noi si sono trovati a dover “camminare con una stampella” a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano.
Eva è una donna forte, coraggiosa e “allenata”?

“Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola”. 

Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche?
“Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare”. 

Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre?
“Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia “essere donna oggi”: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera”. 

Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico?
“Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei”. 

Una vita a suon di bacchette “magiche”, il ritmo inarrestabile di un percussionista romano: Alex Barberis ed i suoni del mondo 
“Lo spirito della percussione è qualcosa che si può sentire ma che non si può afferrare, ti fa qualcosa che ti entra dentro…Colpisce la gente in modi diversi. Ma la sensazione che si prova è di soddisfazione e gioia. E’ uno stato d’animo che ti fa dire a te stesso “Sono felice di essere vivo oggi! Sono felice di essere parte di questo mondo” – Babatunde Olatunji, percussionista e musicista nigeriano. 
“Se non avessi fatto il percussionista sarei diventato un archeologo”. Per fortuna è diventato un percussionista anche perché sarebbe stato capace di utilizzare pale, picconi e picconcini, zappe, palette, scopette, spazzole e cazzuole al posto delle bacchette probabilmente da battere a suon di musica su carriole, secchi e antichissimi e preziosissimi reperti. 

(Foto dell’Ospite)

Un mondo di musica e di passioni, quello di Alex Barberis, percussionista romano. Il suono portato ovunque, in ogni tipo di esperienza in un arco di tempo importante, quasi quarant’anni. Studia, sperimenta, da vita a gruppi musicali, Maximum Available Gain capitanato dal chitarrista compositore Max Alviti, Simposio, Traccia Mista, L’Albero di Maggio, Janis is Alive, Colors 3, è promotore e partecipa ad iniziative musicali tra cui il primo “Working Progress Clinics Drummer Festival”, di cui è fondatore, una iniziativa messa in atto da un gruppo di insegnanti di batteria appartenenti alla realtà di Roma e dintorni. Un gruppo eterogeneo che si è formato allo scopo di cooperare, con il fine ultimo di divulgare, attraverso l’organizzazione di Clinics, le proprie singolari scuole di pensiero. Ha realizzato brani di sonorizzazione per le trasmissioni Linea Blu (Raiuno) e L’Italia sul due (Raidue), ha collaborato con il musicista americano Buddy Miles ed Alex Britti, il suo cd di musica improvvisata “Colori” è stato utilizzato nella rappresentazione teatrale Medea. Nel 2007 diventa Endorser delle batterie V-Drums Roland esordendo presso l’Open Day, la più importante manifestazione fieristica del settore musicale del centro sud Italia. Con i Three Way Drummers svolge il primo Summer Drummer Masterclass a Firenze. Suona nella maratona musicale “Dalla pelle al cielo” a Roma e per lo spettacolo “Io, Anna e Napoli” tra parole e musica di e con Carlo Delle Piane. 

(Foto dell’Ospite)

Ma questa rappresenta solo una sintesi di tutto il lavoro svolto da Alex Barberis. I suoi orizzonti musicali si estendono a molti generi tra i quali drum’n’bass, R&B, funk, etnofunk, hip hop, jazz funk, jazz fusion, latin jazz, cubana, latino americana, salsa, musica sinfonica, musiche di scena, canto popolare, musica africana, musica araba, world music, ambient, samba ed elettro jazz. Raccontando della sua partecipazione al progetto Khelè è come se descrivesse sè stesso: “Khelè è un universo di simboli e di enunciazioni evocative che trovano nel processo creativo e nelle modalità organizzative prescelte, l’evoluzione dinamica di un autentico viaggio sonoro in continuo divenire. Khelè non si pone alcuna limitazione sul tipo di strutture o tipo di improvvisazione o stile musicale. L’obiettivo principale di Khelè è esprimere creativamente la bellezza dei vari linguaggi musicali, usando in modo ambivalente strutture definite, libera improvvisazione, ricerca timbrica e uso delle nuove tecnologie di sintesi sonora. Khelè è la materializzazione delle infinite emozioni che la musica può offrire: un viaggio musicale che supera qualunque barriera spazio-temporale legata ai limiti di genere o stile musicale”. Perché Alex è un po’ tutto questo, un bellissimo universo di improvvisazione, creatività,  stili differenti, ricerca, dinamicità e poesia.

Lo abbiamo intervistato per i nostri lettori. 

(Foto dell’Ospite)

Cercando di visionare quanto più materiale possibile sulla sua figura professionale mi sono “smarrita” ed è stata una bellissima sensazione. Un mondo immenso di eventi, attività, esperienze, collaborazioni, nell’arco di circa quarant’anni. Mi aiuti a ritrovarmi iniziando a raccontarmi del suo essere bambino, immagino appassionato di tutto ciò che riusciva ad emettere un qualsiasi suono.
Sono l’ultimo di sei fratelli, tutti ascoltavano musica di ogni genere, quindi, venivo a conoscenza di gruppi, musicisti, cantanti e cantautori di ogni parte del mondo grazie a loro. Una volta la musica si ascoltava con molta curiosità ed attenzione. Quando ero piccolo, sei o sette anni, ascoltavo principalmente musica tramite il famoso mangiadischi portatile, dischi in vinile a 45 giri saranno stati 400/500 dischi, da Battisti, Bennato, Frank Sinatra, Mozart, Bach, poi in breve tempo i vinili da 33 giri su piatto ed impianto stereo, e lì un’infinità di musica, Pink Floyd, Genesis, Doors, Rolling Stones, Led Zeppelin, Deep purple, Beatles, Bob Marley, Police, Bach, Beethoven, Mozart, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, e poi col tempo, Weather Report, Pat Metheny, Jan Garbarek, Bill Frisell. Insomma, tantissima musica e di vario tipo. Poi, ho iniziato a vedere concerti dal vivo, oltre ai tanti visti in TV, e questo mi ha portato ad avere sempre di più un approccio filosofico musicale, ma non cosciente del tutto. Avrei voluto suonare il pianoforte ma, in casa i problemi di sopravvivenza per una famiglia composta da 8 persone non erano semplici, quindi niente pianoforte. Le pentole erano la mia prima batteria ma non per cucinare. La simulazione di una batteria suonata con le cucchiarelle, mia Madre Valeria lo ricorda ancora.
Grazie ai miei amici d’adolescenza, che si riunivano in casa o in soffitta a suonare, approcciai, o meglio strimpellai la batteria….woooowww!…fu amore a prima vista, ma ero imbarazzato ad esternarlo e cominciai in intimità a pensare di comprarne una, purtroppo a quei tempi non esistevano batterie economiche come oggi. Cominciai a lavorare al Luneur, cercando di racimolare soldi per comprare ogni tanto un tamburo usato fino ad assemblare una batteria, ma la paga era bassissima, e vedevo la batteria molto lontana. Non importava, intanto simulavo la batteria con cuscini e i piedi battevano il pavimento simulando i pedali della cassa e del charleston, questa simulazione mi portò comunque a suonare nelle sale prova. Dopo due anni di esercizi sui cuscini, una mattina mio fratello Roberto, anche lui artista pittore della vecchia scuola dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, mi vide e mi disse: “Ok!..basta, i cuscini servono per appoggiarci la testa..non per suonare, andiamo a comprare una batteria”. Lo guardavo incredulo. “Tu meriti di suonare veramente non di simularla la musica”, comprò a rate la prima batteria della mia vita, una bellissima Tama Swing Star color platino con piatti Paiste. Ringrazio di cuore mio fratello, che oggi non è più tra noi, il suo gesto meraviglioso ha dato a me la possibilità di percorrere una vita bellissima piena di soddisfazioni e mi ha liberato dall’apatia di quei tempi, quando non c’erano tante cose da fare, soprattutto nei quartieri periferici di Roma, e questo portava molti giovani in brutti percorsi di vita. La Musica mi ha tolto da percorsi negativi che, per molti cari amici è stato fatale…grazie ancora Roberto, grazie Musica!”

(Foto dell’Ospite)

Inizia quindi il suo percorso professionale. 
“Diciamo che inizia un percorso più strutturato. Per due anni suonai ad orecchio poi iniziai  a studiare batteria con il Maestro Mario Paliano della famosa Scuola di Musica Popolare di Testaccio. Purtroppo, non potevo frequentare sempre perché le lezioni costavano, ed io non avevo la possibilità. Nel tempo, mentre suonavo con vari gruppi, andai a lezione dai Maestri Beppe Giampiero e Alberto D’Anna, presso il Centro di percussioni Timba a Roma. Il tempo per andarci e per studiare non era molto, per pagarmi le lezioni lavoravo con mio zio svegliandomi alle 2:30 del mattino per essere pronto ad andare in giro per il centro di Roma a consegnare gelati nei bar. Alcune volte finivo di lavorare nel tardo pomeriggio ed attraversavo Roma da un capo all’altro con i mezzi pubblici per andare a lezione, alcune volte ero così stanco da non capirci assolutamente nulla. Ma anche quello è servito, uscivo dalle lezioni con un punto interrogativo in testa mentre mi appassionavo sempre di più”.

E poi arriva l’incontro con un grande maestro. 
“Con gli anni, la vita mi ha voluto premiare con un grande Maestro, Horacio El Negro Hernadez. Con lui ho compreso molti insegnamenti dei precedenti insegnanti o musicisti. Io cercavo di seguire i dischi di Afrocubana, dove la batteria non esisteva ma, soltanto con le percussioni e con i miei quattro arti, potevo ricreare in poliritmia i movimenti ritmici dei percussionisti, e come dal cielo ecco arrivare El Negro, che suonava al cubo in modo eccezionale quello che tentavo di fare io. Il direttore del Timba, mi disse, “credo sia arrivato il maestro che fa per te”, nell’aula guardavo fulminato e potevo vedere chi come me aveva un altro approccio sulla batteria, ed in che modo meraviglioso!
Prima di lui, avevo seguito alcune lezioni con il maestro Gianni Di Renzo, maestro di grande umanità, purtroppo ho avuto poco tempo con lui per capirlo e fare un percorso più accademico, ma dopo tanti anni, l’ho incontrato di nuovo tra i docenti di batteria al Saint Louis di Roma. Il resto del mio percorso didattico l’ho proseguito da autodidatta, molte cose le ho dovute imparare da solo, soprattutto nel linguaggio musicale, ma anche in quello tecnico corporale”. 

(Foto dell’Ospite)

Batterista, percussionista, maestro di batteria e percussioni, endorser, compositore, musicista, ideatore dei cajondrums SFINGE, collaboratore e ideatore di progetti musicali di ricerca tra cui Alma Nua e Tupa Ruja. Cosa rimane fermo ed immutabile di lei ogni qualvolta cambia veste, ruolo e personaggio? 
“Nasco principalmente come batterista, facendo un percorso esclusivo da batterista, poi ho cominciato ad assemblare un set con più strumenti a percussione. Al Centro di Percussioni Timba, seguivo  laboratori di percussioni, afrocubane, africane e brasiliane, questi laboratori mi hanno fatto conoscere le percussioni, e non ho fatto altro che creare un set compreso di conga, Djembe, Darbuka, e vari aggeggi, oltre alla batteria, comunque acustici. Il mio mondo sonoro comincia ad avere uno sviluppo e approccio batteristico diverso, sia sonoro che tecnico perché suonare più strumenti diversi richiedeva un tecnicismo maggiore sotto vari aspetti, nella velocità e nelle dinamiche. Endorser dei prestigiosi piatti toscani UFIP di Pistoia, grazie all’azienda pistoiese ho potuto sperimentare molti suoni diversi con più set di piatti e strumenti come gong e aggeggi. Endorser per 5 anni con le batterie Mapex, ho potuto sperimentare due set diversi facendomi costruire il primo set più adatto alle mie esigenze. Endorser, attualmente, della prestigiosa casa di batterie Ludwig, anche qui ho 3 set diversi, di cui uno specifico per le mie esigenze attuali, costruito con misure e legno che ricordasse il suono vintage. Endorser per alcuni anni della Roland, con cui ho collaudato vari strumenti come batterie e percussioni elettroniche. La collaborazione con l’azienda giapponese nasce perché la mia ricerca sonora comprendeva anche quella elettronica, tanto da interagire con sequencer, ma soprattutto era incentrato sulla ricerca delle sonorità synth. Grazie alla mia conoscenza sulla strumentazione Roland, entro come docente di batteria elettronica al Saint Louis di Roma, in seguito anche come docente di batteria classica multistilistica. Grazie al mio corso di V-Drums Roland, ad Utrecht in Olanda, viene portato a conoscenza il mio corso V-Drums svolto al Saint Louis, così da avviare il corso V-Drums School nel mondo. Endorser delle batterie elettroniche 2Box (svedesi) nonché collaudatore. Endorser delle bacchette Vic Firth per molti anni. Endorser, attualmente, delle bacchette Roll Em ottenendo delle bacchette signatur Alex Barberis da me ideate. Endorser Korg con i Wavedrum, una multi percussione elettronica dai suoni estremamente realistici. Endorser dei microfoni per batteria e percussioni Carol, Endorser Remo per le pelli per batteria e percussioni. Per esigenze personali, con l’artigiano Piero Traditi ho ideato il Cajondrums Sfinge, un cajon con seduta e tapa obliqua per avere la comodità di suonare il cajon con un set di batteria, riconosciuto come il proseguimento moderno dei cajon tradizionali alla manifestazione multietnica svolta al museo della civiltà Pigorini di Roma. Endorser Latum di Alessandro Armillotta, costruttore artigiano dei tamburi armonici Latum, con l’ideazione dei tamburi armonici mono nota per batteria e percussioni.
Collaboro da anni in progetti di ricerca musicale, come il genere World Music, il Nu jazz, o tutto ciò che ha influenze musicali di vario tipo, diciamo una fusione di suoni, di musica etnica, jazz, meditativa e moderna. Con gli attuali progetti con cui collaboro, gli Alma Nua, progetto del chitarrista compositore romano Andrea Esposito insieme al bassista Fabio Penna, il concetto musicale di base è l’estemporaneità della musica, in pratica, suoniamo la vera improvvisazione basandoci su dei canovacci, ossia, riconoscimenti armonici, melodici e ritmici, dove possiamo improvvisare e quindi far uscire il proprio estro artistico. Il disco Alma Nua, per ora soltanto in formato liquido, ossia, in formato file mp3 o wave, viene distribuito dagli stessi Alma Nua. L’altro progetto, appena iniziato, è quello world music dei Tupa Ruja, progetto della coppia, sia musicalmente ma, anche nella vita, di Martina Lupi cantante e multi strumentista, e Fabio Gagliardi voce, Didjeridoo e percussioni. Nel nuovo progetto Tupa Ruja, oltre a me alla batteria e percussioni acustiche ed elettroniche, c’è il grande chitarrista Nicola Cantatore, con la sua ricerca sonora meticolosa, e grande arrangiatore che, con i Tupa Ruja svolge in modo impeccabile. Insomma, un quartetto che, oggi, ha raggiunto una sinergia tale da far fare un balzo musicale sonoro e ritmico di notevole spicco.
In tutti i progetti, ovviamente rimango fermo sul mio modo di interpretare la musica, ma ovviamente, mi immergo nella sinergia piena con il resto dei musicisti, nulla deve sfuggirmi, o creare un personaggio in modalità, non è per me un lavoro, è principalmente passione”

Quali sono i suoi riferimenti musicali ed in quale genere crede di riuscire meglio ad esprimere la sua forma artistica in modo più profondo ed incisivo affinchè lo spettatore si senta “a casa sua”?
“I miei riferimenti sono molteplici, ma non ridondanti, mi riferisco a tutta quella musica che lascia lo spazio interpretativo ed improvvisativo. La musica composta da eseguire soltanto con gli occhi e poco con le orecchie, non mi è mai piaciuta, è statica, noiosa e meccanica. Credo fortemente, per mia esperienza diretta, che il pubblico si senta a casa sua se il, o i musicisti, creino credibilità suonando, avendo ognuno un proprio carattere per interagire con gli altri componenti del gruppo e con il pubblico.
Riguardo il genere musicale, quello che più rende vario il genere, che fonda varie conoscenze musicali, e che non sia ridondante. Per esempio, Pat Metheny Group, Bill Frisell, Jan Garbarek, Hadouk Trio, Trilok Gurtu, Oregon, Joe Zawinul, Steve Coleman, Mynta, Jon Scofield, Glen Velez, Lyle Mays e tanti altri, non proseguo perché la lista sarebbe lunghissima”.

(Foto dell’Ospite)

Ci parli del metodo drum time
“Più che metodo, è un percorso, dato che un mio metodo scritto non l’ho ancora realizzato.
Inizialmente è un percorso didattico come tanti altri, ma il mio intento è quello di tirare fuori il più possibile l’estro artistico dell’allievo, cercando di tralasciare inizialmente il percorso accademico, diciamo che la disciplina non deve mancare, d’altronde per ottenere dei risultati non se ne può fare a meno, ma l’approccio non è con la disciplina. Che siano piccoli o grandi, l’inizio è il gioco. Non ho mai dimenticato il mio approccio con lo studio della batteria, tutto troppo serio e noioso. Molti di noi sono nati con una vocazione artistica che deve essere indirizzata con il tempo, la difficoltà è notevole e molte volte può scoraggiare se non si riesce a miscelare bene lo studio con il divertimento. A volte si può avvertire la sensazione del fallimento, sia come allievi che come insegnanti. Per giustificare spesso un cattivo metodo di insegnamento si pone l’accento sulla selezione naturale, ma non è così. Credo che l’approccio di un bravo insegnante sia quello di comprendere la mente dell’allievo oltre alla sua vocazione o bravura, bisogna conoscere il vissuto dei ragazzi e poi trovare il giusto percorso per ognuno di loro. Molti si perdono non perché non bravi, ma perché non hanno incontrato l’insegnante giusto, con quella buona dose di sensibilità e di empatia”

Lei utilizza un suo percorso didattico musicale con la dispensa “6 x 10” da lei creata per tutti coloro che non hanno molto tempo a disposizione per studiare. Come si può con soli 10 minuti al giorno imparare a suonare la batteria? Ci spieghi il suo miracolo.
“Miracolo? Ma no. Io stesso, anni fa, avevo poco tempo a disposizione perché lavorando potevo dedicare poco tempo allo studio, ma ero costante e questo mi consentiva di fare grandi progressi.
Mi resi conto che la costanza, l’essere metodico e puntuale, la perseveranza, la determinazione potevano sopperire alle poche ore di studio. Iniziai ad applicarmi agli esercizi più importanti ogni giorno, ma ugualmente mi accorgevo che il tempo da dedicare alla batteria era troppo poco. Sperimentai che potevo rimediare a questo mio limite con meno esercizi ma ripetitivi. Costantemente gli stessi esercizi per la stessa durata.
Il metodo funzionò più di ogni altra cosa, tanto da applicarlo ai miei allievi, vedendo i giusti risultati. Sei Metodi, o meglio, alcuni esercizi fondamentali ripetuti in sei metodi diversi. L’allievo può dedicarsi iniziando con dieci minuti al giorno iniziando lentamente poi velocizzando sempre di più, sempre per la stessa durata, dieci minuti. Lo stesso esercizio, ad esempio della durata di pochi secondi, ripetuto per dieci minuti con pulizia sonora e di movimento senza mai fermarsi”.

Cos’è un batterista organico?
“Per organico si intende musicale, melodico, attento a suonare insieme alla ritmica sempre in movimento diverso degli altri strumenti, che non sia soltanto di accompagnamento ritmico, ma espressivo ed estemporaneo musicalmente, quello che, appunto,  solitamente fanno tutti gli altri strumenti.
Il batterista e percussionista americano Bob Moses, ne fece una vera e propria filosofia batteristica, tanto da influenzare molti batteristi nel mondo”. 

L’insegnamento per lei è una vera e propria vocazione oppure ha deciso nel corso del tempo di approcciarsi a tale mestiere? Cosa c’era nei suoi sogni di bambino? Essere un musicista puro l’ha mai contemplato?
“Iniziai ad insegnare trentuno anni fa, per caso. Un amico mi chiese di insegnargli a suonare la batteria. Non era nelle mie vedute, ma mi piacque molto, era molto soddisfacente..e mi consentiva di guadagnare in parallelo con il lavoro di musicista. Si unirono poi altri allievi, la sala era in un contesto piacevole, vicino la vecchia torre di avvistamento romana Tor di Valle, un edificio storico. In seguito mi sono perfezionato nell’insegnamento riprendendo e continuando a studiare, questa è stata una crescita per me, per migliorarmi e per aggiornarmi. La passione per l’insegnamento con il tempo è aumentata ed è poi diventata una vera e propria professione che amo molto.
Da bambino avevo tanti sogni, non solo la musica, ma ero un ribelle e le istituzioni mi fecero disamorare e distogliere da tanti altri obiettivi. Musicalmente sognavo ad occhi aperti la felicità di suonare per un grande pubblico felice di ascoltarmi. Mi emoziono ancora oggi nel ricordarlo e nell’immaginarlo anche adesso. I sogni di bambino non passano mai, non finiscono anche se non li realizzi completamente, sono belli proprio per questo motivo. Sono diversi dai sogni degli adulti.
Sono un musicista puro, faccio quello che più mi piace e mi va. I compromessi si fanno sempre, li fa chiuque. Anche se non sembra, li fai tutti i giorni e la vita non gira soltanto intorno a noi”

Se avesse potuto scegliere in quale band del passato avrebbe voluto suonare? Qual è stato il suo sogno gigante? Avrebbe voluto girare il mondo con Bruce Springsteen (mi perdoni la citazione, è il mio più grande innamoramento)?
“Doors quando ero molto giovane, Pat Metheny Group, Peter Gabriel, Jan Garbarek, Bill Frisell, ma questi sono sogni ancora vivi. Mi spiace deluderti ma non seguo Springsteen, un grande, ma non mi sarebbe piaciuto, non amo la staticità batteristica da sempre”

Nella sua intervista a Radio Città Aperta parla del grande progetto musicale “Alma Nua” del trio Esposito/Penna/Barberis. Le sue parole raccontano in libertà la sua vita da batterista senza compromessi. Quanto le è costato in termini professionali, morali, sociali, umani ed economici non scendere a compromessi?
“Il progetto Alma Nua è un progetto che amo molto perché mi consente di esprimermi liberamente e completamente a modo mio. Un progetto ancora vivo, nonostante il difficilissimo periodo, che condivido con i miei amici Andrea e Fabio.
La difficoltà di portare avanti un percorso sincero e serio professionalmente e artisticamente è sempre tanta, ma poi te ne fai una ragione, e non vedi il mondo come cattivo e menefreghista ma pieno di tante cose. Siamo in tanti, ognuno vive la sua scelta personale senza far del male agli altri. Io mi vivo la bellezza di quello che con le mie capacità artistiche ed imprenditoriali riesco a costruirmi, senza colpevolizzarmi o trovare alibi per quello che non ho potuto o voluto fare.
Comunque è una strada che mi ha portato a non avere il giusto economicamente, ma le dinamiche sono state tante e sono giunto a cinquantacinque anni con molte separazioni sia nel lavoro che sentimentalmente, ma questa è una lunga storia magari la raccontiamo un’altra volta”

Domanda banale ma di rito, per la curiosità dei lettori, se non avesse fatto il musicista cosa avrebbe voluto fare nella vita?
“In poche parole? L’archeologo”.

John Bonham, Neil Peart, Joey Jordison, Mike Portnoy e Buddy Rich vengono definiti i primi cinque batteristi più grandi al mondo. Cosa ne pensa e qual è la sua classifica?
“Tutti grandi batteristi, non è un caso che hanno e fanno la storia del batterismo, ma non li seguo, non sono per me l’ideale del batterista organico. Li ho seguiti perché è giusto che un musicista conosca i grandi. Tra tutti chi mi ha colpito molto è John Bonam, lui è stato veramente un batterista organico con i Led Zeppelin”. 

Ci parli del progetto Ti-Amat
“Ti-Amat era un progetto in movimento, dico era perché è fermo da un po’, ma comunque esistente. Perché in movimento? Perché vedevo come organico un duo che poteva essere affiancato da più musicisti in base alle possibilità, cioè riuscire a non far fermare mai il progetto anche se mancava un elemento del duo. Con basi apposite pilotate da computer, il progetto poteva vivere sempre, ma la pandemia ha dato un fermo, purtroppo, a molti progetti”. 

Un altro progetto molto interessante è Simul (dal latino, insieme), la sua collaborazione con la danzatrice Silvia Layla, i mantradrums. La danza ed il ritmo, due forme d’arte che viaggiano insieme e che mai si separano. Un’altra forma di ricerca e sperimentazione?
“Simula nasce dall’incontro con Silvia Layla, bravissima danzatrice di vari stili di danza, tra cui anche classica. Il progetto si basava sul suonare con le mie basi e le mie percussioni, un set percussivo non batteristico, e Silvia all’epicentro del progetto ovviamente. Anche questo progetto ha avuto un necessario periodo di pausa, sono stati anni veramente complicati artisticamente parlando, umanamente poi ancora più gravi. Siamo cambiati un po’ tutti e non sempre in meglio, un’artista fermo non per scelta ma per necessità imposte, è come un leone in gabbia, ma poi chissà magari una volta liberato riesce a lanciare un urlo così forte da far tremare la terra. Dentro di noi ognuno ha costruito qualcosa di forte, ora ripartendo dobbiamo trovare il modo per rappresentarlo, riprodurlo, interpretarlo”. 

Arte, yoga e danza coinvolgono Argilla in movimento. Relax, camminate, musica, danza, mani nell’argilla, ascolto, una bella occasione per nutrire corpo e anima. Lasciar andare, rallentare, trasformare, fermentare, arare. Nel 2020 celebravate così l’equinozio d’autunno. Un atto creativo a tutto campo. Sembra non esserci ambito in cui la sua musica non sia presente e coinvolta.
“Questo progetto, anche esso fermo per la pandemia, aveva sempre di base il duo, un po’ come Simul ma, su una idea e progetto della Maestra Rita Malizia. Ho cercato sempre di avere persone interessanti intorno a me con cui condividere la musica, ogni altra forma artistica poteva rappresentare uno spunto, un inizio, un punto di partenza. La meraviglia di questo lavoro è fatta anche di incontri e di contaminazioni, dobbiamo imparare a fidarci ed affidarci agli altri se vogliamo realizzare progetti audaci e coraggiosi”

Diversificare per ampliare, mettersi all’ascolto, suscitare reazioni ed azioni. A tratti appare come un esploratore della vita e dell’essere umano, non solo della musica. Credo si tratti a volte di una sfida con se stesso o di una ricerca di se stesso?
“Semplicemente vivo la musica per come io la concepisco. Negli anni ho cambiato generi musicali, lavorato su vari generi musicali, ma quello che mi faceva vivere il piacere di farlo era la ricerca musicale, l’esplorazione di ritmi, suoni, facendomi avvicinare a musicisti con le stesse mie vedute., non è una ricerca introspettiva, ma soltanto vivere il piacere musicale”. 

Cosa hanno rappresentato questi ultimi due anni di fermo nel mondo per lei e per la sua attività?
“Non in termini religiosi, ma per certi versi veramente una benedizione. Mi ha fatto capire veramente che la mia strada non doveva essere deviata da ciò che mi appariva davanti ma doveva essere influenzata da ciò che mi andavo a cercare. Nel periodo del lock down ho realizzato il mio primo disco di sole percussioni, realizzato in casa con il musicista compositore Matteo Colasanti, un disco ed un progetto “Olocene”, musica meditativa e di ricerca. Quindi, un fermarsi sì ma, anche ripulirsi da scorie varie, creando di nuovo e vivendo la musica felicemente in un momento difficile”. 

Il potere della musica anche contro le guerre? Cosa ne pensa?
“La Musica è un linguaggio universale, una volta, storicamente, si parlava un’unica lingua, oggi la Musica è l’unico linguaggio per unire il mondo intero!”

Progetti per il futuro?
“Con i Tupa Ruja saremo a Roma il 28 aprile all’auditorium ed il 18 maggio all’Alexanderplatz. Poi dal 1 al 4 luglio in Friuli in quattro diverse località.  Con gli Alma Nua saremo a maggio ancora a Roma al Riverside. Si riparte, speriamo, senza ulteriori interruzioni e con l’augurio che tutto vada veramente per il meglio”.

In anteprima per Condivisione Democratica il poeta Maurizio Gregorini presenta la sua ultima opera “Ki. Segni dello spirito”, nata dal profondo legame spirituale con l’amico Angelo Cordelli. Una preziosa esclusiva per i nostri lettori, testimonianza non solo della loro incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi della vita ed oltre.

L’intimità più sacra di un poeta che dialoga con il suo “altro allo specchio” per coglierne la sua eredità e trasformarla in un unico ed eterno canto d’amore.  

(Immagine dall’Ospite)

Esce la nuova edizione di “Ki. Segni dallo spirito” del poeta romano Maurizio Gregorini. La prima (anch’essa privata e di sole cento copie, novembre 2020), fu mandata in stampa affinché Monsignor Angelo Cordelli, a cui il libro è dedicato, potesse vederlo e goderne. A quella edizione era inclusa una lettera che nella nuova versione non trova spazio (la riportiamo qui per la singolare significatività: “Angelo, caro unico amico, sai bene come non sia solito mostrare la mia intimità. L’educazione che ho ricevuto da Letizia ha dato frutti delicati, in mezzo alla volgarità che ci circonda; riesco solo a legare a me con la poesia gli affetti più cari e, anche se per motivi dissimili, come è avvenuto tempo fa per Raffella Belli con ‘Scaglie di passione’, ora accade con te. Non conosco atto d’amore più appassionato, più forte e tenace. Do alle stampe ‘KI. Segni dallo spirito’ perché te lo devo: ore e giornate e anni trascorsi insieme in un dialogo solo apparentemente asimmetrico, tu dalla parte della fede di Dio, io da quella della religiosità dello spirito. È testimonianza non solo della nostra incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi. Dinanzi allo strazio, all’angoscia di questo periodo, le parole si indeboliscono, non riescono a raccogliere il pensiero ed esprimerlo: ho il cuore lacerato, ogni suono che nella mente si compone in una frase mi appare un esile balbettio che non posso ridire sulle labbra. Può darsi che, barca e remi in mano, occorra avviarsi quietamente sulle acque dell’oceano del Nulla; quel ‘Nulla’ che – lo sai – è qui inteso nell’accezione turoldiana, come luce e pienezza, e non buio o vuoto. Inutile negarlo: innanzi alla morte che inizia a bussare assiduamente alla porta della vita, restiamo inermi.

(Immagine dall’Ospite)

Poco resta da fare, ma possiamo farlo nel modo migliore, con fede, senza indifferenza, per chi va e per chi, ancora per poco, resta. Sono versi che portano il mio nome, e anche se le parole sono quelle di chi le ha scritte, questo libro ha in ogni sillaba l’impronta della tua anima. Rileggendomi, ho capito che gli autori erano due. Ecco perché te lo dedico, per quale ragione appartiene a me ma anche a te. L’affetto, le cure che mi hai sempre donato, te li ricambio, restituendoti col mio canto il tuo canto. Turoldo diceva che ‘mai la stessa onda si riversa nel mare, e mai la stessa luce si alza sulla rosa: né giunge l’alba che tu non sia già altro’. È vero, ogni giorno siamo sempre altro, ma con una fiamma inestinguibile nel cuore. Mi conosci nel profondo, non amo gli addii, preferisco gli arrivederci; e questo è un arrivederci. Ti lascio dunque alla lettura di queste pagine con una carezza leggera, quella delle parole dell’adorato Abbé Pierre: ‘Io sopporto di vivere così a lungo soltanto perché ho in me questa certezza: morire, lo si creda o no, è incontro’. Indubitabile. Sicuro che anche per te sia così. Ti abbraccio fraternamente”): al suo posto, in seconda e quarta di copertina, ci sono cinque commenti (compreso quello della sottoscritta) che chiariscono al lettore un libro di poesia di certo non di uso comune.

(Immagine dall’Ospite)

Sandro De Fazi parla di un “Libro ispirato, sapienziale e intensissimo, a partire dal ‘KI’ dell’antica filosofia cinese, che costituisce il dialogo direi ‘realistico’ tra il poeta e il suo amico sacerdote, dove la ‘realtà’ primaria delle energie vitali e spirituali è resa tangibile attraverso il linguaggio della poesia. Sono versi dal ritmo solenne e insieme discorsivo che contraddicono l’‘irrealtà’ che mai come in questo momento storico, appare in termini perentori ed esclusivi, laddove Gregorini ci fa ricordare e ci mostra un ben altro modo d’essere e di intendere il reale”; Duccio Benocci annota come “Questo di Gregorini, uomo garbato di altri tempi, è un vero atto d’amore nei confronti di Angelo Cordelli, nonostante le loro evidenti ‘diversità’: da una parte un ministro di Dio in terra, dall’altra un pensatore contemporaneo, valente scrittore e poeta di rara sensibilità, esperto tra l’altro di spiritualità e filosofie orientali. Non capita a tutti di aver un poeta per amico. Non capita a tutti di aver dedicata una intera raccolta di versi. Don Angelo l’ha avuta, seppur nel momento del distacco da questa terra”; Elena Antonini avvisa come questo libro di poesia sia “Un libro che perlustra le inquietudini genuine del poeta; la sua sensibilità contro l’inganno umano apre la porta oltre ciò che non è tangibile alla visione terrena. Versi con Angelo e per Angelo è la mia analisi di quest’opera: viaggio che entrambi percorrono verso l’accettazione di un discernimento celeste. Quella di Gregorini è una voce che dà respiro al dolore di due anime che aspirano alla consapevolezza, spasimo che si manifesta nel cerchio interrotto della vita. Cosicché ogni parola di questo ‘Ki’ si mostra come pugnalata intrinseca, una estasi reale di visioni e suoni su cui il lettore può solo lasciarsi trasportare”; e infine (e qui è anche la centralità del nostro nuovo numero), Sonia Corsi tratta il tema dell’eredità, non solo culturale, ma soprattutto umana: “Lettura importante quella dell’ultimo libro -purtroppo privato- del poeta Gregorini. Grazie alla potenza della poesia, l’amicizia e l’esperienza -anche nel dolore e nella conseguente morte- si trasformano in un dono che stravolge il senso della parola ‘eredità’. Un’opera poetica complessa e profondissima. Epifanica. Bellezza allo stato puro”. Chiude questa nuova versione di “Ki. Segni dallo spirito”, un originale e profondo -nonché toccante- intervento della poetessa Vincenza Fava. Maurizio Gregorini (Roma, 1962), giornalista e scrittore, presente in varie antologie, è autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. Per la poesia, nel 2002, presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio, gli è stato consegnato il ‘Premio Personalità Europea’. Tra i suoi libri ricordiamo il saggio biografico “Il male di Dario Bellezza” (tre edizioni, 1996, 2006 e l’ultima aggiornata del 2016), con cui si è aggiudicato il ‘Premio Mangialibri’ nella categoria “Miglior rapporto qualita/prezzo del 2006”; il romanzo “Neve e sangue”. Nel 2017 Castelvecchi manda in libreria “Sigillo di spine”, opera omnia poetica che ha ottenuto il Premio speciale della giuria della terza edizione del Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos”.

(Immagine dall’Ospite)

Ci ha concesso un’intervista in anteprima ed in esclusiva e noi gli siamo molto riconoscenti per l’apprezzamento e la stima che ancora una volta riserva alla nostra testata. 

Caro Gregorini, eccoci ancora una volta a conversare su una sua opera, tra l’altro molto complessa. Non le nascondo un certo imbarazzo e coinvolgimento dato che anche io ho avuto l’opportunità, tramite lei, di frequentare Angelo Cordelli, un uomo e un sacerdote anomalo, intelligente, colmo di fede e aperto ad ogni tipo di dubbio esistenziale, non solo di tematica religiosa. Innanzitutto, come sta?

“Come ogni persona che perde un affetto caro, un compagno di vita amato. Evitando equivoci, faccio subito chiarezza per ciò che esprimo coi termini ‘compagno’ e ‘amato’: il più delle volte il prossimo fa fatica a concepire una diversa dimensione dell’affetto e dell’amore, pensa subito a qualcosa di fisico, corporeo, insomma, considera l’amicizia intima una relazione sessuale (purtroppo capitò anche colla mia esperienza vissuta con Dario Bellezza) poiché -credo- non abbia gli strumenti per arrivare a comprendere che oltre alla fisicità, al linguaggio dei corpi, c’è anche l’amore non solo platonico, ma soprattutto spirituale. Ecco, la chiave per annoverare questa poesia è nella incorporeità, dato che comunemente, oggi, si tratta parecchio il tema della spiritualità, ma non se apprende il senso profondo. Vuole sapere se ne avverto la mancanza? Si. Era una delle rare compagnie con cui potevo discutere su tutto, soprattutto in ambito religioso, filosofico e poetico. E, sotto questo aspetto, Angelo aveva molto da insegnare, come del resto -perché negarlo?- ha imparato da me il linguaggio dell’anima. Pensi che alla poetessa Raffaella Belli (ma pure a Maria Paola Fortuna, una sua cara amica) disse che tramite il nostro legame si scopriva ogni giorno migliorato, come uomo certo, ma primariamente come sacerdote. Non la trova una cognizione magnifica? Peccato che a me direttamente non lo abbia mai detto. Ma va bene così, anche perché, dentro di me, ero certo di simile trasformazione, l’avvertivo”.

Ha riportato in seconda di copertina anche un mio commento: “Non considero questo un libro, non lo considero un dono. Mi viene più da pensare ad un miracolo e come tale lo accolgo. Il ‘grande evento’ è giunto e ha dilaniato le catene: espressione straordinaria che fa sentire il suo rumore”. Cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto e preferire queste annotazioni che sono state licenziate sui social?

“Col cancro Angelo ha convissuto due anni, e in questo tempo parecchie sono state le riflessioni e la percezione, non solo di ciò che stava capitando, ma di come si potesse concludere in serenità la propria vita. Insomma, come prepararsi alla morte. In questo Angelo provava una sorta di gelosia per le mie certezze sul ‘dopo morte’. Ma la mia esperienza era (ed è) dovuta all’impegno più che trentennale sulle letture buddiste, esoteriche, su tutta una documentazione da me studiata con attenzione partecipativa delle ‘near death experience’: i libri di Brian Weiss, Raymond A. Moody jr., Eben Alexander, Sylvia Browne, Anita Moorjani, Doreen Virtue (tanto per citarne alcuni), o testi come “Il viaggio delle anime” di Michael Newton, “Le prove scientifiche della vita dopo la morte” di Grant e Jane Solomon o “I morti parlano” del teologo Padre Francois Brune continuano ad essere per me di estrema rilevanza. Angelo viveva la contraddizione (tipica degli uomini religiosi) di sapere dell’esistenza di una eternità (di qui la sua fede) ma di non credere che ci potesse essere un contatto con quelli che chiamiamo morti: è noto come la Chiesa nutra la più grande diffidenza su questo tema: si sa, insegna l’eternità, ma non ammette che si possa viverla o mettersi in comunicazione con essa (sono parole di Brune, non mie). Questo per dire come anche lui tentasse di assimilare in che modo questo passaggio -a cui tutti noi siamo costretti- lo liberasse dall’angoscia o dal dolore di morire a cinquantasette anni. Conservo parecchi dei messaggi inviatimi in quei giorni in cui esprimeva tutta la sua afflizione. Gliene riporto solo due: ‘L’amore che ho per te è al di là del pianto e del riso. Se non ci fossi stato tu, ora non sarei sicuramente qui. Fai parte di me e la tua assenza mi è inconcepibile’; ‘Il dolore più grande è di non poterti stare più accanto per condividere insieme questa vita; ma spero che dove andrò potrò custodirti”. Francamente non so perché la rendo partecipate di queste parole, forse perché lei, Giovanna, conoscendomi, sa come prendermi, anche perché lei sa bene della mia riservatezza: di Angelo, della nostra confidenza, non parlo affatto volentieri. Ad ogni modo, lei nelle sue parole ha parlato di un ‘ miracolo’, mentre Angelo, in uno dei suoi ultimi messaggi ha utilizzato il termine ‘custodirti’, cioè, sorvegliare qualcosa con attenzione e cura. Ecco, non è questo un prodigio? Chi mai si sarebbe servito di un siffatto termine per esprimere una estensione spirituale?”

(Immagine dall’Ospite)

Ma non ha risposto alla mia domanda: cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto? La trovo una scelta bizzarra.

“Non potendo proseguire insieme nella vecchiaia (ma non è detto che a me capiterà di vivere così a lungo) Angelo era terrorizzato dall’idea che lo dimenticassi; lo sa Giovanna, parlo poco e raramente esprimo i miei sentimenti, con chiunque; accadeva anche con lui. La lettera e la prima edizione di ‘KI’ sono state il mio intimo responso al suo panico di essere obliato. E sono felice di averlo fatto, poiché non so esprimere con termini adatti l’appagamento, la gioia e la serenità che le cento copie donategli gli avevano arrecato. Nelle ultime tre settimane ha potuto salutare i suoi amici, i suoi affetti, donando loro copie del libro, a testimonianza di un’amicizia su cui parecchia gente aveva favoleggiato. Insomma, una sorta di sua rivincita sul significato di un sentimento diversamente commentabile (e come la si può descrivere un’ amicizia che vive permeata di beatitudine? Con quali termini terreni?), ma soprattutto un epilogo del suo essere uomo di fede. Ecco la ragione che mi porta a considerare questo testo poetico nostro, ossia, concepito insieme. A causa della terminalità della sua malattia, non avevo molto tempo a disposizione. Per cui, me lo lasci dire, sono grato a Fabio Capocci, editore delle edizioni Ponte Sisto, e a Daniela Carretti (che si è occupata dell’impaginazione, anche per la nuova edizione) poiché in sole due settimane il libro è stato realizzato e stampato. “KI. Segni dallo spirito” è un testo poetico generato principalmente dai nostri colloqui e considerazioni avvenute nel corso del tempo; è composto da tre fasi distinte ma, data la complessità del testo e non volendo esagerare, con lui ancora vivo, ho preferito dare alle stampe solo il primo atto. Sì è poi deciso, di comune accordo con Angelo, di realizzare una versione in cui trovava spazio il secondo atto un anno dopo la sua morte, e il terzo anno di editare il volume completo non in forma privata, ma pubblica. Cosa che ho promesso e che, naturalmente, farò. La nuova edizione ha una veste grafica diversa: in copertina e all’interno ci sono opere a firma di Emanuele Pantanella, particolarmente quella della copertina è un disegno che Angelo ha sempre amato e che voleva gli regalassi, ma purtroppo è un’opera amata anche da me e non ho mai ceduto (per singolo egoismo?), e comunque ora è nel libro. Ho estratto il ritratto di noi due e la lettera scrittagli unicamente perché, adesso che il dialogo si avvia verso la condivisione col lettore, oltre che intimo, trovavo inutile riproporre; al loro posto ho scelto d’inserire alcuni dei commenti scritti sui social da coloro che, conoscendolo e avendone avuta copia, ne hanno apprezzato il contenuto, e lei è tra questi. Il perché di questa scelta? Per la ragione che essendo anche questa una edizione fruibile per poche persone e, ancora, un tributo al suo credo, volevo vi stagnasse un’atmosfera di cordialità familiare, da Angelo inseguita perpetuamente”.

Cos’è per lei questo libro?

“Le parrà strano, ma non so risponderle. Non le nascondo che per parecchio tempo non riuscivo ad assimilare che piega stesse prendendo, tant’è che Castelvecchi era intenzionato ad inserirlo come inedito in ‘Sigillo di spine’, ma ottenne un netto rifiuto. Mi capitava di parlarne con Raffaella Belli sporadicamente, ammettendole che si trattava di un testo arduo da classificare. Poi però, coll’avvento della malattia di Angelo ho iniziato a comprendere, anche perché il contenuto dell’opera aveva toni di chiaro presentimento su ciò che sarebbe accaduto di lì a breve. Una sorta di preveggenza? Possibile; i poeti sono spesso chiaroveggenti. Lo sono stati Whitman, Goll, Trakl, tanto per fare un esempio. Stenterà a crederci, ma considero ‘KI’ un libro elaborato sotto dettatura. Di chi? Angeli, esseri incorporei, anime disincarnate… le chiami come meglio predilige, ma il succo non cambia: resto certo che si è trattato di un processo di scrittura automatica, una congiunzione spirituale a cui mi sono abbandonato e da cui mi sono lasciato trasportare. Non a caso più lo leggo, più mi sorprendono certi passaggi o certe associazioni di idee completamente estranee al mio stile, anche se di poesia con questa tematica iniziai a trattare quando nel 1987 preparavo il libro sul Cristo (“L’odore del nulla o l’eresia del Cristo scomposto”, Edizioni del Cardo, n.d.i.). Questo per ribadire che è un libro che sto tuttora scoprendo; però posso dirle cosa determina: il mio rifiuto di continuare a pubblicare con gli editori che di norma non pagano le royalties, o la rinuncia di divulgare un testo con editori non adatti (per la poesia, licenziare un testo con un piccolo o un grande editore cambia poco: gli editori lo editano ma non se ne occupano, non lo seguono affatto né lo promuovono. E’ la realtà): qualcuno di questi aveva chiesto di volerlo stampare, solo che, come al solito, essendo io un amabile seccatore, ho iniziato a discutere sulla scelta della collana, sulla preferenza della copertina, sul rifiuto di essere seguito da un editor (cosa mai gradita per i miei libri; per caso Penna, Virginia Woolf, Sereni, Vita Sackville-West, Ferlinghetti hanno avuto degli editor? Un ruolo imposto dalle grandi case editrici per chi ha intenzione di realizzare scrittura creativa, fatto che mi fa orrore), insomma, su come realizzare una edizione raffinata. E allora, come sovente accade, ho mandato a quel paese gli interessati e, dato che la prima stampa l’ho realizzata a mie spese quale dono per Angelo, ho preferito comportarmi di conseguenza anche per l’attuale, senza stare a discutere invano. Lei lo sa bene e lo ripeto: avere a che fare con gli editori è di una noia indicibile, a loro interessa solo vendere e guadagnare; si figuri un po’ se un libro simile sia facilmente commerciabile. Del resto alla mia età e con la mia esperienza -visto le innumerevoli pubblicazioni in trentacinque anni di attività poetica- posso anche permettermelo; inoltre, data l’intenzione a breve di avviare una mia piccola casa editrice, è anche un lavoro di prova su come intendo licenziare, in un prossimo futuro, libri di poesia”.

Scrittura automatica, congiunzione spirituale… sia più chiaro; davvero, non è accettabile che lei non sappia interpretarlo…

“Cosa vuole che le dica? Lo ha letto, e lei stessa ha commentato come si tratti di un grappolo di versi che ti lacera il cuore, di un incanto che scuote, lasciandoti svuotato da ogni senso possibile. E’ questo che lei pubblicò sulla sua pagina social, no? Vale anche per me: replico, è un libro che sto scoprendo e su cui sto lavorando ancora adesso”.

Bene, proferiamo del secondo atto, “Modifica sempiterna”. Ha appena detto che il libro si compone di tre sezioni e che in accordo con Cordelli le due restanti sarebbero state stampate in un arco di tempo da voi circoscritto. Però in questa sezione scrive: “…io scruto l’urna da mattina a sera/ pedinando d’avvertire l’incomprensibile/ incarnando mantra degli assennati d’Oriente/ intorno agitando campanelle/ e colpi nelle ciotole di metallo/ e bianco latte di mucca versato/ com’è d’uso nei riti funerari tibetani/ sempre indugiando segnali percezioni dispacci/ dall’invisibile e dall’universo/ perché spetta a me ora dare voce/ e novella lingua al tuo cuore bruciato/ in manifesto silenzio”; e ancora: “Fruscii, rumori, voci ovattate,/ presenze e impronte sul letto/ di notte mi destano d’improvviso,/ -sei tu? M’alzo, perlustro stanze/ della casa, anche i gatti sono fuggiti/ pei loro giri serali, appaiamo solo io e te;/ ma resti sigillato per bene nel tuo scrigno/ e di certo ardua t’è l’impellenza di venirne fuori”. Scusi, ma a me sembra che questi versi siano stati scritti dopo la sua morte.

“Diamine che attenzione!, non le sfugge nulla. Dovrei qui soffermarmi sul processo creativo, mutato notevolmente in questi ultimi anni. Sa bene come la musa non si presenti ogni mattina per consumare una colazione insieme, tutt’altro. Se da ragazzo ero solito scrivere versi terminandoli nell’arco di qualche minuto senza mai tornarci sopra, adesso annoto idee, sensazioni, percezioni per poi combinarle nell’attimo in cui l’ispirazione è chiara, diretta. Così, mentre per il primo atto tutto era già ultimato, per il secondo e il terzo mi sono lasciato coinvolgere dall’esperienza di questa morte; di conseguenza mi è capitato di inserire nel testo già elaborato influenze e fervori presentatisi dopo. Quindi perché non intercalarle? Il libro per e su Angelo è questo, non è mia intenzione scriverne un altro, accadimento tra l’altro capitato anche col saggio biografico su Dario Bellezza. Inoltre non necessito di licenziare un libro ogni due o tre anni, anche perché il ‘controllo’ da me operato sui versi è ora più pregnante, cioè, è mia intenzione essere certo di quel che vado, non scrivendo, ma licenziando. E’ possibile che quando queste poesie saranno editate per un pubblico vasto vi siano variazioni e modifiche significanti. Intendo dire che, se mi sarà possibile, vorrei eliminare nel testo tutta l’emotività soggettiva dell’esperienza, che deve restare intima e non fruibile a chiunque. Per ciò che concerne la scrittura diretta o la congiunzione delle anime il dialogo sarebbe troppo lungo e trattarlo qui risulterebbe poco esaustivo. Ad ogni modo, si tratta di certezze. Ora, sappiamo bene come ognuno di noi si ponga il quesito di quel che potrà accadere dopo la morte. Alcuni, scettici, non sono intenzionati a indagare sulla questione ed è un peccato poiché penso che arriveranno al capolinea completamente impreparati (del resto non è questo che insegna il buddismo tibetano o la filosofia zen? Mishima era solito dire che, al pari dei samurai, ognuno di noi dovrebbe alzarsi al mattino intuendo che quello potrebbe essere l’ultimo giorno sulla terra e dunque consigliava di essere accorti e preordinati ad un evento possibile in ogni momento). E come ci si preordina? Ascoltando il proprio cuore, la propria anima, la coscienza: la chiami come vuole. Io sono interessato a questa tematica da quando ero piccolo, sia per eventi medianici capitatimi, sia per predisposizione psicologica (la mia poesia ne è deposizione). Come dettole prima, oggi l’argomento è vasto e vi sono pubblicazioni esaurienti; basta andarsele a cercare. Poi ognuno se ne farà una propria idea, inutile discuterne, sono predisposizioni del cuore che debbono essere sostenute, almeno per ciò che mi riguarda e trattiene ancora in questo mondo. Il discorso non muta nemmeno sulla congiunzione delle anime: non siamo mai nati, non siamo mai morti (decantato da Battiato, che si è servito di parecchi trattati buddisti e spirituali per analizzare nei suoi testi simile tematica) è una realtà: essendo anime eterne, noi decidiamo di entrare nel tempo per conseguire esperienze scelte prima di cadere sulla terra. E prima di cadere sulla terra viviamo l’eternità nei vari mondi dell’universo, talvolta anche in gruppi predefiniti (di qui il grado di evoluzione spirituale della propria coscienza), ed è con le anime del nostro insieme di appartenenza astrale che azzardiamo di compiere questo nostro viaggio terrestre. Non esiste il caso, non esistono le coincidenze, non sussistono le anime gemelle: tutto è già sottoscritto prima della partenza dai mondi invisibili, incorporei. Lo so, posso essere preso per pazzo, e dunque? Come ogni argomento di fede tutto questo né si può provare scientificamente (ma anche qui sono state fatte scoperte interessanti), né si può condividere: è qualcosa che vive e alberga nel cuore. Ritengo siano fortunate le persone che l’intuiscono. Ed ora la poesia: la consapevolezza di essere un poeta e un poeta dello spirito s’è marcata nel corso del tempo, e per concretizzarla mi vengono in aiuto gli incorporei (e per tornare all’esperienza di Battiato, questa era una faccenda che egli stesso spiegava benissimo): visioni, indicazioni, pressioni, congetture: tutto viene imboccato alla mente tramite una sorta di trance; del resto, sarebbe possibile scrivere versi simili restando lucidi? Non penso, o perlomeno questa è la mia intuizione, e va bene così. Gli altri commentino come credano, io ho un sogno -poetico, ovvio- e di questo sogno ne faccio bandiera, cosciente che nella mia scrittura non posso più tacere. Una lettura difficile? Può darsi, ma l’esperienza della vita cos’è se non la condiscendenza totale delle problematicità? Evidenza capitata al grande Carlo Coccioli quando, intrattenendosi sui suoi saggi a tematica filosofica religiosa annotava che era ‘cosciente del fatto terribile che ogni giorno si facesse capire sempre meno’. Penso accada a chi è predisposto per il ‘grande evento’. Oltre questo non saprei cosa dire”.

Sia Dario Bellezza che Angelo Cordelli hanno scelto lei per condividere questa esperienza. Se ne è chiesto la ragione? L’attuale numero è dedicato all’eredità. Che tipo di lascito le hanno donato esperienze simili?

“Angelo -da uomo di fede- restò colpito dal saggio su Dario. Non si capacitava in che modo la serenità della presenza di un amico potesse far superare l’angoscia, la paura, la ribellione ad un poeta controverso, ma soprattutto era segnato dalla compassione e dal dono umano reciproco che io e Dario avevamo inteso. Credo fosse conseguenziale per lui scegliermi (con invidia di chiunque, le assicuro: si figuri, per gli altri un parroco che predilige un poeta al servizio dei parrocchiani è indecente): era certo della mia riservatezza, del mio rispetto, della mia deferenza nei riguardi della morte (e in questo sono parecchio buddista: so condurre, è una questione della mia natura, anche poetica; legga “Saper accompagnare” di Frank Ostaseski -sottotitolo, ‘Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte’ o “L’educazione del cuore” di Gibran e capirà cosa intendo), insomma, si fidava, per questo mi ha consegnato le sue ultime volontà e ha preteso che fossi custode delle sue ceneri (vede? Ritorna il suo messaggio: lui mi costudisce dal cielo e io lo sorveglio qui in terra). E poi, mi ha voluto perché ci si voleva bene, ma bene per davvero. Vi sono però delle differenze: quando capitò con Dario ero relativamente giovane, avevo trentaquattro anni, e la relazione, l’esperienza, anche innanzi alla morte e ad una morte per AIDS, era strettamente di natura poetica, ossia anche ingenua, se vuole. Con Dario eravamo amici, ma non strettamente intimi. Più che altro fu lui a percepire in me delle potenzialità che non credevo di possedere. E il suo lascito, soprattutto umano, è in un libro che considero uno tra i miei più sentiti. Con Angelo invece è capitato che s’è siglata una propensione compassionevole, soprattutto ora che la nostra società vede e vive la morte come fatto puramente clinico e l’esperienza del Covid ne è testimonianza. Io invece sono portato a credere che la morte sia un accadimento di enorme valenza non solo psicologica, ma emotivamente spirituale. La relazione con chi amiamo e da cui siamo amati, la concezione di divinità possibili, la conoscenza del dolore, in altri termini, l’altruismo. Ecco perché diviene significativo per chi affronta questa esperienza circondarsi di persone che si ritengono adatte, ossia in grado di raccogliere la sofferenza altrui. Credo -ma potrei cadere in errore- di essere stato un utile spunto di riflessione -anche se in forme diverse- sia per Dario come per Angelo. Prova ne è una struggente lettera che Angelo mi ha scritto due giorni prima di morire all’interno della seconda di copertina del nostro libro; e, ad ogni modo, ho cercato di fare e di dare il meglio che potessi fare o dovessi dare. Oltre le ipocrisie o i conformismi culturali, si è trattato di esperienze che hanno fornito risposte a degli interrogativi spesso perpetui. Sebbene l’eredità umana, misericordiosa, una eredità anche del perdono, è qualcosa difficile da chiarire e risolvere con parole esaustive, penso che ‘Il male di Dario Bellezza’ o ‘KI. Segni dallo spirito’ possano coinvolgere qualsiasi lettore a non respingere nulla, a raccogliere tutto il possibile, a portare dentro di loro esperienze simili, a mettervi sé stessi, interamente. Non si può scacciare il dolore, ogni dolore: è una via alla integrità del cuore; solo così si può capire che ogni contatto non è solo eredità, ma un meraviglioso dono”. 

Cosa pensa di aver raggiunto con queste nuove poesie? Mi sembra di ricordare che quando uscì la sua opera omnia lei era intenzionato a sospendere nuove  pubblicazioni…

“E’ vero. Poi però accadono eventi che coinvolgono il tuo sentire e, per quel che mi riguarda, alcuni sentimenti riesco a esporli solo in poesia. Il mio rifiuto di pubblicare va di pari passo con una crescita spirituale che non necessita di riscontri, per lo meno pubblici. Si tratta di una ricerca che coinvolge l’interiorità e non l’esteriorità. Forse è per questo che lo stile usato adesso può risultare enigmatico, e per chi ha poca frequentazione con letture specifiche, il ‘KI, può conseguire una dolorosa spina nel fianco: non solo ragguaglio di come la vita non termini con la morte fisica, ma resa ad una gioia che non è felicità (la felicità è fatta di momenti e di forme di dipendenza; la gioia invece permea l’essere nel profondo), ma risveglio dell’amore. I saggi indiani indicano come noi ‘siamo amore e viviamo nell’amore. Siamo in uno stato d’amore con tutti gli esseri senzienti; impariamo, cioè, ad accettare che siamo un’unica coscienza, un’unica famiglia, in molti corpi diversi’ (e qui torniamo al tema della congiunzione delle anime. Vede? Si tratta di un serpente che si morde la coda, null’altro); perlomeno questa è la lezione, ad esempio, di Ram Dass, divulgatore di filosofie orientali quando afferma che ‘una volta che si è sperimentato l’amore incondizionato, non possiamo più fuggire. Possiamo correre, ma non nasconderci. Il seme è piantato e crescerà a suo tempo’. Come dire che l’amore è uno stato dell’essere e non di certo un viaggio interminabile di chilometri e chilometri per trovare una felicità apparente, che non può essere tale se non emerge dal nostro cuore, da dentro di noi. Insomma, bisogna prendere come esempio l’esperienza di Cristo, che si è dissolto nell’amore, talmente disperso che in nome dell’amore s’è lasciato ammazzare. E i veri poeti che altro sono se non la deduzione di saper avvertire l’amore con evidenza cosmica? Non so cosa potrei aver raggiunto con i versi del ‘KI’, ma resto certo che segna uno spartiacque tra ciò che ho scritto prima e quel che sto scrivendo adesso, e ‘Sigillo di spine’ ne è conferma: c’è un prima e ora c’è un dopo. Il dopo è il ‘KI’. Ed è in questo anomalo seguito che credo si possa rintracciare il senso di una necessità che spinge l’animo ad affrontare tematiche poco comuni in poesia (ma poi mica tanto inusuali se leggiamo le poesie di Blake o di Clemente Rebora o di Turoldo). Forse la soluzione è nel perdersi, nell’abbandonarsi all’amore delle anime, un amore che proviene dall’essenza più elevata dell’essere (anche questo concetto lo spiega molto bene Ram Dass). Perlomeno la poesia dovrebbe innalzare simili stati dell’animo. Ah, sì, ovvio: non è detto che io ci riesca, magari resta solo una mia illusione, ma so per certo che in ‘KI. Segni dallo spirito’, oltre all’esperienza e alla dimostrazione della prosecuzione della vita dopo la morte, vi è l’intero mio vissuto poetico, una sorta di biografia dell’anima, una summa sul come muta e si trasforma un pensiero, uno spirito, un cuore; modifica che a sua volta può creare quella vibrazione empatica che permette di sbrogliare l’intricato mosaico che si chiama vita”.

“Voglio fare il musicista”: il mondo di Rosario Jermano in un libro autobiografico.  Quando accade che la realtà racconti un sogno ancora più in grande.

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Un musicista con l’intuizione di un percussionista che ha fame di suoni, strumenti, passione e animo. Leale, amico vero, sincero, generoso ed altruista, precursore ed anticipatore, un uomo d’altri tempi con valori grandi quanto i suoi sogni, giganti, incorruttibili e fermi come roccia col cuore. Ha rinunciato a Gato Barbieri per seguire gli impegni presi con Luca Barbarossa e molti ancora sono gli aneddoti raccontati nel suo libro autobiografico “Voglio fare il musicista” (Apeiron edizioni). E’ stato sempre nel posto giusto al momento giusto, quando tutto sembrava oro e si poteva parlare veramente di musica e di passione da seguire ad ogni costo e ad ogni prezzo, con rinunce pesanti e grandi come macigni. Franco Miseria lo ha voluto nei suoi spettacoli così come tutti i grandi autori del calibro di Pino Daniele, Renato Zero, Fabrizio De Andrè, Loredana Bertè, Mia Martini, Gino Paoli, Eros Ramazzotti, Zucchero e tutti gli altri nomi del panorama musicale dagli anni ’70 in poi. Tutti, ma veramente tutti hanno nel loro percorso artistico una o molte collaborazioni con Rosario Jermano. Uomo ed artista instancabile, coraggioso e vero come raramente capita, in un mondo difficile e faticosissimo. Ha costruito un mondo di rapporti umani attraverso la musica, fortemente voluto dai più grandi che ha saputo seguire raccogliendone la profondità, l’essenza, la natura più intima e complessa. 

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“Un arco di tempo così lungo non può rimanere senza ricordi”, scrive “Avevo bisogno di psicanalizzarmi da solo, di non mentire più al mio cervello, di cercare ragioni e motivazioni, chiamare per nome tutte le cose che avevo visto. Per questo ho scritto, altrimenti avrei suonato la batteria”. Un fiume in piena di ricordi il libro “Voglio fare il musicista”, che travolge il lettore e presenta i grandissimi della musica italiana nella loro verità assoluta, come fossero tutti messi a nudo per farli sentire ancora più vicini a chi legge, a chi li ha amati ed a chi li ha ascoltati con il cuore gonfio per tutta la vita. 

“Mio padre è quell’uomo che mi ha insegnato ad essere libera, a credere nelle passioni e nei sogni più alti. Ha creduto nel mio talento alimentando una sensibilità a volte pericolosa per un mondo di marmo come quello in cui viviamo. Mi ha insegnato che la vita è una sola e che la tomba non ha le tasche. Ho compreso le sue debolezze anche in età adulta e accarezzato i suoi errori, perché con lui ho conosciuto un amore senza eguali. Mi ha cresciuto accudendomi come una balia, non dimenticando mai un saggio di fine anno o una recita scolastica. Un uomo che mi ha insegnato la matematica e a fischiare. A cucinare e ad ascoltare i Beatles. Ero grande e lui così piccolo, quando la coperta gliela rimboccavo io, standogli vicino nei suoi momenti difficili e leccando le sue ferite, come lui aveva fatto con me. Ad oggi, grandi entrambi, guardiamo al domani con la solita poesia” – prefazione di Heather Francis Iermano (figlia di Rosario).

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Nella prima copia del libro ha voluto scrivere una dedica a sè stesso “Alla fine ci sono riuscito a scrivere un libro, sembrava un’impresa impossibile come la “missione”. Il libro non si autodistruggerà tra trenta secondi, ma sopravviverà a me, molti lo potranno leggere dopo che io non ci sarò più. La pandemia ha fatto anche delle cose belle, spronarmi a fare cose che non avrei mai fatto. Ho fatto anche un disco nuovo dopo la mia malattia e anche questo resterà. Come queste pagine. Si gruoss” Rosario Jermano. Lo abbiamo incontrato per i lettori di Condivisione Democratica. 

All’inizio del suo libro scrive “scappavo dalla vita” e si avverte come un rimpianto per non essersi dedicato molto agli affetti familiari. Perché sentiva di dover fuggire?

“Non è un rimpianto, ma trasferitomi a Roma nel 1984, mi trovavo lontano dalla mia famiglia di origine e preso da tutti i miei impegni, avevo la musica che mi assorbiva completamente, i miei sogni da realizzare, la mia persona da coltivare, da far crescere e maturare artisticamente e non solo. Ci sono scelte nella vita che non lasciano “scelta”. Poi sono rientrato a Napoli, mia madre e i miei fratelli c’erano ancora e sentivo il bisogno, dopo anni di lontananza, di stare più a contatto con loro, ricevere il loro affetto vero e sincero, anche se Roma significava avere mia figlia spesso con me essendo separato dal 1990. Ho vissuto molto l’essere padre e ne sono felice. Mia madre è mancata nel 2004 e i miei due fratelli maggiori sono scomparsi dopo. Ho avuto modo di trascorrere molto tempo con loro e viverne anche le loro sofferenze e paure, questo mi ha fatto sentire un vero fratello ed un vero figlio, amavo moltissimo mia madre. Non si vive solamente di musica, ma di vita, di persone, di sentimenti, di paure, di felicità e di amore. Siamo sempre a cercare un motivo, una ragione per vivere, ma l’unica ragione si chiama vita, ogni giorno dobbiamo pensarci cercando di non commettere errori, perché Dio ci dà due strade, sta a noi scegliere quale percorrere”.

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“Mio padre ha perso e ha vinto proprio come me”, in fondo è quello che accade ad ognuno di noi, è proprio la vita che porta in sé questa alternanza ed è forse ciò che ci fa crescere e maturare. Cosa ha perso maggiormente nella sua vita?

“Credo niente, rifarei tutto allo stesso modo, forse se non avessi vissuto cosi non sarei quello che sono oggi: un musicista. Nella vita ci vuole coraggio, bisogna rischiare, essere unici ed inconfondibili. Essere sè stessi ti dà un senso di libertà e di realizzazione che non ha paragoni e fare il lavoro che ci piace per noi esseri umani è fondamentale. Le scelte sbagliate rattristano, deprimono, fanno male e coinvolgono anche le persone che ci sono vicine e che amiamo. Essere insoddisfatti, frustrati e repressi è la stessa morte in vita, ci svuota lentamente giorno per giorno e ci costringe finanche ad accettare l’abitudine come qualcosa di sano. E’ importante, quando ci accorgiamo di ciò, fare il possibile per modificare qualcosa o tutto pur di ritrovare il nostro centro ed il nostro posto nella nostra vita”. 

Nascere a Napoli è come nascere sulla luna, inizi a vivere con uno scafandro ed un casco ma con occhi che vedono cose che nessuno vedrà mai. Si nasce da privilegiati contrariamente a ciò che pensano in molti. Qual è il suo pensiero a riguardo?

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“Penso che noi napoletani non ce ne rendiamo conto, viviamo una realtà che è ricca di tradizioni e di musica, fanno parte del quotidiano non è un fatto eccezionale. Napoli per me è il mare, gli odori delle strade, i panni stesi, la grande arte in varie discipline come il teatro di Eduardo, tutte cose che ci sono e ci appartengono naturalmente insieme al Vesuvio, la pizza, la musica classica Napoletana di Bovio e De Curtis, siamo avvolti da tutto questo e noi stessi diventiamo simili, cercando sempre la migliore soluzione ai problemi per poter “Tirare a campare”, ma con orgoglio e dignità. Napoli è una città creativa, piena di passione, di magia, di entusiasmo, co a capa tosta, a noi ci piace fare le cose fatte bene e non come si dice in giro per il mondo. “Ccà nisciuno è fesso”, anzi….Napoli ti parla ogni minuto ed in ogni angolo e ti racconta tante storie belle di umanità e di passato glorioso. E’ una terra spettacolare con tutti i suoi problemi e le sue criticità, ma da qui a dire che siamo furbi, senza voglia di lavorare ed indolenti ce ne passa. Napoli va vissuta, il turista vede quello che vuole vedere, ma chi ci vive si prende tutto ed alla fine, le assicuro, il bilancio è in positivo”

Licenziarsi dal “posto fisso” nel 1978 credo sia roba da eroi o da folli. Lei come si sente?

“Mi sento un incosciente ed in parte un pazzo, ma non mi pento, vedo i miei amici di scuola e di adolescenza molto più vecchi di me anche se hanno la stessa età, io ho messo un anticalcare alla mia anima e loro no rimanendo ricoperti di una patina grigia che li rende infelici. Lavoravo all’Aeritalia, ufficio progetti, un’importante fabbrica di aeroplani, era anche un gran bel lavoro, mi insegnarono l’uso del computer, all’epoca grande come un camion, partecipai alla progettazione di un bimotore turboelica, usato tuttora dall’aeronautica militare. Fu in una delle pause pranzo dal lavoro che mi trovai in una delle tante botteghe della zona Via Marina vicino al porto, vendeva materiale di vario genere per animali. Comprai campanacci per le mucche, campane piccole, campanelli, sonagli e sonaglini, tutto ciò che produceva un suono e rimasi molto perplesso e sorpreso quando il negoziante mi disse che anni prima anche Gegè Di Giacomo, il batterista di Renato Carosone, ne aveva comprati molti. Era un segno del destino, un messaggio magico e divino, qualcuno stava cercando di farmi capire che dovevo fare il musicista. Nel febbraio del 1978 mi licenziai”, il resto è storia nota”

Cosa significa iniziare a fare musica con un’artista come Pino Daniele?

“Per me fu normale, due ragazzi che avevano voglia di fare musica, in quegli anni meravigliosi, gli anni ’70, in cui tutto era possibile e tutto era permesso. Dovevo solo volerlo, insistere e crederci fino a vederlo completamente realizzato, il mio sogno, qualsiasi sogno fosse e non importava quanto grande, gigante, immenso. Io ci ho sempre creduto. Pino è stato un musicista straordinario perché era un uomo straordinario, un amico vero, semplice, con un cuore grandissimo”.

I suoi inizi e la sua formazione la vedono al centro di un momento storico d’oro, dove la musica era il senso del vivere quotidiano. Cosa pensa dell’attuale situazione musicale italiana?

“La situazione della musica in Italia è veramente drammatica, quando i miei allievi mi fanno delle domande a volte non so rispondere, ad esempio come fare per entrare nei giri giusti per poter fare tours e dischi. I dischi non si fanno più, i tours si servono sempre di specialisti quotati ed infallibili che danno fiducia e sicurezza, ma chi ci arriva? I ragazzi sono scoraggiati, oggi è molto più difficile diventare un session man cioè un turnista, anche se questo termine a me non è mai piaciuto. Io ci sono dentro perché all’epoca tutto quello che facevo passava attraverso i canali giusti che erano attivi e floridi, mi notavano e mi facevo notare per la mia creatività, oggi anche se ci sono dei talenti non si riesce a mettersi in evidenza, devi essere raccomandato o presentato da un altro musicista conosciuto altrimenti stai a casa. Ci sono ragazzi bravissimi in giro per la strada che probabilmente non emergeranno mai perché hanno solo musica e bravura. Che tempo triste”. 

Crescere ascoltando Pino Daniele, Battiato, De Andrè, Renato Zero, Gino Paoli, ha tutt’altra sostanza rispetto all’ascolto musicale attuale. Forse manca tutto questo oggi ai giovani.

“I miei ascolti erano diversi, R&B di Otis Redding, Il rock dei Led Zeppelin, la chitarra di Hendrix e I Cream. Questo mi ha portato a mescolare tutto ed usare la somma nei dischi e nei live di artisti come Daniele, De Andrè e tutti gli altri. E’stata la mia forza. Non mi fermavo mai, ascoltavo, provavo, imparavo, sperimentavo ed ero incuriosito da tutto ciò che fosse capace di emettere un suono, un qualsiasi suono che potevo poi modulare e modellare. Oggi i ragazzi cos’hanno? I talent Show, il rap, la trap e cos’ altro? Di profondamente valido e costruttivo c’è ben poco, bisogna basarsi sul passato e sulle tradizioni se vuoi creare qualcosa di nuovo”.

(Immagine dell’Ospite)

La musica anni 70/80 era anche uno stimolo ad affermarsi con forza e coraggio, anche a costo di grandi ribellioni. Ai giovani manca tutto quello che la sorte ha dato a noi. Si è perso il senso profondo di fare musica.

“Non si è perso il senso, si sono chiuse troppe porte ed è difficile entrare nel “vortice” giusto, perché di vortice si tratta, di giostra, di nastro trasportatore, di catena di montaggio. Anni fa preparavi un provino e potevi farlo ascoltare a qualche direttore artistico, oggi i giovani non sanno neppure dove andare. Le case discografiche producono solo persone che escono dai talent o da milioni di visualizzazioni su youtube o altro. Diventa inutile mettersi a comporre e pensare di far conoscere la tua musica. Per me è molto difficile oggi, con la mia carriera, figuriamoci per i giovani talenti”.

(Copertina del Libro)

Carosone, Pino Daniele, Ornella Vanoni, Mia Martini, Luca De Filippo, Renato Zero e tantissimi tra i più grandi di sempre, l’hanno voluta a suonare le percussioni. Si rendeva conto che sarebbe entrato nella storia della musica?

“Io ho fatto il mio lavoro, il lavoro che amavo, non mi sono mai reso conto che sarebbe accaduto quello che poi è stato, ma in realtà non ero neppure attento a cercare qualcosa che andasse oltre la mia musica, fare musica, pensare musica. Certo sentivo la magia, i brividi, le paure di un debutto, a volte piangevo sentendo cantare parole commoventi come quelle scritte da Paoli o da Zero, ma mai avrei immaginato di poter fare ciò che ho fatto suonando uno strumento che non fa neppure parte della tradizione musicale italiana. Ed invece è accaduto l’impossibile, sono entrato a far parte in prima persona della musica italiana, quella più vera e profonda. Erano davvero altri tempi, quando si cercava qualcosa di più, eravamo esigenti, precisi, pignoli, grandissimi lavoratori prima ancora che artisti o musicisti, puntuali e testardi, ci piaceva e sapevamo quanto fosse importante essere “ricercatori”, volevamo costruire qualcosa di grande che potesse piacere a chi ci ascoltava, che potesse farli esaltare ed esultare. Abbiamo vissuto momenti di vera gloria, la gente ci apprezzava e sapeva riconoscere il valore di una bella canzone”. 

I suoi anni a Roma ed il ritorno a Napoli. “Quello che se ne è andato” viene ancora oggi considerato, come un affronto, un errore imperdonabile, un’offesa. Ma Roma rappresentò per lei un passaggio fondamentale. 

“Certo, a quei tempi bisognava andare ed essere a Roma, era il centro della vita e della produzione musicale. Sono stati anni importanti per la mia formazione e per la mia professione. E’ stato un passaggio fondamentale della mia vita al quale non avrei potuto e voluto rinunciare per niente al mondo. Non è stato tutto facile, anzi, ma tutto si compensava in un’ottica di visione futura, bisognava poter guardare al di là del proprio orticello, mettersi alla prova e sottoporsi anche a difficoltà di ogni genere e natura. Per come sono andate poi le cose e per tutto ciò che è accaduto penso solo che i napoletani sono stati un pò invidiosi di quello che ho fatto, non c’è altra spiegazione per l’atteggiamento che hanno dimostrato nei miei confronti. Io non partecipo alla vita musicale Partenopea, eccetto che per poche cose nelle quali mi fa piacere essere coinvolto come ad esempio “Napoli Opera” con la voce di Michele Simonelli ed un’orchestra da camera diretta da Paolo Raffone, antico collaboratore di Pino Daniele e pianista del nostro primo gruppo insieme, la “Batracomiomachia”. Altra collaborazione da me gradita è quella con Antonio Onorato, un grande chitarrista le cui doti furono riconosciute anche da Pino Daniele”.

Che lavoro fa? – Il musicista – Si capisco, ma che lavoro fa?, così le disse il proprietario di casa. E’ quasi impossibile pensare che allora, quando si faceva veramente musica, questo mestiere non veniva considerato come tale. 

“Anche oggi è così, nulla è cambiato, vogliono credenziali diverse o ti devono vedere in televisione allora accettano che il tuo sia considerato un lavoro “ben pagato” altrimenti ti mandano sotto i ponti. Ma credo che ugual sorte tocchi a tutti gli artisti in ogni ambito, devi essere riconosciuto per strada o avere poltrone nei talk show o contratti strapagati, e spesso, me lo lasci dire, tutto ciò non corrisponde necessariamente a bravura o professionalità. Ma questo i proprietari di casa o altri riferimenti della vita quotidiana non lo tengono in nessuna considerazione”. 

E’ riuscito a collaborare con i più grandi artisti, ognuno nel suo momento di massimo successo. Non credo sia stato un caso. La sua professionalità era fondamentale per ognuno di loro proprio quando il livello si alzava e l’esigenza di perfezione cresceva. Non capita a molti una esperienza del genere.

“Sono casualità il fatto di trovarsi al posto giusto nel momento storico musicale giusto, certo il talento ha fatto in modo che ciò avvenisse, ma ci sono altri aspetti come l’allegria, la simpatia e l’entusiasmo che danno tanto valore ai rapporti sia musicali che non. Forse era più facile l’approccio ma più difficile poi il consolidamento, se non valevi non duravi da nessuna parte, se non avevi una serie di caratteristiche forti, oltre alla buona preparazione musicale, non avevi una certa continuità. Bisognava avere una personalità, un carisma, una credibilità. Tutto questo ha reso lunghi e duraturi molti sodalizi”. 

“Ho superato i sessant’anni e le difficoltà si rinnovano senza pietà. Ci vorrebbe una pensione della sofferenza, una pensione delle difficoltà, una pensione per il coraggio che abbiamo avuto”. Scrive nel suo libro. Tutto questo purtroppo non esiste. Si combatte per pagare affitto e bollette. Professionisti come lei in difficoltà mentre dilaga il buio artistico e culturale. Quanto fa male tutto ciò a lei ed a noi?

“Ci sono abituato. Dal 1978 sbarco il lunario e vado avanti, con momenti eccezionali e momenti bui, ci sono dentro e ci vivo con le mie sofferenze, ma anche con le mie gioie. Ma se ci pensa non è in fondo così la vita di tutti noi?”

Trecento LP registrati con quasi tutti gli artisti italiani, 4 album da solista, tournée, come riesce ad accettare, affrontare e superare questa situazione di crisi così grave e pesante?

“Fortunatamente sono un pensionato, nei momenti difficili, come questi anni del covid, sono andato avanti con la mia pensione ed i vari ristori concessi, me la sono cavata fino ad ora. La fine di questo delirio è ormai vicina e godrò dei benefici, età e forze permettendo. Molto presto sarò in tour con Renato Zero, anche se lui ha 70 anni, non resterà di certo inoperoso dopo la pandemia”.

Il covid ha fatto cambiare lavoro a molti artisti completamente rovinati. Il tempo passa e la situazione peggiora e per molti non ci sarà più una soluzione. Cosa avrebbe dovuto fare lo stato per evitare tutto questo?

“Avrebbe dovuto dare più ristori a noi musicisti ed artisti, non certo i mille o duemila euro che non significano assolutamente nulla, cifre importanti che ci avrebbero aiutato a non finire sul lastrico. E forse anche qualche decisione meno vessatoria e prolungata nei confronti del mondo artistico e culturale”. 

Nel 2016 la malattia e tutto per un po’ si ferma. Come ha trascorso quel periodo?

“Con una caparbietà infinita, una voglia di ritornare a suonare sul palco, con coraggio e determinazione. Mi ha aiutato molto l’amore di mia figlia e la presenza di dottori eccezionali. Poi gli amici intorno e la stima di tanti che non mi hanno mai fatto sentire solo o perso o definitamente abbattuto da una malattia molto dura e tenace. Tanta sofferenza poi nella mia vita l’avevo già provata e penso che questo ti aiuta quando un altro ed un altro ed un altro uragano si abbatte su di te. Semplicemente ti trova più forte e non certo rassegnato. Dici a te stesso “ne ho passate tante, supererò anche questa”. Nella vita e nella malattia soprattutto non è tanto quello che ti accade e di quale portata, ma il tuo modo di reagire e la tua voglia di vivere. Avevo sempre la musica in testa, ma quella ce l’avevo sempre anche ed indipendentemente dalla malattia. Il ritmo, quello giusto, fa tanto la differenza in ogni circostanza, finanche nella malattia, pensi un po’”. 

Nel suo libro un capitolo lo intitola “Io e Pino Daniele” un rapporto unico, saldo ed incorruttibile. Cosa c’è ancora di Pino che non sappiamo o non conosciamo?

“Tante cose che terrò nel mio cuore, tanti momenti belli che abbiamo vissuto insieme e che resteranno nella memoria tra i miei ricordi più belli, insieme a quelli di mia madre e di mia figlia. Penso che Pino si sia dato completamente attraverso la sua musica, a parte qualcosa della sua vita privata che è tale e rimane tale, non credo ci sia qualcosa che Pino ha tenuto per sé, proprio perché anche per lui la musica era tutto ed attraverso la musica portava tutto quello che aveva dentro al pubblico, a chi lo amava e lo ascoltava e lo ascolta ancora oggi. Ci siamo conosciuti negli anni Settanta, avevo capito subito che era un grande talento, è stato il mio migliore amico, la sua morte mi ha reso vulnerabile, poi forte. Sono stato un uomo fortunato”. 

Nel 2019, dopo ventitrè anni di pausa, il suo quarto disco “Nouvelle Cuisine”, un disco non commerciale lo definisce, un disco fatto con più di quaranta musicisti tra i migliori della scena musicale, è stata la sua terapia più efficace?

“Certamente, una cura infallibile, ancora con le stampelle ho cominciato a lavorarci e sono felice di averlo fatto. Tutti mi hanno aiutato, tutti i miei amici musicisti che hanno partecipato senza alcun compenso, hanno suonato tutti gratis per me, in nome della nostra amicizia. Se non avessi fatto quel disco non sarei uscito così velocemente dal tunnel dell’apatia”.

Nel 1996 la fatidica frase “Sai suonare il berimban?”, inizia così il suo rapporto con Fabrizio De Andrè. Passano gli anni ed aumenta la desolazione della sua assenza. Le sue parole non passano mai di moda, anzi diventano sempre più attuali. Come è stato il vostro rapporto? 

“Con Faber è stato un rapporto di profonda stima, lui un tipo difficile e speciale, io un pignolo ed anche io persona difficile, lui cambiato negli anni in una persona docile e dolce, io musicista che non lascio dubbi irrisolti. In definitiva due perfezionisti che la musica ha fatto incontrare, il nostro incontro ha dato risultati veramente notevoli, risultati che oggi io valorizzo nel pieno del loro significato”.

Non ebbe il coraggio di andare in America nonostante l’invito di Corrado Rustici. Mi viene in mente Pino Daniele, Massimo Troisi, i napoletani sono pigri? Oppure non ha creduto abbastanza in sè stesso o ancora la certezza non si baratta con l’incertezza? Ci pensa mai che quel coraggio di allora forse le avrebbe regalato un presente più solido e sicuro?

“Ero già conosciuto in Italia, in America avrei dovuto cominciare tutto dall’inizio, lì non scherzano, non è l’Italia delle raccomandazioni. In America se sbagli sei fuori. Non ho visto un futuro sicuro nel mio trasferimento in America, infatti oggi Rustici si è trasferito in Germania perché lì la musica non va più come una volta. Ed a molti è toccata la stessa sorte. Rientrare dopo tanti anni dall’America poi sarebbe stato ancora più complesso, non è rientrare da Roma a Napoli, non è proprio la stessa cosa, si perdono tutti i contatti, gli amici, si torna probabilmente molto diversi e lo stesso rientro diventa più pesante e faticoso anche da un punto di vista psicologico. Non me la sono sentita. Poi chi lo sa come sarebbe andata. Va bene così”. 

Una lista infinita di artisti straordinari, sembra quasi impossibile pensare di averli incontrati tutti insieme in una sola vita. Adattarsi poi ad esigenze sempre diverse, sempre nuove, sempre più complesse. E’ stato bello, ma mi viene da pensare anche tanto faticoso.

“Per me no, non me ne rendevo conto, mi divertivo a suonare con loro, mi davano fiducia e stima illimitate ed anche la libertà di potermi esprimere a modo mio, era un valore aggiunto. I grandi artisti grazie a Dio ragionano così, ragionano bene e mi davano anche la forza di spingermi. E’ stato uno stimolo continuo. La stessa cosa la prova un cuoco quando gli dicono “Sai, cucini bene”, lui crea sapendo che i commensali mangeranno tutto”.

Morale della favola? Perché realmente di favola ha il sapore ed il colore la sua vita. Ed ora? Cosa accadrà?    

“Non lo so, spero di suonare fino a che le forze me lo permetteranno, spero di vedere le mie due nipotine crescere, mia figlia è incinta di due gemelle, spero che mia figlia viva bene e che non abbia mai problemi. Il resto non mi interessa, il mio cuore è gonfio di soddisfazioni e di cose tristi, ma vivo e questo è ciò che conta veramente per me. Ho avuto una vita così piena e ricca di ogni cosa che ora voglio solo godermi tutto quello che ho costruito. Non ho più bisogno di chissà quali grandi sussulti o sobbalzi, sono diventato un po’ più tranquillo, non per l’età e neppure per la malattia, non vivo di paure per nessuna delle due, non vivo di ricordi ma ricordo per vivere meglio e più intensamente possibile la mia vita. 

“Il mio fisico non è fantasia, è fatica”. Karla Kol ci racconta il mondo del fitness, ce lo fa vedere e lo rende accessibile a chiunque. Parola d’ordine: MISSION POSSIBLE

(Immagine dell’Ospite)

Le sue storie su Instagram
(@Karlakol_fit) sono ormai diventate famose ed apprezzate ed hanno scatenato un enorme interesse in un pubblico sempre più alla ricerca di approfondimenti e nuovi argomenti sulla cura del proprio corpo, sulla salute e sul buon vivere, con senso pratico ed ironico. L’obiettivo è ciò che conta. Prendersi cura di sè stessi quotidianamente con costanza e volontà. Nulla è impossibile per Karla Kol, fitness model e fashion addicted, professionista, imprenditrice, donna bellissima, ironica, determinata, attiva, senza filtri, una forza della natura, un portento, un uragano che ha deciso di mettere a disposizione di chiunque sia realmente interessato, la sua pratica sportiva e la sua filosofia di vita. Per lei non esiste nulla che non possa essere fatto e detto perché il tempo è prezioso e bisogna saperlo utilizzare per qualcosa di sensato, valido e costruttivo. I suoi post con video e foto sono sempre accompagnati da frasi diventate ormai un vero e proprio punto di riferimento per chi vuole imparare a vivere bene, perché il suo allenamento non si ferma solamente al fisico ma interessa anche la mente, che esattamente come il corpo ha bisogno di un vero e proprio allenamento quotidiano per giungere ad uno stato di benessere totale, assoluto ed appagante. Sicura di sé come poche, in un momento in cui tutto è in bilico, incerto ed insicuro, rappresenta un vero e proprio toccasana, un balsamo, un emolliente che riesce a sciogliere qualsiasi tipo di contrattura. Per lei la vita è un’avventura straordinaria e ciò che accade va digerito, assimilato per trattenere solo le cose buone e belle, il resto via nel più breve tempo possibile. Perché di tempo non ce n’è molto, la sua giornata da donna bionica sembra paragonabile ed equiparabile a 4 o 5 di quelle dei “comuni mortali”, degli “esseri normali”, perché lei è veramente ma veramente straordinaria in tutto ciò che fa e noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerla e di intervistarla per Condivisione Democratica, costringendola per un attimo a “fermarsi”. 

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Fitness model e fashion addicted, professioni in questo momento che vedono una grande competizione anche con protagonisti molto noti nel mondo dello spettacolo. Come si arriva ad essere unici, originali, a distinguersi ed a garantire un buon livello?

“Quando la richiesta è tanta aumenta l’offerta, ecco perché il settore del fitness ha sempre rappresentanti. Questo trend era già iniziato prima della pandemia, durante il Covid con la chiusura dei centri sportivi moltissimi si sono organizzati per proporre esercizi da fare a casa oppure all’aperto. Anche personaggi famosi, più o meno competenti e preparati hanno cavalcato l’onda del business reinventandosi P.T. e proponendo tramite canali a pagamento routine di allenamento.

Sono tantissime le nuove “mode” del mondo fitness, crossfit, pilates, zumba, io penso di distinguermi perché non ho mai abbandonato il body building old style, a parere mio l’unico allenamento veramente in grado di modificare le proporzioni del corpo.

Io eseguo e propongo gli esercizi fondamentali del culturismo variando a volte le tecniche di esecuzione.

A livello di risultati un’ora di palestra equivale a 5 di nuoto, 10 ore di crossfit, a 20 ore di esercizi a corpo libero.

Io che non amo raccontare favole o prendere in giro la gente, dico che è molto difficile ottenere un fisico come il mio senza l’utilizzo di pesi anche molto elevati”.

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Karla Kol Fit è ora diventato un brand conosciuto ed apprezzato, con una importante novità in arrivo di cui però al momento non vogliamo svelare nulla per lasciare nei lettori la curiosità e l’interesse. Proprio durante il periodo di chiusura dovuto al covid, non si è isolata e non si è fermata alimentando ancora di più il suo atteggiamento costruttivo e produttivo.  Ci racconti meglio il suo percorso professionale.

“Io ho un carattere molto forte reagisco sempre alle difficoltà, non mi piace subirle. Quando hanno chiuso le palestre ho avuto qualche giorno di rabbia, ho comunque continuato i miei allenamenti a casa e mi sono subito mossa per trovare una soluzione. Ho trovato delle palestre che davano la possibilità agli agonisti di potersi allenare, quindi io che sono un’ atleta, mi sono iscritta ad una federazione pesistica ed ho ripreso i miei workout. La prima palestra che ha dato questa possibilità era a Bergamo. Partivo da Milano per andarci 4 volte alla settimana. Niente può fermarti se tu non vuoi stare fermo…. poi con locali, ristoranti, negozi chiusi e avendo quindi più tempo a disposizione ho cercato di sfruttarlo al meglio e con l’aiuto di un art Director bravissimo ho creato il mio logo. È stata una grandissima soddisfazione. I primi prodotti di merchandising sono già usciti ma la grande sorpresa è in arrivo… quindi quello che per molti è stato un periodo di pausa per me è stato invece di grande impegno”.

Il suo profilo Instagram è seguito per lo più da uomini, cosa non ha funzionato con le donne?

“Ho un modo di propormi troppo strong, ho cercato di ammorbidire la mia immagine ma sarebbe stato uno snaturare la mia personalità, quindi ho scelto di continuare ad essere semplicemente me stessa e ….. chi mi ama mi segua. Il modello che propongo può sembrare irraggiungibile, irrealizzabile, troppo lontano da una “normalità” cui molte donne, per una serie di esigenze, impegni ed impedimenti, vorrebbero indirizzarsi. Ma credo fortemente che solo puntando al massimo si possano raggiungere livelli ed obiettivi che conducano a risultati soddisfacenti. E poi credo che se si punta in alto scendere un po’ non rappresenti una grande frustrazione e delusione, semplicemente un piccolo ridimensionamento che può essere accettato senza troppi compromessi. Ma se si parte già da un livello troppo basso ben presto si finisce sul divano con pigiama pantofole e vaschetta di gelato al cioccolato”. 

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Della sua vita privata non si sa nulla, lei protegge molto la sua immagine nel mondo virtuale. A noi però può svelare qualcosa. 

“Ho una sorella e due nipotini fantastici. Credo sia più che sufficiente. A chi importerebbe della mia vita privata in fondo? Il messaggio che voglio comunicare attraverso i miei video e le mie foto è un messaggio di creazione del proprio universo fatto di corpo mente anima e cuore. Anche i commenti che aggiungo sono tutti orientati nella stessa direzione, vivere bene. Quindi raccontare la mia vita privata non aggiungerebbe molto al mio lavoro. Ad ogni modo molto di me si può comprendere, a chi interessa, proprio dai miei post che raccontano e presentano me mentre faccio sport, viaggio, sono in casa, presento luoghi e persone e molto altro ancora. Ma sono certa che i miei followers sono seriamente interessati ai miei allenamenti che condivido con tutti perché in fondo sono la parte più importante e significativa della mia vita, ciò in cui credo molto ed in cui investo la maggior parte della mia giornata”. 

Bellissima, impegnatissima, attiva su diversi fronti, ironica, creativa, propositiva, solare e coraggiosa. Karla Kol avrà pure qualche difetto.

“Ovviamente …. come tutte le dive sono nervosa, capricciosa, impaziente e vanitosa”.

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Il mondo del fitness e dell’immagine è cambiato moltissimo in questi ultimi anni con l’arrivo della tecnologia più avanzata, dei social, della figura di influencer. Molti i benefici ma anche molti danni, lei che bilancio ne ha fatto?

“Le figure che i social propongono sono modelli esteticamente perfetti e difficilmente raggiungibili, questo potrebbe creare nelle persone, soprattutto più insicure, uno stato di inadeguatezza e sconforto.

Mai scoraggiarsi davanti a qualcuno che ci sembra migliore di noi, iniziare invece un percorso ed un lavoro su noi stessi per cercare di raggiungerlo ed anche se questo non sarà possibile comunque avremo apportato dei miglioramenti in noi stessi. Non odiamo chi ci sta davanti ma cerchiamo di raggiungerlo. Se riuscissimo a trasformare l’invidia e l’insicurezza in energia produttiva, invece che in delusione rabbia e sconforto, avremmo molta più gente in salute, allegra e felice”. 

Quanto conta nella vita un po’ di sano egoismo ed un pizzico di cinismo?

“Io amo molto i felini e ho imparato a vivere come fanno loro, i gatti sono i miei maestri di vita, per questo ho una vita stupenda…Loro hanno un rapporto bellissimo con sé stessi, con chi li ama, con la casa e con la natura. Sono creature meravigliose. Non fanno nulla per bisogno, sono liberi, per questo tutto ciò che donano è puro e sincero. Vivere pensando di più a sé stessi cercando di razionalizzare non è un male, ma un dovere che abbiamo verso noi stessi. Io parlo di rispetto che ognuno di noi dovrebbe avvertire come esigenza irrinunciabile, rispetto per ciò che siamo e che vogliamo trasmettere”. 

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Quali sono le sue passioni oltre lo sport?

“Tantissime: la danza che ho iniziato a praticare all’età di 5 anni, la musica, la lettura, il teatro, la guida sportiva e di conseguenza i motori, la moda, l’arte nello specifico la pittura.

Da buona esteta ho un’attrazione verso il bello in ogni sua forma ed espressione.

Avere tanti interessi ci tiene attivi e giovani e rende la vita molto più dinamica e divertente”.

Quando ha inizio la sua attenzione per il corpo, per la salute, per una vita sana ed equilibrata? 

“Quando il primario mi ha preso per i piedi mettendomi a testa in giù per farmi piangere ho pensato: questo fa bene alla circolazione ma se mi sculaccia troppo forte mi spacca i capillari!”

Spesso si associa la bellezza ad una vita di enormi sacrifici e rinunce, ciò che lei comunica però è tutt’altro. Il messaggio è che si può realmente avere ciò che si sogna attraverso un percorso di grande felicità e serenità. 

“E’ semplicemente perché faccio quello che mi piace. Mi spiego: se una donna è paffutella ma è felice e si mette a dieta soltanto perché glielo chiede il fidanzato o perché vede che le sue amiche sono più magre di lei vivrà rinunce e stress. Se lei è felice della sua condizione non deve fare assolutamente nulla.

Non esistono canoni estetici di riferimento, ciò che è fondamentale è saper e voler vivere in un corpo che ci faccia stare bene, che ci faccia sentire a posto con noi stessi”. 

“Quando tutte le giornate sono uguali, sei tu che devi trovare il modo di farle diventare differenti e speciali”. Certamente un motto straordinario, ma non crede che molto spesso il punto di partenza differente può influire su tale atteggiamento rendendo le cose a volte difficili per non dire impossibili?

“La mente di una persona vincente non prende neppure in considerazione la parola impossibile”.

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Il vissuto di ognuno di noi determina il corso della nostra vita in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma è l’atteggiamento nei confronti di questo vissuto che fa la differenza. Il suo messaggio, molto potente, è che non bisogna fermarsi mai, neppure davanti alle tragedie, a traumi profondi, a pericoli, ostacoli, complicazioni e impedimenti. E soprattutto che bisogna essere produttivi ed operativi al massimo. Perché è cosi difficile da far passare questo messaggio?

“Non è un messaggio difficile da far passare, semplicemente c’è chi ha voglia di recepirlo e chi no.

E’ molto più facile piangersi addosso piuttosto che rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Chi non ha avuto difficoltà nella vita? Chi di noi non ha attraversato momenti più o meno complessi, dolorosi, pesanti? Eppure molto spesso le persone con identiche situazioni di partenza sono arrivate in punti lontani anni luce. Cosa ha fatto la differenza? Si tratta di percorsi che hanno visto qualcuno lasciarsi andare pensando che nulla sarebbe potuto mai cambiare e migliorare e qualcun altro ripetere a sé stesso ogni giorno “voglio una vita migliore, me la merito e me la prendo”. Il mondo è traboccante di opportunità e volerle cogliere è uno stimolo che ognuno di noi dovrebbe coltivare quotidianamente dedicando a questo aspetto magari lo stesso tempo che impiega per allenarsi in palestra, per vedere un film, una cena con gli amici, la lettura di un buon libro, un viaggio, una buona dormita. Troppo spesso dedichiamo tempo, troppo tempo, ad aspetti della nostra vita che non lo meritano, discussioni, litigi, guerre personali, prese di posizione, cause. Tutta energia che intanto ci avrebbe portato un passo avanti verso il nostro traguardo”. 

Molto spesso si è sentito il binomio palestre-anabolizzanti, doping, farmaci. Qual è la realtà in questo ambiente che dovrebbe rappresentare un tempio per la salute del corpo e della mente?

“Non esiste nessuno sport senza contaminazioni dovute a sostanze dopanti, la gente purtroppo lo ricollega sempre e solo al body building”.

La sua ironia è sorprendente, nella sua pagina Instagram una serie di piccole gags che vanno a toccare argomenti di vita quotidiana. L’ironia è un’arma di difesa o è soltanto una sua spiccata caratteristica?

“Sono molto ironica, anche autoironica. Amo ridere e scherzare e non mi piace chi si prende sempre troppo sul serio. Diffidare sempre dei seriosi e dei noiosi, così come dei “perfetti”, la vita è un continuo di cambiamenti, adattamenti, ci si modella, il corpo come la mente, a seconda dell’età, delle circostanze, dei luoghi. E’ tutto uno spettacolo meraviglioso di colori, luci e suoni. Vedere e sentire sempre le stesse cose non serve a molto, spostare la visuale anche stando in casa è uno strumento infallibile di vivacità e dinamicità”. 

Il secondo posto della sua classifica sull’ipocrisia lo assegna alla frase “i soldi non fanno la felicità”, cos’è che fa realmente la felicità?

“Proprio perché trattasi di frase ipocrita la risposta è contenuta nell’affermazione stessa: la felicità si ottiene facendo quello che ci piace e per farlo servono i soldi. Spesso anche avere idee geniali, creatività, intuizione, non porta alla realizzazione per mancanza di mezzi. Questo non significa mollare il proprio sogno, arrendersi, sentirsi sconfitti e non realizzati, più semplicemente significa che se non hai i soldi devi farli, devi trovare il modo per accumulare denaro da utilizzare per ciò che vuoi. Si deve pur partire da qualche parte, chi parte già avvantaggiato e chi invece il vantaggio deve costruirselo per poi trarne ogni tipo di beneficio possibile. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la parola impossibile non esiste”. 

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Ormai tutti scrivono libri su ogni argomento. Le è mai venuto in mente di cimentarsi in tale ambito magari con un manuale ironico e irriverente del sano vivere in pace con sè stessi e con gli altri?

“No, ma ho pensato ad una mia biografia che sarebbe molto più interessante. Mi piacerebbe raccogliere tutte le mie esperienze, il mio vissuto, il passato ed il presente, il futuro che sto costruendo e che vedo realizzarsi giorno per giorno. Ci sono moltissime storie in un’unica storia che è la mia vita e tanti momenti, incontri e situazioni che sarebbe bello condividere con altre persone. Sono certa che dopo la lettura di questo possibile libro autobiografico le donne, anche le donne oltre agli uomini, sarebbero dalla mia parte e riuscirebbero a vedere tutto ciò che da un profilo Instagram (@Karlakol_fit) non è possibile cogliere completamente. Ripercorrere tutto ciò che ho fatto e tutto ciò che sono stata nei vari periodi della mia vita sarebbe un bel viaggio e di compagni di avventura ne troverei molti altri, in fondo la mia è una bella storia con momenti anche di grande difficoltà, forse quelli più importanti per rafforzare il mio coraggio e la mia volontà”.

Ha mai dovuto affrontare l’invidia, la cattiveria, l’ostilità?

“Certo, come tutte le persone su questa terra, ma dormo comunque sonni tranquilli. Chi non combatte quotidianamente con questi grandi sentimenti? Io però non combatto mi limito ad osservarli e possibilmente ad evitarli, non amo confrontarmi con qualcosa che potrebbe distrarmi e togliermi energie, per quello che faccio e per quello che sono di energie ne ho tanto bisogno e non posso permettermi il lusso di disperderle”. 

Come dicevamo il mondo femminile non è molto a suo favore, ha molte amiche?

“Poche ma sicuramente di qualità, anche in questo sono molto esigente e selettiva. Non è certo la quantità che può avere significato nella vita, e mi riferisco soprattutto alla sfera emotiva e degli affetti. Sarebbe dispersivo anche quello, avere troppe persone con cui condividere ore e giornate, e poi mi domando quanto sarebbe realistico poter affermare di avere molte amicizie profonde, persone a noi così vicine da rappresentare un valido punto di riferimento. La realtà è che dobbiamo ritenerci fortunati se nella vita abbiamo qualche incontro profondo e vero, dove la sincerità e la libertà di essere sé stessi si possa manifestare al cento per cento”. 

L’ignoranza ed il pregiudizio spesso associano una bella donna alla ricerca di una vita facile e comoda. Il suo modello di donna invece mette in evidenza un lavoro costante e continuo per arrivare ad ottenere risultati non da ostentare ma da proporre. Cosa danneggia ancora il mondo delle donne?

“Io credo che indifferentemente sia nel mondo femminile che nel mondo maschile, in generale nel mondo degli esseri umani ci si danneggi da soli, non si può sempre ricercare il danno in qualcun altro per cercare di sopportare meglio le conseguenze. Dobbiamo avere il coraggio di fare le scelte giuste, di sopportare gli errori, di ripartire, di cadere e farsi male, di non giudicarsi sempre e troppo severamente, di essere autoironici quando è necessario, di alleggerire invece di andare sempre in giro con una zavorra di cui non riusciamo a liberarci per mentalità, pregiudizi, limiti, paure. Bisogna lavorare su noi stessi anche con estrema onestà che non vuol dire giudizio ma analisi e comprensione. Dobbiamo imparare a volerci bene ed a proteggerci da tanta confusione e superficialità. Oggi tutti parlano, tutti hanno una soluzione, una risposta, un argomento. Ma è vero? C’è la sostanza in tutta questa concentrazione di tutti sappiamo tutto? Io credo che quando si parli di danno la prima persona a cui bisognerebbe rivolgere l’attenzione siamo noi stessi. Dobbiamo saperci ascoltare senza nessuna ipocrisia”. 

Adora i complimenti, le lusinghe e gli apprezzamenti. Lo dice schiettamente e con grande onestà. Quanto è dannosa l’ipocrisia nella vita di noi donne?

“Esattamente come per tutti, maschietti compresi. Sentirsi apprezzata è una bella gratificazione e ti da anche la misura del lavoro che stai facendo su te stessa, significa che stai facendo bene, che stai indirizzando bene tempo ed energie, che ciò che vuoi comunicare con l’esterno viene compreso e recepito molto bene. Non amo la volgarità, ovviamente, ma uno sguardo compiaciuto, una frase di apprezzamento, un complimento, un gesto di attenzione manifestato con cura, rispetto e garbo di sicuro mi fa molto piacere. Tutto ciò lo trovo sano”.

La libertà di una donna di essere bellissima e non in pericolo credo sia un traguardo ancora lontano, lontanissimo dall’essere raggiunto. Spesso la bellezza viene vista quasi come un invito, un proporsi, una disponibilità. La legge non aiuta. Come ci si difende da questa concezione “malata” della società?

“Io non mi ritengo brutta eppure non mi sono mai sentita in pericolo. E’ ovvio che la bellezza non è tutto, deve essere accompagnata dall’intelligenza nel sapersi districare nella giungla della quotidianita’. Ad ogni modo non penso si debba parlare di difesa quanto piuttosto di un giusto equilibrio. Noi donne abbiamo tutte le risorse necessarie per gestirci nel migliore dei modi, senza né prevaricare l’uomo e nemmeno sottometterci. Credo che nel corso degli anni ci siano stati molti fraintendimenti tra uomo e donna e questo ha finito con indebolire entrambe le parti, quando al contrario la differenza avrebbe dovuto rappresentare una risorsa preziosa, perché che siamo differenti bisogna riconoscerlo ed accettarlo, senza per questo dare giudizi di valore che a nulla servono e che soprattutto non esistono. Il valore di una persona appartiene a qualcosa di molto più profondo ed intimo che non sia semplicemente la differenza di sesso. Su questo dobbiamo soffermarci e non parlare di difesa, attacco, sono termini in qualche modo aggressivi che non fanno che alterare ancora di più un equilibrio che dovrebbe esserci e che è andato perso con il tempo. E nemmeno parlare di ruoli secondo me ha una qualche utilità”. 

Instagram @KarlaKol:_fit

“Donna creatrice”: Valeria Acciaro e la rappresentazione di una donna delicata, tenera e sensuale.

La Bellezza della Donna è stata nei secoli raffigurata in ogni modo e con ogni mezzo, dai più grandi agli artisti minori, tutti si sono occupati di “raccontare” la figura femminile come madre, donna, amica, sorella, ognuno a modo suo cercando di trovare quel punto di originalità e di grandezza che potesse raccontarne una storia diversa ed immortale. Fu Artemisia Gentileschi che aprì la strada alla nuova ideologia che non solo gli uomini potevano ricoprire il ruolo di artisti. E così le donne che hanno “raccontato” la Donna sono state tantissime e straordinarie nel loro raffigurare la complessità e la molteplicità di quest’essere al tempo stesso così delicato e così coraggioso. Valeria Acciaro, artista, professoressa, storica dell’arte, curatrice di eventi culturali, ha dialogato con noi per i lettori di Condivisione Democratica sull’arte e sul delicato momento storico che stiamo vivendo. Donna elegante, raffinata, di particolare garbo e riserbo, ha raccontato la “sua” donna, raffigurata nelle sue opere presenti in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero,  alcune delle quali hanno ottenuto importanti riconoscimenti. La figura della donna attraverso il superamento di dimensioni definite, alla ricerca di quella profondità propria del corpo di una Donna. Ed al di là del soggetto raffigurato, in ogni caso, un concetto di arte come potenza e compiutezza, oltre quell’orizzonte che troppo spesso ormai rappresenta più una barriera che un’apertura verso il mondo.

E sappiamo bene, ogni volta che si cerca di andare oltre, di superare il confine, di oltrepassare il limite, si può parlare solo di coraggio e di forza. Rompere gli schemi non è necessariamente sinonimo di rottura, spesso ha il senso di un valore aggiunto alla tradizione cui viene data una connotazione di vita e di libertà. E non è cosa da poco. Una vera e propria rivoluzione combattuta con intelligenza e determinazione. 

La prima domanda che mi viene da porle è certamente quanto ne ha risentito il mondo dell’arte in questo drammatico momento storico a livello mondiale?

La situazione sconvolgente da Covid-19, con le conseguenti restrizioni per il contenimento della pericolosa pandemia, ha notevolmente colpito l’arte, registrando circa l’80% di perdite degli incassi. La chiusura forzata di musei, di gallerie oppure di luoghi destinati alla fruizione artistica ha comportato anche una modalità forse nuova di accostarsi alle opere d’arte, attraverso le tecnologie.

Aspettando la riapertura dei luoghi espositivi, cito uno scritto di Jacob Burckhardt “Noi frequentiamo le gallerie non per amore dei pittori, ma per amore di noi stessi”. 

Professoressa, storica dell’arte, curatrice, artista, quale tra le tante anime predomina in Valeria Acciaro?

Senza ombra di perplessità la “Donna Creatrice”. 

Cos’è l’essenziale per un’artista?

L’immaginazione, l’intenzionalità e la libertà.

Vitaldo Conte scrive di lei “L’artista, lavorando sulla cancellazione della distanza tra l’arte e l’esistenza, opera sull’ipotesi della “guarigione” propria e altrui”. In che modo attraverso le sue opere cerca di “guarire” sé stessa e gli altri e da quali mali?

Sono presente in vari testi di Vitaldo Conte, con il quale mi lega un’amicizia quasi trentennale. Figura poliedrica, talentuosa, di grande valore culturale e professionale, nonché tra i più significativi critici nel panorama artistico.  

Le mie opere d’arte testimoniano momenti di vita, attraverso una ricerca cromatica legata alla Donna, alla sua bellezza, alla sua delicatezza e alla sua tenerezza. Una ricerca in cui traspare la femminilità e la sensualità, attraverso il superamento di dimensioni definite, dove si infrange un confine e si va a mano a mano tracciando una superficie pittorica che presenta una profondità, così come il corpo di una donna. È la profondità che guarisce, attraverso il comprendere con il cuore e con amore, annullando la finzione. 

Come non ricordare Le Rime del Cavalcanti “Veder mi par da le sue labbra uscire – una sì bella donna, che la mente – comprender non la può, che ‘nmantenente – ne nasce un’altra di bellezza nuova – da la qual par ch’una stella si muova e dica: – la salute tua è apparita”.