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Il Professor Zamboni ha appena dato alle stampe il suo ultimo libro “Nascoste nella Tela” (Mondadori Editori) nel quale unisce la sua passione per l’arte e il suo proverbiale occhio clinico, sempre mitizzato dai suoi numerosi pazienti. Il suo piacere per la scoperta, per l’indagine scientifica viene versato in questa novità in libreria svelando ai lettori i misteri nascosti nei dipinti di famosi pittori. Ne risulta un testo avvincente rivolto a qualunque fascia di lettori per la immediatezza del linguaggio usato. 

Per me re-incontrare Zamboni è, prima di tutto, un piacere per la sua simpatica schiettezza, tipicamente ferrarese, che rivedo identica. Una immediatezza che è anche in questa opera, non rivolta ai medici ma a tutte le persone attratte dall’arte, e ne diventa un valore aggiunto. 

Il nostro primo incontro risale a diversi anni fa. Fu dopo una presentazione di un suo studio, davvero stupefacente, condotto nello spazio. 

Ora mi fa davvero piacere condividere con i lettori la sua visione della ricerca medica e della comunità scientifica. 

Immagine dall’Ospite

Paolo Zamboni è un chirurgo e ricercatore italiano laureatosi presso l’Università degli Studi di Ferrara dove oggi è professore ordinario di Chirurgia Vascolare. È stato cofondatore e presidente della International Society for Neurovascular Diseases (ISNVD), società scientifica internazionale volta allo studio delle malattie neurovascolari. 

Professore, lei è stato insignito anche del titolo di Commendatore al Merito della Repubblica Italiana in riconoscimento del suo operato in campo medico-scientifico per i suoi studi sull’emodinamica venosa e in particolare per quella cerebrale. Uno studio complesso il suo che ha portato alla definizione della insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) che continua a essere sotto l’attenzione della comunità scientifica. 

La definizione del difettoso funzionamento delle vene giugulari, inizialmente da noi descritto nei malati di sclerosi multipla, è stata molto contestata dalla comunità neurologica. In realtà la controversia scientifica non era tanto sulla scoperta vascolare in sé, ma era dovuta alla applicazione di terapie chirurgiche endovascolari su questi pazienti. Nel tempo molti altri ricercatori si sono occupati di CCSVI, trovando impensate correlazioni delle giugulari difettose con cefalea, sindrome di Meniere, Alzheimer, Parkinson ed altre malattie neurologiche, di fatto aprendo una porta fino a quel momento mai varcata dalla comunità scientifica. Una nuova possibilità per contribuire alla conoscenza migliore di malattie in parte ancora misteriose. 

Nell’evento del quale parlavo nell’introduzione, presentò uno studio per degli esperimenti che furono eseguiti da Samantha Cristoforetti sulla base internazionale orbitante. Fu un’avventura davvero incredibile, può raccontarla ai nostri lettori? 

Il progetto Drain Brain fu una fantastica esplorazione scientifica che ci permise di comprendere il contributo della forza di gravità in particolare sulla circolazione cerebrale. La fortuna di poter disporre della collaborazione in orbita di uno scienziato aggiunto come la nostra Samantha Cristoforetti è stato determinante per il successo della missione. Gli esperimenti erano molto complessi dovendo io coordinare da Terra, in una base predisposta dall’Agenzia Spaziale Italiana, tre laboratori dislocati fra Danimarca e Stati Uniti oltre al modulo orbitante nel quale Samantha doveva eseguire gli esperimenti di fisiologia umana su se stessa. Indimenticabile, credetemi. 

Quell’esperienza divenne poi la base di una pubblicazione scientifica, ma del resto di studi scientifici ne ha pubblicati diversi: la ricerca è quella strada che può trasformare una ipotesi e far nascere una terapia. Quante pubblicazioni ha effettuato finora? 

Moltissime. Ma vede le pubblicazioni sono, nella mia testa, un modo di consegnare ad altri scienziati, specialmente ai giovani ricercatori, dati e documenti validati che divengono un patrimonio scientifico per procedere in avanti e migliorare le condizioni di vita dell’Umanità. I nuovi strumenti diagnostici che abbiamo usato nello spazio ad esempio li abbiamo ora adattati e li stiamo usando sulle persone malate. 

Copertina del libro (Mondadori)

Il nuovo libro nasce quando si è reso conto che la sua passione per l’arte non le impediva di avere comunque l’occhio clinico: riconosceva nelle opere pittoriche, malattie e morbi che ora sono conosciuti. Come le è nata l’idea di farlo diventare un libro? 

Il libro di fatto raccoglie tanti anni di osservazioni. Opere pittoriche viste da milioni di occhi in cui si celano segni di malattie dei soggetti ritratti, malattie dello stesso pittore, o addirittura cervelli nascosti in affreschi delle chiese. Non avevo mai avuto il tempo di scriverlo. E’ nato perché gli ho dedicato i lunghi week-end del lock-down. 

L’ osservazione medica ai nostri giorni è sostituita dall’indagini strumentali. Quanto è utile nella diagnosi precoce per le malattie anche una lettura attenta dei segni?

Come nel mio libro la diagnosi medica è un processo indiziario, dove fondamentale è l’osservazione medica ed il colloquio medico. Pensate che molto spesso la risposta di una diagnosi precoce è nel racconto del paziente, nelle sue parole e nelle sue abitudini. Un qualcosa che oggi si tende a trascurare trincerandosi dietro alle tecnologie. Un grandissimo errore e regresso.

Abbiamo parlato di occhio clinico, anche nella lettura delle opere d’arte. Il ricorso al Dottor Google può ritardare la possibilità di una diagnosi corretta?

Caro Gabrielli io credo che l’occhio clinico sia una fusione e di esperienza e di talento del medico. Così come un calciatore puó essere più bravo di un altro a tirare una punizione o a colpire con il tacco o con la testa, così ci sono medici più inclini all’osservazione e a cogliere l’aspetto decisivo. Le tecnologie possono solo servire a confermare il loro sospetto ed il loro ragionamento. Google non puó lontanamente avvicinarsi. Come capirete leggendo Nascoste nella Tela gli occhi vedono solo quello che conoscono.

Questo libro poi – tra le righe – ci racconta quanto le malattie facciano parte della vita, quanto l’emergenza sanitaria per la presenza di una nuova malattia non sia un evento poi così raro, anche se certo una pandemia è un evento meno frequente. Lei ha studiato anche la situazione generata dal Covid 19, giusto? 

Ho fatto orgogliosamente parte del gruppo dei 13 ricercatori italiani che per la prima volta in studi autoptici ho dimostrato il meccanismo delle rarissime complicanze da vaccinazione anti Covid. Quel contributo ha trasformato una drammatica reazione sconosciuta in una condizione ora riconoscibile e trattabile. 

A tutti questi studi, lei affianca anche l’attività accademica di preparazione delle nuove leve in medicina. La Pandemia ci ha mostrato in modo chiaro anche quanto sia fragile la salute e precario il nostro sistema immunitario davanti ad un agente sconosciuto. Cosa si può fare per aiutare il Sistema Sanitario Nazionale a suo avviso? 

Dobbiamo ritornare a pensare che Sanità ed Educazione devono essere le due pietre angolari che lo Stato deve assicurare ai cittadini. Il numero chiuso imposto sulle Lauree in medicina e sulle specializzazioni, ha fatto si che in questo momento di emergenza non abbiamo abbastanza medici sul campo. Non dobbiamo più erodere il miglior servizio sanitario nazionale del mondo.

Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità sociale e politica, portato alla ribalta da tutte le contraddizioni emerse con la pandemia che continua ad imperversare con le sue varianti.

In realtà lo è sempre stato, anche se la “lotta per il riconoscimento” era prima irreggimentata  in categorie più leggibili come quelle, ormai superate, delle classi sociali. Axel Honneth, teorico del riconoscimento, (concetto già trattato da Hegel), riflette su come “i conflitti del nostro tempo possono essere interpretati come uno scontro tra diverse idee di libertà” e su come la pandemia, invece di aumentare la consapevolezza della libertà “positiva”, ossia dell’autolimitazione intesa come un potenziamento della propria libertà personale (come evidenziato già da Hegel, avviene nell’amore e nell’amicizia), ha acuito quello di libertà “negativa” ossia l’esasperazione delle libertà individuali, tendenza già in atto da molto tempo nelle nostre società.

Oggi assistiamo al bellum omnia contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro  “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (anche se questo lo è sempre stato, adesso è una lotta pericolosa che coinvolge le Istituzioni).

Emblematico è in questo senso l’ultimo rapporto 2021 del Censis sullo stato sociale del Paese, dove il dato significativo che emerge è l’irrazionalità che ha infiltrato il tessuto sociale: per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. Il 5,8% è convinto che la terra è piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone. 

C’è da chiedersi perché tutto questo. Il Censis parla di aspettative soggettive tradite, che inducono le persone a rifugiarsi nel pensiero magico e sciamanico. 

La situazione è però più complessa e chiama in causa le radici stesse della democrazia. Come affermava John Dewey, la democrazia deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, ossia dal “popolo”, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui la nostra società è manchevole anche a causa del decadimento del sistema scolastico e universitario. Ma senza voler colpevolizzare sempre qualcun altro, manca anche la volontà delle singole persone di andare oltre gli echi e le false sirene, di approfondire e ricercare, superando l’infodemia al netto delle responsabilità dei sistemi dell’informazione. 

Si scambia infatti sempre di più la disponibilità di informazioni in una presunzione di conoscenza in ogni campo del sapere, in un “fai da te” dello scibile, ad uso e consumo del tutto individuale. 

Si pensi, anche in funzione dei bias e delle dissonanze cognitive o, più banalmente della credulità in persone non accorte o sufficientemente consapevoli, agli effetti nefasti o, semplicemente al disorientamento indotto da questo bombardamento incontrollato di informazioni.

Ormai, attraverso i social, si formano degli universi paralleli, dei convincimenti personali, dei pregiudizi, che sono spesso contro il senso scientifico e le regole stesse della vita comune.

Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza” (le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo). 

Ormai è preponderante il regno del privato e dell’individuale, dove c‘è sempre meno spazio per il riconoscimento dell’altro. Sempre Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e dunque facile preda delle false credenze e delle manipolazioni.

In tutto questo dobbiamo mettere il decadimento dell’Etica pubblica ed il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione ed appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza e, quando va bene, a pura governance amministrativa ma senza progettualità, anzi costretta ad ingaggiare competenze e prestigio dall’esterno, incapace di farsi classe dirigente. Mai così attuale la frase di De Gasperi: ” il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni”. Ma dove sono gli statisti in Italia? Tutto è teso al presente, all’immediato, come dice la filosofa Donatella Di Cesare, siamo in un’ “immanenza satura” dove non c’è più visione del futuro. 

Tra l’altro, da questo fiume di denaro che è il PNRR ci si aspetterebbe insieme ad una vera progettualità, più coraggio e generosità. 

In tal senso possono essere interessanti alcune delle proposte avanzate dal Forum delle Disuguaglianze Diversità.

Ecco perché è così importante il tema del riconoscimento, non solo da parte della Politica ma anche da parte delle singole persone, perché l’Altro siamo noi, non solo per la nostra stessa identità ma come esseri appartenenti ad un unico genere umano.

Non debemus, non possumus, non volumus” è la risposta che Pio VII diede all’ufficiale napoleonico che entrato al Quirinale, richiese la cessione dei territori dello Stato Pontificio all’Impero Francese. Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo. Era l’anno domini 1809.

Immagine dal Web

Mi sono chiesto, personalmente, quanto questa sensazione sia entrata dentro di me.
E devo riconoscere che le gambe effettivamente sono molli, ma la curiosità di andare avanti, la sensazione che “il meglio deve ancora venire” c’è sempre. Questa esperienza in questa nostra testata giornalistica non ne è solamente un sintomo, ma ne è la misura. Durante tutto il periodo pandemico, durante il Lockdown più duro – quello ci ha visto cantare dai balconi per intenderci – e durante la lunga fase di avvicinamento ad una nuova “normalità”, Condivisione Democratica è stata sempre attiva, anzi si è arricchita di nuove curiosità, di nuove firme, ed è diventata come un prolungamento di quei balconi che abbiamo usato per sentirci più vicini, anche se chiusi ognuno nella propria casa.
Mi è venuto naturale seguire curiosità, vecchie e nuove, e andare in profondità su argomenti che “prima” probabilmente avrei lasciato correre via. Ho reincontrato visi amici, anche se coperti dalle mascherine, e scoperto nuove amicizie, nuove energie.
Certo non è un posto “tranquillo“. Come in ogni redazione ci sono confronti, la documentazione di quello che si vuole portare al lettore, le corse per la pubblicazione, i miglioramenti dell’ultimo minuto sui singoli articoli.

Immagine dal Web

Anche questo articolo, del resto, nasce da questo processo di approfondimento. Partendo dall’articolo che ho citato prima, sono andato a leggermi altri articoli, studi psicanalitici che hanno cercato di dare una spiegazione a quel senso di abbandono. Sostanzialmente – davvero semplifico brutalmente – questo fenomeno può essere o “il rimbalzo” o un modo diverso di affrontare quello che negli USA hanno chiamato “the Great Resignation“, la “Grande Rinuncia”, un fenomeno che si è visto nei primi periodi del 2020: una impennata nelle cessazioni volontarie dal lavoro ed un aumento repentino delle separazioni e delle cause di divorzio.

Lo shock per il crollo del “tran tran” quotidiano ha dato a tutti noi il tempo di analizzare due false percezioni della realtà, quelle che gli psicologi chiamano Bias Cognitivi:

  • Il “Sunk Cost Bias” – il Bias dei Costi Irrecuperabili – secondo il quale poiché si è già sostenuto un “costo” (economico, di tempo, di emozioni) per ottenere qualcosa, quel qualcosa vada preservato anche se non più adatto, perché quanto profuso non può essere recuperato.
  • L'”Opportunity Cost Bias“, che da una scarsa percezione del fatto che qualsiasi scelta attuata implica sempre e in ogni caso un costo che si affianca al valore o al beneficio che si può avere.

Questi due Bias sono quelli che ci fanno continuare a far fare sempre le stesse cose, sono quelli che ci fanno rimanere nella nostra “Comfort Zone” anche se ci sta un pò stretta. L’insegnamento della Pandemia è che se tutto questo cambia, se la sciagura si abbatte sopra di noi (come in un film sui “disastri”, tanto in voga alla fine degli anni ’70), rimaniamo solo con le nostre forze e dobbiamo ripensare tutto.
E proprio in quel momento può scattare in noi, la risposta che citavo all’inizio: “Non debemus, non possumus, non volumus”.

Questo numero è dedicato al riconoscimento dell’altro, all’apertura verso le altre persone senza nessuna forma di pregiudizio, per questo mi fa particolarmente piacere ospitare il Dott. Sergio Valeri che proprio in questo periodo alla sua professione chirurgica ha affiancato un percorso di sensibilizzazione verso la cura e verso i pazienti, fondando una associazione che verrà presentata a breve e che ha come motto, bellissimo: “Rari, ma non soli”.
Lo incontro nel suo studio ed è sempre un piacere parlare con lui , perché lui, lo scopriremo nell’intervista, è davvero sempre in movimento, con la sua professionalità e il suo travolgente senso dell’ironia.
Ma prima di raccontare quello che ci siamo detti nel pomeriggio passato assieme, un passo indietro per raccontare chi è il nostro ospite: il Dott. Sergio Valeri si occupa principalmente di Chirurgia Oncologica ed in particolare di Chirurgia dei Sarcomi. 

Si laurea nel 1995 e si specializza in Chirurgia Pediatrica (2002) e in Chirurgia Generale (2015) e nel frattempo ottiene un Master di II livello in Chirurgia Pancreatica Avanzata (2014) ed uno in Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli (2017), lavorando comunque come Dirigente Medico presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma (dal 2008). Dal 2019 è Referente della Chirurgia dei Sarcomi presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. 

Dottore, un Curriculum davvero di tutto rispetto il suo. Immagino che nel frattempo, mentre conseguiva le varie specializzazioni, lei operasse, continuasse la sua instancabile attività in sala operatoria. Quante operazioni esegue? 

Caro Ing. Gabrielli grazie per l’opportunità offerta.

Immagine dell’Ospite

Lei ha detto il vero; durante il conseguimento delle varie specializzazioni e master, la mia attività operatorio continuava. La mia settimana lavorativa è composta di tre sedute di sala operatoria (8-20) in cui mediamente eseguo 5-6 interventi a seduta. Parliamo quindi di circa 18 interventi a settimana. “Fortunatamente” non si tratta sempre di patologia chirurgica complessa. A questo tipo di intervento infatti, vengono intervallati interventi di piccola e media chirurgia, durante i quali ho la possibilità di insegnare e far crescere i giovani chirurghi che lavorano con me. Non ci dobbiamo infatti dimenticare che lavoro in una struttura universitaria, la fucina quindi dei medici di domani.

A questo unisce le sue attività di divulgazione dentro e fuori le aule universitarie per la preparazione delle “prossime leve”. E’ così importante avere una equipe specializzata nella cura?

Come in parte anticipato nella domanda precedente, ho la fortuna e la responsabilità di un gruppo di lavoro, costituito da giovani medici in formazione a da neo-specialisti. Il gruppo e la realizzazione dello stesso, sono fondamentali. Da soli non si va molto lontano. Ed è per questo che dedico diverso del mio tempo lavorativo alla sua formazione. 

Immagine dell’Ospite

Solo in questo modo posso avere la certezza che il modus operandi sia sempre lo stesso. 

Ricordo nell’equipe, coordinata dalla Prof.ssa Rossana Alloni, il Dott. Luca Improta, la Dott.ssa Chiara Pagnoni, la Dott.ssa Michela Angelucci, la Dott.ssa Claudia Tempesta e la Dott.ssa Sonia Sabbatini.

Ma il mio obiettivo però non è solo “formare” o far crescere. 

Come dico sempre ai colleghi che lavorano con me, loro devono superare il “maestro”.

Quindi in sintesi direi che per affrontare i Sarcomi sia necessaria la preparazione di una equipe specialistica, ma anche la conoscenza da parte dei medici di base, per avere una tempestiva diagnosi di primo livello.

La ringrazio di questa domanda, che va a centrare due degli aspetti salienti della patologia di cui mi occupo. 

Immagine dell’Ospite

Il primo è la conoscenza, da parte dei Medici di Base, dell’esistenza dei Sarcomi. Solo in questo modo possono indirizzare il paziente in un centro di riferimento e quindi iniziare il corretto iter terapeutico. Da qui l’esigenza di un evento “formativo”, che ho organizzato ad Ottobre, e rivolto ai Medici di Medicina Generale. L’obiettivo era appunto renderli edotti sulla patologia e sui primi passi da compiere nei confronti di un paziente affetto da sarcoma.

Il secondo è l’importanza del centro sanitario di riferimento volto ad una patologia neoplastica, quale appunto i sarcomi, rara. 

I sarcomi degli adulti rappresentano circa l’1% di tutte le malattie neoplastiche. Per raro però non si fa riferimento alla scarsità di mezzi terapeutici, ma appunto ad un semplice dato epidemiologico. Si apprende quindi come sia indispensabile l’esistenza di un centro sanitario di riferimento, che contempli la presenza di tutte le figure sanitarie coinvolte nella cura dei sarcomi (oncologo, chirurgo, radioterapista, radiologo, anatomo-patologo, psicologo) e che sia collegato a tutti gli altri centri distribuiti sul territorio nazionale. Infatti solo dal confronto clinico tra i vari centri è possibile condividere esperienze, tecnica e evidenze scientifiche, principio cardine alla base della cura di qualsiasi patologia.

Immagine dell’Ospite

Con questa doppia visione, il Campus Bio-medico è diventato un Centro di riferimento a livello Europeo sul trattamento dei Sarcomi

E’ stato quello, mi riferisco all’inserimento del Campus Bio-Medico nella rete sanitaria internazionale Euracan sul trattamento dei sarcomi, un risultato ottenuto dopo 18 mesi di duro lavoro volti al miglioramento del servizio sanitario erogato ai pazienti con sarcoma, al perfezionamento del PDTA sui sarcomi (percorso diagnostico-terapeutico assistenziale) e successivamente al superamento di tutti i parametri clinici e scientifici posti quale conditio sine qua non per far parte della rete Euracan.

Quanto ha influito la pandemia su questo processo di identificazione tempestiva? L’emergenza Covid ha un po’ monopolizzato gli ospedali: pensa che ne risentiremo a livello di prevenzione?

L’emergenza Covid ha indubbiamente messo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. Uno dei tanti aspetti emersi durante la pandemia è stato quello, purtroppo, di rallentare un percorso schedulato di follow up di un paziente con patologia neoplastica. A mio avviso però l’esistenza dei centri di riferimento, quale in nostro, ha permesso, con enormi sacrifici, di poter “onorare” la campagna di follow up dei pazienti oncologici.

Questo momento storico ci ha mostrato cosa significa “la salute pubblica”: il Lockdown è stato un modo per proteggerci anche a discapito dell’economia. Ma proteggere la salute è anche un modo per rendere solida la nostra struttura sociale. La tempestiva permette di avere un alto livello di qualità della vita?

Immagine dell’Ospite

Domanda questa complessa, che non può certo essere evasa con una breve risposta.

La protezione e la salvaguardia della salute pubblica sono elementi imprescindibili alla base di un alto livello di qualità della vita. Ma la protezione della salute pubblica passa per diversi aspetti che vanno sempre garantiti. Mi riferisco alla possibilità di accedere alla cure per tutte le classi sociali, a prescindere dalla “posizione” economica o alla regione di appartenenza. E nello stesso tempo le cure sanitarie DEVONO essere all’altezza dei più alti standard professionali e scientifici. Come ottenere tutto questo? Con investimenti mirati, con una pianificazione “sanitaria” del territorio e con il RISPETTO della meritocrazia

Parliamo di malattie molto impattanti a livello sanitario, per costi elevati, ma anche personale, psichico, familiare.

La diagnosi di malattia oncologica spariglia tutti gli equilibri. 

E mi riferisco non solo a quelli economico-sanitari, ma soprattutto a quelli personali del paziente. Di salute non solo fisica, ma anche psicologica. E al peso che si riversa sulla famiglia. Peso che molto spesso non è possibile “condividere” con la società, in quanto mancante della giusta organizzazione. 

Il fenomeno della cosiddetta “emigrazione sanitaria” ne è un esempio.

Cosa può fare a mio avviso un medico? 

Essere un professionista serio, preparato e coscienzioso. 

Immagine dell’Ospite

Da qui nasce l’idea dell’Associazione dei Pazienti e dei familiari dei pazienti affetti da Sarcoma.

L’idea dell’Associazione Pazienti sarcomi dei Tessuti Molli nasce dallo stimolo di “dare” qualcosa in più ai pazienti affetti da questa patologia, e ai loro familiari. 

E’ infatti una Associazione di pazienti, rivolta ai pazienti. Il presidente sarà una paziente da me curata. 

L’Associazione si chiamerà SARKNOS. E all’interno del Consiglio Direttivo ci saranno altri pazienti.

Ho sempre pensato che il sentirsi parte di un gruppo, in cui il denominatore comune è la malattia, possa essere di aiuto per tutti i singoli componenti. 

Il mio sogno è che si possa raggiungere una tale alchimia all’interno dell’associazione tale che un singolo paziente che sta attraversando una fase negativa del suo percorso sanitario, possa trovare giovamento e aiuto anche soltanto confrontandosi con un altro paziente, che magari quella fase l’ha già vissuta.

Ci tengo a precisare inoltre che l’aiuto dell’Associazione non sarà “solo” per i pazienti. 

Penso infatti che anche i medici avranno la fortuna di migliorarsi grazie al confronto diretto con i pazienti.

L’associazione verrà presentata a breve con un evento.

L’evento a cui lei fa riferimento e che si terrà con l’inizio dell’anno nuovo, ha diverse finalità. La prima è quella di far incontrare e riunire tutti i pazienti affetti da sarcoma e da me operati presso il Campus Bio-Medico. L’evento infatti è “ritagliato” solo per loro. Al suo interno ci saranno momenti divulgativi, non scientifici, sulla malattia intervallati da momenti di assoluto svago grazie alla presenza di attori comici e cantanti.

Altro motivo è, come detto, la presentazione dell’Associazione con le sue finalità. Mi auguro quindi che ci possa essere la più ampia accoglienza da parte dei pazienti.

Ultima finalità, ma per me molto importante, è il desiderio di poter rivedere tutti i pazienti da me curati. Le confesso che sono un sentimentale e con tutti i miei pazienti sono riuscito ad instaurare un rapporto particolare, intenso, diretto. Il poterli rincontrare sarà per me motivo di gioia.

So che lei ha avuto un tentennamento nella scelta di medicina all’inizio del suo percorso universitario. Ora, da Ingegnere a Medico, ma perché ha scelto la Medicina?

Le confesso che non era un sogno che nutrivo da bambino.

La scelta di fare Medicina la si deve a mia madre. 

All’età di 18 anni, finito il Liceo, dovevo scegliere in quale facoltà iscrivermi. La mia scelta cadde su Veterinaria (ho sempre amato gli animali). A quel tempo la facoltà “migliore” era a Perugia, a circa 180 Km da Roma. Mia madre, donna apprensiva, si oppose alla scelta e opto per Medicina e Chirurgia.

Ora, a distanza di più di 30 anni, ringrazio quel suo materno ”ostruzionismo”.

Per maggiori informazioni si possono consultare i siti internet dedicati al Dott. Sergio Valeri e ai Sarcomi.

Sono le 22 di un lunedì sera, anzi del lunedì sera prima di Natale, attendo Marta mentre preparo due calici di Valpolicella, dopo queste giornate intense in profumeria, è più che meritato. Marta, con il suo ciuffo colorato e lo sguardo vivace, sembra che non conosca il significato della parola “stanchezza”, entra in casa con il suo solito entusiasmo. Il cane le abbaia, il freddo pungente le è rimasto incollato addosso. Prendo il quaderno e la biro e ci accomodiamo. Iniziamo con un brindisi a noi. La ringrazio per avermi concesso questa serata, quest’intervista a cui tengo particolarmente. Marta, che passa le giornate insieme a me tra profumi, creme e prodotti di bellezza, in realtà inizia il suo lungo percorso come criminologa e contemporaneamente, sostenuta da una continua instancabile formazione, si occupa anche di uno sportello antiviolenza. Stasera, insieme, proviamo a scoperchiare questo “vaso di Pandora” come ama definirlo lei. 

Logo AIED (dal sito Web)

L’associazione per cui lavora è la AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica), che ha sede a Roma, e nasce nel lontano 10 ottobre 1953 ad opera di un gruppo di giornalisti, scienziati e uomini di cultura, di diversa estrazione politica, ma con una comune ispirazione laica e democratica. 

Sul sito ufficiale dell’AIED (www.aied-roma.it) tra gli obiettivi posti troviamo:

• diffondere il concetto ed il costume della procreazione libera e responsabile;

• promuovere e sostenere iniziative rivolte a migliorare la qualità della vita ed a tutelare la salute della persona umana, a livello sia individuale che collettivo;

• combattere ogni discriminazione tra uomo e donna nel lavoro, nella famiglia, nella società, ed ogni forma di violenza sessuale e di violenza sui minori, fornendo assistenza e tutela -anche legale- alle persone che ne siano vittime;

• promuovere e realizzare attività di formazione e di aggiornamento professionale sulle tematiche dell’educazione sessuale del personale docente delle Scuole e degli Istituti di istruzione di ogni ordine e grado, promuovendo altresì corsi di educazione sessuale per alunni e genitori.

La AIED si occupa inoltre di vari progetti nelle scuole primarie, come il riconoscimento delle emozioni, l’educazione affettiva, il riconoscimento dell’altro (empatia). Progetti che secondo Marta andrebbero fatti ovunque. 

Immagine dal Web

Marta, tu fai un secondo “lavoro” bellissimo, e sono davvero contenta di poterne finalmente parlare con te. Lavori già da parecchi anni presso lo sportello antiviolenza dell’AIED, a Novara, l’unico centro antiviolenza dell’associazione.  Raccontami come funziona.

È principalmente uno sportello d’ascolto, che lavora in sinergia con il CAV (Centro Anti Violenza) gestito dal comune, a cui compete poi l’effettiva messa in protezione delle donne, perché banalmente è l’unico che ha i fondi per farlo. All’AIED arriva solo una piccolissima parte dei soldi stanziati dalla regione e naturalmente non sono mai sufficienti. Noi siamo 5 operatrici di sportello, di cui una assistente sociale (l’unica retribuita) e due psicologhe. Abbiamo un telefono, al quale siamo reperibili tutto il giorno, che teniamo a turno, mentre siamo raggiungibili fisicamente il lunedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 e giovedì dalle 9 alle 12, solitamente su appuntamento. 

C’è inoltre un numero nazionale, il 1522, che dà alle donne i riferimenti della zona, che può attivare comunità o gli alloggi del comune. Per quanto riguarda noi, la donna ci contatta e noi ci occupiamo di ascoltare le sue necessità per fare poi una valutazione sulla gravità della situazione e stabilire un piano per andare in contro alle sue esigenze e problematiche. Chiediamo alle nostre assistite quali siano le loro aspettative in merito a questi incontri, se vogliono mettere sé stesse e i figli al sicuro, se vogliono separarsi, o solo essere ascoltate. Si può poi continuare ad offrire uno spazio di ascolto, un aiuto psicologico o un aiuto legale, naturalmente gratuiti. In alcune occasioni riusciamo a creare un gruppo di auto mutuo aiuto, in cui le donne si confrontano e si supportano vicendevolmente, mediate dalla psicologa. In casi gravi, ci si rivolge alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali o al CAV, che si attiva per la messa in protezione, attraverso alberghi momentanei, comunità o alloggi. 

Spesso vengono familiari o amiche a richiedere il nostro aiuto, ma abbiamo bisogno che sia la vittima a contattarci, altrimenti abbiamo le mani legate. Solo in caso di minori possiamo pensare di fare una segnalazione immediata agli assistenti sociali, che hanno poi la facoltà di intervenire. 

L’associazione è di per sé un consultorio, questo ci permette di auto-sovvenzionarci, in parte, ma anche di mantenere un profilo basso (non c’è scritto da nessuna parte che lì si trovi uno sportello antiviolenza). Questo consente alla donna di recarsi da noi in tutta tranquillità, anche nel caso venisse “controllata” dal marito/compagno. 

L’obiettivo principale per tutto il tempo in cui abbiamo in carico una donna vittima di violenza è, una volta garantita la messa in sicurezza, il suo EMPOWERMENT, ovvero la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.

(Immagine dal Web)

Cos’è davvero la violenza sulle donne? Quando si pensa a questo si pensano a clamorosi fatti di cronaca, a donne picchiate, a ossa rotte e occhi neri.

Per spiegarlo con “leggerezza” diciamo, consiglio sempre di vedere il film “TI DO I MIEI OCCHI” di Iciar Bollain perché te lo fa capire prima attraverso le emozioni e poi sul piano razionale. E credo sia importante. Eliminare i pregiudizi per capire a fondo. 

La donna subisce violenza quando le viene esercitato potere, controllo, prevaricazione, quando viene agito l’annullamento della persona con superamento dei limiti e quando vi è squilibrio delle posizioni. La violenza domestica è ogni tipo di violenza fisica, psichica, economica e sessuale all’interno di una relazione affettiva attuale o passata. La violenza psicologica, il ricatto emotivo, le intimidazioni sono forme di violenza altrettanto pericolose della violenza fisica, perché minano l’autostima, l’identità, la personalità della vittima.  È un’azione reiterata nel tempo che porta la vittima ad una condizione di instabilità emotiva e mentale. Si basa su tecniche, spesso inconsce ma ben precise, di oppressione, privazione di potere, isolamento del partner da altri legami significativi e supportivi, costante svalutazione, derisione, gelosia, minacce ripetute di abbandono e annullamento. Si arriva a creare un vero e proprio clima di terrore (correlato ad un’alta percentuale di suicidi). La vittima cade gradualmente in una spirale di violenza che parte dall’intimidazione e dal controllo, si evolve nella svalorizzazione e nella segregazione, fino all’aggressione fisica e sessuale, per poi avere la riappacificazione (chiamata anche luna di miele) spesso innescata dalla minaccia della vittima di andarsene, e che passa inevitabilmente attraverso il ricatto dei figli. Si chiama ciclo della violenza perché ha una natura ripetitiva, in cui la fase ‘luna di miele” dura sempre meno perché il maltrattante teme l’abbandono, ed in effetti, è il miglior momento per la vittima per chiedere aiuto . 

Agita prevalentemente dagli uomini, è una delle più frequenti violazioni dei diritti umani presente in tutti i paesi, culture, etnie, classi sociali, livelli culturali e di reddito e fasce di età. Dal 20% al 50% delle donne ha subìto una qualche forma di violenza da parte di qualcuno dei componenti della cerchia familiare. Troppo spesso la violenza domestica non viene denunciata né documentata per diversi motivi, tra cui le convinzioni culturali, la paura delle ritorsioni, ma anche a causa di operatori non adeguatamente formati per registrare i dati in maniera conforme.

Chi si rivolge al vostro sportello? Qual è il profilo della donna vittima di violenza? E quale è il profilo del maltrattante? Quanta consapevolezza c’è dietro a ciascun ruolo? 

Allo sportello si rivolge una media annuale di 60 donne, quasi tutte del novarese. Hanno un’età media compresa tra i 45 e i 50 anni, di etnie diverse e che arrivano da contesti culturali ed economici molto diversi. Ci arrivano donne italiane come donne straniere, in egual misura e quasi tutte hanno figli. In comune hanno tanti anni di isolamento, denigrazione e sensi di colpa. La vittima vive in uno stato di tensione costante perché quello che all’inizio poteva sembrare l’uomo perfetto si trasforma in un trappola fatta di violenza inaspettata, perpetrata da colui che ha scelto la vittima come compagna di vita e sostiene di amarla.

La vittima sperimenta negli anni un crescente senso di inadeguatezza e di disorientamento, che non le permette di fronteggiare in maniera congrua i maltrattamenti, né di sottrarsi alla minaccia di violenza perpetrata costantemente dal partner. La teoria dell’attaccamento di Bowlby e gli approfondimenti sulle funzioni metacognitive contribuiscono a chiarire come la spirale, di cui abbiamo parlato prima, diventi stabile nel tempo e come le emozioni disfunzionali non regolate, tipo la rabbia e la paura, costituiscano i denominatori comuni nei legami di coppia violenti, a prescindere dalla storia di vita e dalle caratteristiche dei partner. La spirale della violenza è dominata dal senso di impotenza della vittima rispetto alla possibilità di modificare la situazione e di uscirne. La teoria dell’attaccamento evidenzia quanto la relazione violenta sia caratterizzata dal fatto che le vittime si sentano spesso legate ai loro partner abusanti. Sono le stesse situazioni di pericolo e paura ad attivare paradossalmente il sistema di attaccamento creando legami forti, anche quando la figura dell’attaccamento è la fonte stessa di minaccia. La vittima sente di non poter ricevere un trattamento migliore in altre relazioni e finisce per incolparsi dell’abuso subìto. Si crea una dipendenza che genera ansia nei confronti della separazione. C’è una grande difficoltà che non viene mai percepita dall’esterno. Molto spesso neanche i genitori o gli amici sono consapevoli di ciò che accade nell’ambito familiare della vittima. E quando c’è un tentativo di richiesta di aiuto spesso viene preso sottogamba, sminuito o addirittura la vittima rischia di essere accusata di essere “eccessiva”. Purtroppo le evidenze italiane parlano di una quota significativa di violenza familiare che resta in ombra, che non viene denunciata alle autorità e non conduce ad una richiesta di aiuto. Un fattore importante da considerare è la prevenzione : la possibilità di individuare il rischio di violenza nelle relazioni di coppia è nevralgica in quanto il fenomeno sta rappresentando una vera e propria emergenza sociale. 

Lo scopo principale dei maltrattanti è il totale controllo della donna. La violenza nasce da emozioni disregolate , carenza nella capacità di mentalizzazione e sintonizzazione. Le radici della distruttività vanno cercate nel fallimento della funzione difensiva dell’aggressività e nella fragilità del sé,  che può dar luogo a comportamenti violenti verso le parti vissute come minacciose. Ne deriva una perdita della capacità riflessiva, ovvero che considera l’altro come persona in grado di provare effettivo dolore o sofferenza psichica e/o fisica. In questa condizione il controllo degli impulsi aggressivi, che deriva in buona parte dallo sviluppo di capacità empatiche e di identificazione, viene annullato. 

Da questo puoi facilmente dedurre quanto in realtà manchi la consapevolezza in entrambi i casi.

Esiste un centro a Torino, che si chiama “Il Cerchio Degli Uomini” che offre una sorta di prevenzione della violenza domestica, ma come puoi immaginare l’affluenza è nettamente inferiore rispetto al corrispettivo femminile. E la partecipazione è assolutamente volontaria. Quando invece bisognerebbe fare molta più prevenzione, partendo soprattutto da alcune categorie sociali, prettamente maschili e che sono in possesso di potere e armi. La sensibilizzazione e l’educazione alle emozioni fin dall’infanzia sono strumenti fondamentali in questa battaglia. 

Prima hai detto che quasi tutte le donne che si rivolgono allo sportello hanno figli. So bene che questo è l’argomento che più ci sta a cuore. Nell’immaginario collettivo i figli sono quella cosa che va accudita e protetta dai mali del Mondo. Come crescono questi bambini? 

Nel caso dei bambini si parla di violenza assistita intra-familiare, che è l’esperienza di qualunque forma di maltrattamento (fisico, verbale, economico, sessuale) subita da una figura affettivamente significativa (genitori, fratelli, nonni…). Può essere diretta, e vedere il bambino presente agli episodi di violenza, o indiretta, in cui il bambino ne percepisce gli effetti attraverso i segni fisici o comportamentali (paura, ansia, panico). I bambini, nel vedere i genitori, o le figure di riferimento, da cui dipendono, provano disorientamento e paura. Perché hanno, da una parte, una figura minacciosa e violenta e dall’altra disperata, impotente e spaventata. Questi bambini non impareranno a gestire le loro emozioni in maniera corretta, penseranno che sia normale subire minacce, violenza e disprezzo e dunque diventare a loro volta adulti violenti o al contrario sottomessi. Impareranno a minimizzare la propria sofferenza perché sentono di non poter chiedere aiuto ai genitori. 

Per analizzare questo dobbiamo pensare prima a tutte le conseguenze negative che la donna deve affrontare: traumatizzazione cronica, sindrome da stress post traumatico e la compromissione delle capacità di accudimento della prole e di attenzione ai loro bisogni. 

E, sebbene le madri si preoccupino sempre che i figli non si accorgano delle violenze, vengono giocate da numerose emozioni negative, come sensi di colpa, vergogna, rabbia, paura, umore depresso, innescando in un secondo momento meccanismi di distacco dal proprio sentire, e diventando, anche con i figli insensibili, estraniate dagli altri e disinteressate. Vivono però in uno stato fisiologico di costante vigilanza e allerta e sono ipersensibili ai segnali di pericolo, rischiando di sviluppare reazioni di rabbia a fronte di stimoli lievi.

Un attaccamento sano con il caregiver è importante per lo sviluppo delle capacità fisiche e mentali dei figli. Determina la fiducia negli altri, regola le proprie emozioni, permette di interagire in maniera adeguata con il mondo  e permette di prendere consapevolezza del proprio valore come individui. In situazioni di violenza domestica, le figure di attaccamento sono instabili, imprevedibili o addirittura minacciose. Il bambino sente che non può fare affidamento su di esse, che dipende, per la sopravvivenza, da figure che sono una minaccia per la sua salute mentale e fisica e non ha modo di sottrarsene. Sviluppano strategie mentali intense per superare il paradosso e la paura costante.  

Durante la crescita si può sviluppare una sintomatologia più o meno grave, che comprende disregolazione delle emozioni (incapacità di tollerare, modulare o superare emozioni negative come paura, rabbia e vergogna), problemi nella regolazione delle funzioni corporee (disturbi del sonno e dell’alimentazione, iperreattività o bassa reattività agli stimoli circostanti e difficoltà di adattamento ai cambiamenti, sintomi dissociativi e bassa consapevolezza del proprio corpo, problemi somatici (mal di testa), difficoltà nel riconoscere e descrivere le emozioni (soprattutto in età adolescenziale), ridotto controllo degli impulsi, mancanza di attenzione, condotte aggressive, costante stato di allerta (ma ridotta capacità di identificare correttamente ed evitare il pericolo), comportamenti di autoconsolazione o autolesionismo, disturbi nella percezione del sé e nelle relazioni ( sentimenti di vergogna cronici, odio verso se stessi, sfiducia, diffidenza e timore verso gli altri e tendenza all’isolamento sociale). Sì possono addirittura avere regressioni a precedenti stati di sviluppo.

Non fatico ad immaginare le difficoltà a cui andate in contro in questa vostra missione, dalla mancanza di risorse, alla burocrazia, all’aspetto umano ed emotivo, con chi si presenta allo sportello e con chi non dà il giusto valore al vostro lavoro. Ci va sicuramente una grande motivazione per andare avanti, considerando anche che il ritorno economico è inesistente nella maggior parte dei casi, dato che parliamo di volontariato, e assolutamente inadeguato come lavoro remunerato. 

È un lavoro frustrante in effetti, con rare, ma importanti soddisfazioni. Ti ritrovi a fare i salti mortali tra raccolte fondi e burocrazia, e dopo tanta fatica, noi e queste donne ci vediamo sbattere pure delle porte in faccia. Affrontare processi infiniti. Aspettare l’intervento degli assistenti sociali che sono oberati di lavoro e ai quali manca la specificità necessaria. Non dico niente di nuovo quando sottolineo l’importanza di snellire alcune procedure. Alle volte è di vitale importanza. Pensa ad una donna, che dipende economicamente dal marito, come la maggior parte delle donne vittime di violenza, che ha bisogno di una consulenza legale per sporgere denuncia contro il marito e deve prima andare a fare l’ISEE. Laddove è possibile infatti cerchiamo di indirizzarle verso la separazioni civile, sempre sostenute da una consulenza legale gratuita, perché attraverso la denuncia e i processi si inizia un percorso troppo lungo e complicato, soprattutto per un soggetto fragile. Non molto tempo fa si è rivolta a noi una giovane donna del Congo, che doveva divorziare dal marito e che aveva ancora le carte del matrimonio nel suo villaggio, custodite dal “santone”. Nel mentre lei era in Italia, a vivere in una casa con i bambini e il marito chiuso a chiave in una camera, che le lasciava il frigo vuoto, non le dava soldi per comprare cibo o pannolini per i bambini. Per risolvere situazioni così, devi poterti affidare a tutta una serie di servizi che devono funzionare. 

25 novembre, La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ne vogliamo parlare? 

Sarebbe un evento meraviglioso, se si facesse meno politica e si pensasse in modo più pratico e propositivo. Per esperienza personale ti posso dire che è davvero inconcludente. Che poi parlarne possa essere una campagna di sensibilizzazione va bene, ma le organizzazioni che si occupano davvero di difendere e sostenere le donne, con migliaia di volontarie, hanno bisogno di fondi, di aiuti concreti, di una gestione più oculata del soldi , che spesso vengono fatti figurare in cose inesistenti. C’è bisogno di formazione, sia sul campo, sia per essere più efficienti nel presentare richiesta per i fondi Europei (conoscere i bandi, poter presentare dei progetti ben strutturati, utilizzare poi i fondi in maniera ottimale). 

Questo è il numero di Condivisione Democratica con il quale si chiude l’anno e, come ogni anno, questo è il momento di bilanci e di buoni propositi e – per alcuni soprattutto – quello degli Oroscopi.

Questo numero è dedicato alla mancanza di pregiudizio, lo so benissimo, ma in effetti quale modo migliore di raccontare il pregiudizio se non immergendosene dentro? E gli oroscopi sono la summa del pregiudizio! 

Tutto, per gli oroscopi, è in qualche modo premeditato, ognuno di noi, in qualche modo, è predestinato a comportarsi in un certo modo, seguendo le indicazioni del proprio segno zodiacale: per chi ci crede, è sufficiente conoscere il giorno di nascita – e per i più fini anche l’ora di nascita – per avere una valutazione dell’animo umano di chi è di fronte, conoscerne le propensioni e le peculiarità personali.

Per preparare questo oroscopo mi sono documentato, ho studiato il piano astrale e cercato di comprendere bene gli influssi dei vari astri sulla psiche e sul destino umano.

Questa, in sintesi, la mia previsione astrologica per i vari segni zodiacali per il 2022. Un Oroscopo scritto da chi non crede negli oroscopi.

Vogliamo provare a capire se funziona? Proviamo a vedere se ho indovinato il vostro futuro fra sei mesi o un anno!

ARIETE

Ariete è il segno che più di altri è governato da Marte, dall’influsso combattivo e ostinato del Pianeta Rosso, ma anche dal Dio della Guerra. Dio della Guerra, ma capace di dare passioni travolgenti.

Il 2022 sarà un anno importante, di passaggio, di lavoro preparatorio ma con tante soddisfazioni sul lavoro. La pazienza sarà la dote richiesta principalmente. Tra Gennaio e la prima metà di Febbraio si vedranno i risultati del lavoro fatto nel frattempo che poi ripartiranno verso Dicembre in ottica del nuovo anno. Nel mezzo, un’estate coperta da Giove che darà un pò di soddisfazioni per lo studio e la programmazione della professione, con una strizzatina d’occhio ai sogni, ai progetti e alla fortuna, che può arrivare ad Agosto.

Tanta pazienza e si vedranno i frutti.

TORO

Nel 2022 un occhio particolare alle cose pratiche, alla concretezza, al lavoro e agli affetti consolidati. Non ci saranno passioni travolgenti, ma la scoperta – o la riscoperta – di affetti genuini e profondi. Ma a guardare le influenze di Venere e Marte che danzano sui vari quadranti, ci saranno situazioni particolari diverse volte (Febbraio, Aprile, Giugno e ad Agosto) e occasioni da prendere al volo. Da Agosto in poi, tanta attenzione alle cose pratiche sul lavoro, per il forte influsso di Giove.

Un buon lavoro, a testa bassa.

GEMELLI

Non sarà semplice aspettare, ma da Agosto in poi, Giove cambierà l’impressione data fino a quel momento e le cose inizieranno a girare per il verso giusto: Saturno farà cadere qualche regola (qualche senso di colpa?), Marte metterà nuova forza e nuova energia (Inizia a programmare le vacanze, perché saranno molto rigeneranti!) tanto sulle cose pratiche del lavoro, quanto nelle passioni che saranno solide e brucianti. La Luna, l’astro che più di tutti porta all’introspezione, ai racconti notturni, farà visita a Marzo e Settembre, per giudizi importanti.

Una liberazione e nuove opportunità.

CANCRO

Anno di lavoro duro, il 2022 per il Cancro, con Giove che in trigono da una forte influenza da Gennaio a Maggio e poi da Ottobre fino a fine anno, quindi un bel pò di tempo a disposizione per progetti e per raccogliere i frutti di quello che si fa. Estate fiacca sul lavoro ma interessante per i progetti in due da Giugno fino a fine Luglio, dopo un inizio di anno non proprio esaltante. Un Compleanno non scoppiettante, insomma, ma con belle soddisfazioni.

Tempo per nuovi progetti.

LEONE

Con il 2021 si chiude un capitolo faticoso, con poche emozioni. Giove smette di essere in opposizione mentre Saturno rimane ostinatamente contrario, complicando e rallentando i rapporti importanti, lasciando spazio a piccole distrazioni negli affari di cuore. Forse da Agosto in poi, Marte potrà dare nuova energia, capace di far superare le difficoltà.

Sul lavoro però finalmente qualcuno prenderà l’iniziativa, mettendo a frutto promesse fatte da tempo, ma attenzione: Mercurio sarà capace di giocare brutti scherzi e bisogna mettere a freno le parole tra maggio e giugno.

Energie per una costruzione elaborata.

VERGINE

Un anno segnato da Giove: lui porterà buone notizie per iniziative sul lavoro (tra maggio e luglio) alle quali darete un apporto controllando o supervisionando, sempre lui porterà occasioni per il cuore nei primi 5 e negli ultimi 3 mesi dell’anno. Ma a complicare le cose ci sarà Marte che da agosto metterà alla prova la vostra pazienza. Cercate di sfruttare il brevissimo tempo che Venere e Mercurio daranno nei primi tre mesi per sedurre: Mercurio è il messaggero degli Dei, con le ali ai piedi.

Cogliete il momento propizio senza esitazioni e poi costruite per bene.

BILANCIA

Il 2022 non sarà un anno eccezionale per gli amici della bilancia ma i primi mesi saranno davvero molto interessanti, perché permetteranno di disinnescare potenziali problemi: un dettaglio o una piccolezza tra Gennaio e Marzo potrebbe non sfuggire all’occhio attento di Giove in trigono.

Attenzione alle tensioni del cuore a Giugno, perché se superate bene, da Agosto ne vedrete i benefici, con Mercurio che a fine Settembre potrebbe accorciare distanze esistenti.

Occhio ai dettagli.

SCORPIONE 

Marte, vostro astro ispiratore, vi dona combattività e sensualità e quest’anno non sarà da meno. Nei primi 3 mesi Venere vi darà fascino per nuove conquiste o nuova linfa nei rapporti consolidati. Nel lavoro un po’ di sana conflittualità dialettica che vi darà modo di mettere in evidenza il vostro impegno, ma attenzione a non cadere nella polemica. La luna di febbraio suggerisce di verificare dei bilanci, o lo stato di avanzamento di lavori, mentre quella di fine luglio di tirar fuori le energie per cambiare qualcosa.

La consapevolezza di cambiare qualcosa e di valutare le proprie forze.

SAGITTARIO

Un anno intenso, faticoso, burrascoso, di cambiamento per gli amici del Sagittario. Fino a Maggio grande confusione tra cambi di rotta repentini dovuti al veloce Mercurio che farà andare sull’ottovolante l’umore, il lavoro e il cuore. Da metà Maggio a metà Ottobre grandi passioni e grande fantasia, grande creatività ma attenzione a Marte che da Ferragosto renderà tese tutte le intese a due e toglierà molte energie ma non la voglia fare bene.Attenzione ai noviluni di fine Maggio e di fine Novembre, ci sono novità.

Imparate a riconoscere i momenti propizi per sfruttarli nei momenti dissonanti.

CAPRICORNO 

Il 2022 inizia decisamente con il piede giusto regalando agli amici del capricorno un tempo importante per i sentimenti e anche per il lavoro, peccato poi si perda da marzo fino a fine ottobre. Fate subito incetta per consolidare il vostro rapporto. Tra Giugno e Settembre alcune sfide sul lavoro da cogliere rapidamente, senza tirarvi indietro. 

Attenzione a gestire le vostre energie dopo le vacanze perché sarà più difficile recuperare gli sforzi fisici.

Attenzione alle parole, ché non volano e possono essere pesanti.

ACQUARIO 

possiamo dirlo sicuramente il 2022 non sarà affatto un anno brutto per il Capricorno, anzi. Capirá come amarsi, fin dei primi mesi del nuovo anno, solo così si potranno avere rapporti schietti e solidi sia in amore che sul lavoro. Mercurio darà una mano a risolvere dei piccoli problemi a febbraio giugno e settembre. Dal 21 agosto Marte darà una mano per valutare le azioni migliori e darvi coraggio e determinazione.

Libertà di fare, e anche di sbagliare.

PESCI

Sembra proprio che il 2022 sarà un anno particolarmente fortunato per gli amici dei pesci. Mercurio Semplificherà lo stare insieme nei primi di marzo nella seconda metà di aprile e poi luglio, ma attenzione da Agosto, dal 21, perché Giove sarà in opposizione tanto da rendere difficili anche situazioni apparentemente semplici nelle mura di casa. Cercate quindi di dare il vostro meglio entro la metà di maggio in modo da sfruttare questo cielo particolarmente fortunato senza tralasciare occasioni.

Tanta fortuna, ma in breve tempo: la capacità di cogliere le occasioni, e di crearle.

Le statistiche ufficiali dipingono una realtà assai preoccupante. D’altronde, è in atto un cambiamento culturale lento ma, a quanto pare, inesorabile. Prova di ciò sono le diverse iniziative intraprese negli ultimi anni per contrastare il fenomeno: dalla scuola al quadro normativo di riferimento e perfino alla raccolta unificata dei dati mirata all’attuazione di politiche informate. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa María Soledad Balsas, ricercatrice al Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET).

La violenza sulle donne è purtroppo un fenomeno molto diffuso a livello mondiale che però può assumere diverse caratteristiche a seconda dei contesti socioculturali. Qual è la situazione in Argentina?

Il tema della violenza sulle donne in Argentina ha acquisito molta visibilità sociale, soprattutto negli ultimi anni. Le donne possono essere vittime di diversi tipi di violenze: sia fisica che psicologica, a scopo sessuale oppure economica e patrimoniale e addirittura quella simbolica. Nel 2020, l’ammontare delle vittime dirette di femminicidi, l’espressione più estrema di ogni forma di violenza contro le donne, sono state complessivamente 250, ovvero 1,09 persone ogni 100.000 femmine. Nelle statistiche vengono considerate donne, travestite e transessuali. Si tratta per lo più di persone tra i 35 e i 44 anni d’età che sono state uccise spesso dai propri partner oppure dagli ex partner. Nel 86,05 per cento dei casi erano persone che avevano bambini e/o adolescenti a carico. 

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Tra il 2013 e il 2018, sono state identificate 242.872 donne sopra i 14 anni che si sono rivolte ai servizi sociali, alla polizia, alla giustizia, e al pronto soccorso in qualità di vittime di violenza di genere. Nel 86 per cento dei casi vengono identificate appunto come vittime di violenza psicologica, intesa come il danno emotivo oppure il venir meno dell’autostima per via di minacce, umiliazioni di ogni tipo e perfino l’isolamento. Particolarmente rilevante risulta la situazione delle donne al di sopra dei 50 anni, che nel 48,2 per cento dichiarano subire violenza da parte dei propri figli. Nel 97,6 per cento dei casi segnalati la violenza contro le donne accade in ambito domestico. 

Cosa è stato fatto per ribaltare queste cifre drammatiche?

-immagine dal Web

Per contrastare questi dati, sono state intraprese diverse iniziative che puntano a garantire la parità di genere in diversi ambiti. A livello istituzionale, negli ultimi 15 anni sono state approvate diverse leggi con evidente prospettiva di genere, l’ultima di cui è stata quella sull’aborto, passata a dicembre scorso. Un’altra legge (27.452/2018), d’importanza strategica secondo me visto l’ammontare di vittime a carico di minorenni, stabilisce un compenso economico pari a una pensione minima per i figli e le figlie delle vittime di femminicidio. Si conosce come “legge Brisa”. Brisa Barrionuevo aveva 3 anni quando sua madre, Daiana Barrionuevo, è stata ammazzata da suo padre e buttata al fiume, delitto per cui è stato condannato all’ergastolo. Sua zia si è fatta carico di Brisa e di altri due suoi fratelli. Ma avendo già tre figli non era facile per lei provvedere economicamente. Da questo caso è nata l’iniziativa legislativa.

Poi, la cosiddetta “legge Micaela” (27.499/2019), una giovane di 21 anni, attivista del movimento femminista “Ni una menos”, che è stata uccisa da un uomo condannato in precedenza per due violenze sessuali e reso libero, scatenò un intenso dibattito sociale sulle responsabilità dello stato in merito. Da questo dibattito è sorta questa iniziativa legislativa che prevede corsi di formazione obbligatori per i dipendenti pubblici appartenenti ai tre poteri dello Stato, sia per conoscere il quadro normativo di riferimento che per diffondere buone pratiche amministrative che riguardano la violenza di genere e il ruolo della donna nella società in generale. 

Un altro punto di svolta a livello istituzionale è stata l’approvazione nel 2006 della legge 26.150 che prevede nei diversi livelli del sistema educativo, dalla scuola dell’infanzia in poi, degli spazi formativi che promuovano la cura del proprio corpo, la consapevolezza sulla natura dei rapporti interpersonali, i diritti sessuali e riproduttivi, gli stereotipi di genere, ecc. Questa iniziativa rientra nell’ambito dei diritti dei bambini, le bambine e degli adolescenti. Così si punta su un cambiamento culturale a lungo termine i cui primi risultati incominciano a intravedersi tra le nuove generazioni. 

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A Suo avviso, il disagio socioeconomico può essere una chiave per interpretare questo fenomeno?

Infatti, si tratta di una realtà che tende a colpire le aree più povere ma, va anche detto, non in maniera esclusiva. L’anno scorso, ad esempio, l’opinione pubblica è rimasta sconvolta dall’uccisione di Silvia Saravia (69) in Neuss, una donna di alta società che è stata ammazzata dal marito Jorge Neuss (72), un noto imprenditore che si è suicidato poco dopo. E’ significativo notare il trattamento che questo caso ha avuto nei media argentini con relazione ad altre vittime di violenza di genere. A differenza dei connotati sessuali che presentano le uccisioni di donne di classe media e bassa, in questo caso la vittima è stata resa piuttosto invisibile, mettendo in evidenza un certo “patto di silenzio di classe”.

Come ha inciso la pandemia nella situazione che Lei descrive?

Il tasso di vittime dirette durante il confinamento è rimasto alquanto inalterato con relazione agli anni precedenti. Non vi sono ancora a disposizione dei dati per tracciare un quadro articolato. Ma possiamo avanzare qualche ipotesi. Il lockdown ha significato per molte donne, sia in Argentina che altrove, dei passi indietro nelle proprie autonomie. Rinchiuse in casa e oberate di lavoro, molte donne ci siamo ritrovate di fronte a situazioni che possono aver restituito certo senso patriarcale di controllo ai maschi che, non vedendo la loro posizione domestica di potere minacciata, avrebbero fatto meno ricorso alla violenza per assoggettare le donne. E’ ben noto, almeno in Argentina, che sono state soprattutto le donne ad assumere i compiti domestici e la cura della famiglia, ad agevolare la frequentazione scolastica dei figli in modalità DAD, oltre che compiere coi propri obblighi lavorativi. Questa situazione avrebbe indebolito la posizione oggettiva di molte donne, sia all’interno della propria famiglia che in ambito sociale. 

Il movimento Non una di meno è arrivato perfino in Italia. Di cosa si tratta?

Il movimento femminista “Ni una menos” è nato in Argentina nel 2015 per contrastare appunto i femminicidi, fa parte di una rete internazionale che lotta e manifesta contro le disuguaglianze di genere a 360 gradi. Viene definito come un movimento storico che si inserisce nella tradizione degli Encuentros Nacionales de Mujeres (dal 1986), la Campaña Nacional por el Derecho al Aborto legal, seguro y gratuito e la lotta che tengono da più di 40 anni le Madres e Abuelas de Plaza de Mayo

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Infine, cosa rappresenta il fazzoletto verde?

Il fazzoletto verde è nato per identificare la lotta per l’aborto in Argentina e in America latina, ed è riconosciuto ormai in diversi Paesi. La scelta del fazzoletto come accessorio di moda per rendere visibile questa richiesta non è casuale: può essere ricollegata al fazzoletto bianco che dal 1977 ha contraddistinto la richiesta di memoria, di verità e di giustizia portata avanti coraggiosamente da un gruppo di donne che, in piena dettatura militare, si riuniva di fronte alla casa di governo per scambiare notizie sui propri figli-e desaparecidos

Grazie dell’attenzione.

Grazie a Lei.

Può una semplice passeggiata per il centro di Bologna, trasformarsi in un complesso dialogo interiore, un po’ conflittuale un po’ metaforico, che possa essere traslato in un articolo per Condivisione Democratica? Sì, il momento che il filo conduttore di questo numero è: pregiudizio, incapacità di riconoscere l’altro, sostegno agli emarginati. Intanto, cosa ci faccio a Bologna? Una partecipazione in qualità di attrice, ad una serie tv. E il dilemma da cosa nasce? Per quanto sia precario ed incerto, quello dell’attore, rimane uno di quei mestieri in cui, per dire delle battute in modo credibile e muoverti con disinvoltura davanti ad una macchina da presa, sei omaggiata, coccolata e riverita. In un giorno guadagni quasi una mensilità di un lavoro normale e in più fai il lavoro più bello del mondo, almeno secondo me. Il primo senso di disagio lo provo già semplicemente nell’affacciarmi alla finestra del mio hotel, con vista sulla piazza della stazione. Fa un freddo cane, ma io sono a maniche corte, che spreco, 22 gradi davvero non sarebbero necessari. Guardo i passanti tutti incappucciati, penso alle persone che non hanno un riparo.

Immagine dell’Autrice

Prima di andare sul set ho qualche ora libera, decido di fare una passeggiata verso il centro. Cammino sotto gli innumerevoli colonnati, affascinanti quanto luogo prezioso e rifugio dalla pioggia per i senzatetto.  Vedo un primo povero, sistemato tra i suoi stracci a terra, con il suo piattino per le elemosina. Senza pensarci, raggiungo in fondo alla borsa gli spicci che ho e glieli porgo. Un uomo abbastanza giovane e molto grasso. Procedo poche decine di metri e vedo una donna, non vecchia e non grassa, che chiede anche lei le elemosina. Mi pento di aver dato gli spicci che avevo al signore precedente, solo perché grasso. Che stupido pregiudizio… poi arriva un signore di colore, riesco a trovare ancora qualche moneta, a lui non posso resistere. Sono vittima di un “razzismo al contrario”, ho quindi una tendenza innata a prendere le parti degli Africani. Anche questo un pregiudizio, no? Procedo verso la piazza principale e noto una situazione che mi porta all’argomento “incapacità di riconoscere l’altro”: una ragazza Europea, forse Italiana ma comunque bianca, è accovacciata intenta ad eseguire un’opera pittorica sul pavimento. Ha accanto un piattino per le offerte. Nel mentre mi rammarico di non poter darle un sostegno, noto un giovane credo del Bangladesh che, con un grande sorriso, ripone dei soldi nel piattino. Lo osservo mentre si allontana, magari verso la sua attività, il suo negozio o il suo ufficio, quello che sia.

Immagine dell’Autrice

Normalmente ben vestito, ha un passo deciso e soddisfatto: chissà quante ne ha passate, chissà se anche lui ha dovuto chiedere l’elemosina prima di poter trarre gioia nel farla a chi ora ne ha bisogno. Ecco, mi sono domandata, nel dialogo interiore che ha accompagnato i miei passi tra i vicoli, come questa stessa scena potrebbe essere interpretata in diverso modo a seconda dei nostri pregiudizi, di come riconosciamo l’altro, di come lo vediamo, di come siamo disposti a sostenerlo o ad emarginarlo. Io ho trovato questa scena semplicemente bellissima. Lascio a voi immaginare invece, come gran parte della gente avrebbe commentato, con le solite stupidaggini –  gli stranieri ci rubano il lavoro –  e simili. Sono giunta proprio in vista del palazzo su cui sono affissi da tanto, troppo tempo, i manifesti di denuncia sul caso Regeni e per la libertà di Zaki. Ora che, la meravigliosa notizia che Patrick è stato scarcerato, che la nostra preghiera collettiva si è trasformata in realtà, ecco che penso agli emarginati criminalizzati, i detenuti senza titolo, i perseguitati per un ideale. Il nostro Patrick Zaki, forse e mi auguro, avrà la forza in futuro, quando sarà davvero emerso dall’inferno in cui lo hanno gettato, di dar voce alle troppe persone che sono ancora private della libertà e combattere contro le ingiustizie di cui lui è stato vittima. Sarebbe una sorta di consacrazione della sua dura esperienza. Scommettiamo che lo farà?

Lo scorso 12  Ottobre si è commemorata la “scoperta dell’America”. 

Pensiamoci un po’, che c’è di più emblematico di questo evento per dimostrare che la vita è piena di opportunità, che ci possono essere dei colpi di fortuna incredibili e, al tempo stesso, un’incredibile sequenza di imprevisti, di errori e di conseguenze drammatiche?

(Immagine dal Web)

Colombo era un grande navigatore, lo abbiamo studiato a scuola, conosceva benissimo i mari, benissimo le navi, i marinai, le carte geografiche, conosceva benissimo i venti. Aveva studiato, e tanto, così come aveva tanto osservato.

Sapeva benissimo che sulle Canarie soffiavano venti che a 15-30km/h spingono le imbarcazioni verso sud-ovest. I portoghesi quei venti, gli Alisei, li conoscevano bene e, per questo, nel cercare la via verso il sud dell’Africa (e il suo oro, i suoi schiavi) e verso le Indie (e le sue spezie) utilizzavano delle navi piccole, maneggevoli, con tre alberi: due a vele quadre per il vento in poppa e uno a vela triangolare per quando i venti sarebbero stati contro, per il ritorno. Venivano chiamate caravelle.

Cristoforo Colombo lo sapeva e sapeva anche che al Capo di Buona Speranza – il confine tra Oceano Atlantico e Oceano Indiano- i portoghesi ci erano arrivati poco tempo prima ma solo grazie ad una tempesta, per puro caso. 

Lui aveva un’idea diversa in mente: raggiungere le indie navigando verso ovest. Semplicemente dalla parte opposta rispetto a quella seguita dai portoghesi. 

Le chiamava indie, come si diceva in quell’epoca, ma intendeva le province della Cina: una fonte immensa di tesori, di tessuti preziosi, di ceramiche. Molto di più dell’Africa e dell’India. 

Aveva letto, molto attentamente, Il Milione di Marco Polo e aveva studiato gli scritti di Aristotele e di Tolomeo dai quali recuperò le misure della Terra, per preparare “Il Viaggio”. 

Conosceva benissimo l’animo umano: quello dei dotti e dei marinai. Così parlando con i primi all’Università di Salamanca si dice che chiese loro di tenere in equilibrio un uovo sul tavolo e dopo i loro tentativi, per mostrare che a volte ci vogliono idee diverse, sbatté leggermente l’uovo sul tavolo, “piantandolo” lì. Parlando con i marinai invece promise una moneta d’oro a chiunque avesse avvistato terra, così da sopire i primi segnali di impazienza e paura quando il viaggio si stava facendo troppo lungo.

“Il Viaggio” infatti avrebbe dovuto portare a terra in 3 settimane partendo da Palos, sulla costa atlantica della Spagna, per dirigersi verso le Canarie per imbrigliare quegli Alisei – che erano l’asso nella manica di Colombo – per raggiungere quindi le indie. 

Un piano semplice e astuto, proprio come la storia dell’uovo.

Peccato che Tolomeo avesse sbagliato i calcoli e che la Terra fosse ben più grande di quanto pensasse, tanto da aver nascosto per così tanti anni agli Europei un così grande continente, che poi prese il proprio nome da Amerigo Vespucci.

Le opportunità, dicevamo, sono in effetti situazioni che si possono cogliere avendo la capacità e la volontà di superare i propri confini per vedere nuovi spazi, nuove realtà, ed il coraggio di considerare il fatto che si possa manifestare l’imprevisto o che ci si possa imbattere nel fallimento.

Viene in mente un altro navigatore che, prima di Colombo, superò le “Colonne d’Ercole” per spirito di avventura, per seguire la propria curiosità: l’Ulisse. Quest’ultimo solo nella letteratura, tra le rime della Divina Commedia di Dante, mentre Colombo lo fece davvero, rimanendo poi nella Storia.

Ma non è tutto qui.

Quell’opportunità in una terra nuova, frutto di errori di calcolo, portò anche violenze che si abbatterono sui popoli indigeni per la fame di ricchezza dei conquistatori. Un errore di valutazione sull’animo umano. Perché gli uomini che si imbarcarono dopo quel primo viaggio non si accontentarono della moneta d’oro e si trasformarono in predoni che saccheggiavano e uccidevano in nome di un Eldorado su cui favoleggiavano, quando non della religione.

Così il 12 Ottobre non è solamente il “Giorno di Colombo”, il “Columbus’ day” come in America del Nord, o il “Dia de la Raza” e “Día de la Hispanidad” come in Spagna, cioè un giorno per festeggiare l’incontro di culture. In America Latina, si commemorano il “Discovery Day”, il “Pan-American Day” e poi i “Día de la Descolonización”, “Día de la Liberación, de la Identidad y de la Interculturalidad”, “Día del Encuentro de Dos Mundos”, “ Dìa de la resistencia indígena”, “Día del Respeto a la Diversidad Cultural”.

Perché non si può riscrivere la Storia, sarebbe un altro grave errore, ma è giusto conoscerla completamente: quella grande opportunità che fu la scoperta dell’America portò anche disuguaglianze e violenze a chi, per più di 600 anni, fu semplicemente “un vinto”.

Una lunga coda d’estate e la voglia di piccole avventure nel nostro bel territorio laziale: non occorre andare lontano per provare l’eccitazione della scoperta. Mi imbatto per caso in una testa di tufo, isolata nel bosco, posizionata ai piedi di una pianta dai tanti tronchi. Mi domando quale persona particolare, quale creatura di questi luoghi, possa essersi dedicata ad adornare così, una già bellissima e ricca zona fluviale. Già, perché mi trovo a passeggiare in una landa nuova, lungo il ben conosciuto fiume Treja, visitato e goduto da molti romani e non; mi riferisco in questo caso, al tratto in direzione delle sue fonti, ovvero le Cascate di Montegelato, meta di turisti come di fotografi e produzioni cinematografiche varie.
L’esplorazione di questo preciso punto, proprio sotto un enorme costone tufaceo, è invece per me, un’avventura tutta nuova. Siamo nella valle sottostante Civita Castellana: possiamo vedere i resti di un ponte crollato nel 1920 a causa di una devastante piena, nei pressi di un bacino artificiale che forniva l’acqua necessaria per azionare la mola di un mulino. Tre secoli fa proprio qui esisteva una diga, ora soprannominata “Legata”. Ormai il fiume si è riappropriato del suo territorio che ora mostra barlumi del passato mescolati ad elementi artistici del presente. Sì, perché dagli anni ‘80 in poi, lo scultore locale Gildo Cecchini, ha reso questo luogo un suggestivo quanto originale museo all’aperto. Incontro per caso quest’artista, selvatico quanto me, proprio sulle sponde del fiume che ospita le sue opere.

Mi racconta che sia d’inverno che d’estate, si reca sul luogo per sistemare gli argini, tenere pulito dalle erbacce, fare la manutenzione dei vari percorsi, piccoli ponti di legno compresi, che collegano e creano un itinerario da cui poter ammirare le sue creazioni. Gildo, oltre che offrirmi di posare per una sua scultura, mi racconta che questo è un luogo da tanti anni diventato punto di ritrovo e di refrigerio per le persone di Civita Castellana e non solo. Mi racconta che da bambini tanti anni fa, sotto una specifica parete tufacea poco lontana, il fondale argilloso era una grande attrattiva e tutti si ritrovavano a spalmarsi il corpo con la creta. Gildo è cresciuto: in pensione dopo una vita trascorsa nel suo negozio di parrucchiere, rende speciale un luogo ameno e fantastico, prestando la sua arte anche per opere su commissione. Questa la sua pagina Facebook. Quanto a me, prima o poi, mi ritroverò certamente a fare da modella per Gildo Cecchini, le cui mani trasformano il tufo in magia!

“La libertà non è star sopra un albero, Non è neanche il volo di un moscone”, cantava Gaber anni fa e proprio come concludeva lui nel ritornello, “Libertà è partecipazione”.
Dal canto mio, aggiungerei condivisione, com’è nello stile della nostra testata.

Condividere uno spazio e partecipare alla sua costruzione, contribuendo, con un proprio elemento che si incastra con gli altri come una tessera del puzzle, ad una elaborazione di un pensiero o di una azione più grande, più complesso.
Questo numero lo abbiamo dedicato alla Libertà, in tutte le sue forme, in tutte le sue espressioni.
Abbiamo dato -ovviamente- libertà a tutti i nostri redattori di interpretare il tema a proprio piacimento e sono emersi interessanti spunti di riflessione.
Abbiamo dato ampio spazio alle interviste alla politica che è vicina a momenti di confronto elettorale per suppletive parlamentari e per le amministrative, in particolare nella Capitale. La Politica – quella con la “P” – del resto è proprio una delle massime espressioni della libertà e della partecipazione. O almeno dovrebbe esserlo.
Libertà di Movimento (come racconta Loretta) o Libertà di Espressione (come descrive Martina) o Libertà Personale (come puntualizza Elena) o Libertà dalle credenze (come suggerisce Giorgia) o Libertà di Raccontare e Immaginare (come riporta Walter) o Libertà di Vivere la propria vita (come scrive Giorgio).
Tante libertà, tante forme di inclusione e di cooperazione, di convivenza civile.

Rientriamo dal periodo estivo, nel quale mi auguro tutti noi siamo riusciti ad avere un momento per “ricaricare le batterie” dallo stress quotidiano, e possiamo leggere i nostri pensieri, con questo numero intenso.

“Bisognerebbe fare teatro nelle scuole, perché l’esercizio di mettersi nei panni degli altri ci può far diventare una società migliore” Elio Germano.

Settembre, Teatro Aurelio, stesso giorno e stesso orario, si riparte con le attività del laboratorio teatrale.
Il gruppo non è esattamente lo stesso, qualcuno ha scelto un percorso diverso, un paio non riescono a venire, ci sono dei nuovi ingressi, fatto sta che partiamo tutti entusiasti, felici di ritrovarci qui e speranzosi che questo anno sia meno complicato del precedente.

L’anno scorso, causa pandemia, gli appuntamenti settimanali sono stati problematici, mascherina tutto il tempo, distanziamento, sanificazione, coprifuoco, ma, malgrado le difficoltà, Manuele è riuscito a non farci saltare una sola lezione, ricorrendo anche alle lezioni su piattaforma web durante i brevi periodi “arancioni”.
E’ stato un grande aiuto in un momento così particolare e vuoto.

Già il Gruppo, “fare gruppo” è una delle cose più importanti di questa attività e soprattutto è uno degli scopi, fare teatro fa bene all’anima anche per questo, aiuta ed insegna a relazionarsi.
Per me è una terapia, un banco di prova che mi ha confermato che è tutto bello fin che le cose vanno bene ma è nelle difficoltà che si vede davvero se un gruppo è affiatato e per far questo dobbiamo fare i conti anche con quelle parti di noi stessi che non ci piacciono affatto e che tutti abbiamo, come ad esempio la competizione, l’invidia e la frustrazione, che di fatto sono sentimenti come altri e che, una volta riconosciuti, si possono gestire.

(Immagine dell’Autrice)

Con il gruppo dell’anno scorso abbiamo portato in scena uno spettacolo che, per come si è svolto, ci ha fatto capire che eravamo un “bel gruppo”, unito e in sintonia, ognuno di noi con particolarità differenti che, “amalgamate” come si deve da uno “Chef” di tutto rispetto, ci hanno permesso di essere soddisfatti del risultato ottenuto.
Perché, diciamolo, la sintonia è fondamentale quando si sale sul palco, le battute escono fluide, basta uno sguardo per capirsi e soprattutto si riesce ad affrontare un errore, una battuta sbagliata, un vuoto di memoria, un contrattempo, in un modo talmente naturale da non farlo percepire al pubblico.

E’ il quarto anno che faccio laboratorio
teatrale, una passione che nutrivo da anni ma che non avevo mai avuto il
coraggio di affrontare, poi finalmente mi sono decisa a mettermi in gioco.

Manuele ci conduce al saggio di fine anno
attraverso degli esercizi preparatori davvero interessanti, ci fa lavorare con
il corpo e la mimica, con la memoria e le emozioni, con la voce e la dizione,
ci prepara a “buttarci”, vincendo timidezza e imbarazzo, ci fa leggere testi
teatrali classici e contemporanei, ci fa cultura.

L’improvvisazione è l’attività che preferisco in assoluto, stimola la fantasia e la creatività, insegna ad immedesimarsi negli altri attraverso ruoli che abitualmente non ci appartengono, mette in relazione e a volte lo fa in maniera così forte da arrivare anche a commuoversi, stimola la sensibilità e l’empatia.
E’ bello, è bello sì quando saliamo sul palco, “bene, ora salite, spalle alla platea e iniziate” ci dice Manuele, dandoci qualche indicazione tecnica o un obiettivo da raggiungere.
E’ quello per me il momento magico: il primo che ha l’ispirazione si gira e da l’attacco agli altri, e gli altri lo seguono, integrano la scena, a volte la ribaltano.
In quei momenti io mi sento libera, libera di muovermi, di esprimermi, di fantasticare.
Libertà di Espressione.

Manuele ci dà benvenuto, ci fa sedere in semicerchio e iniziamo presentandoci ai nuovi arrivati. Già i nuovi arrivati, sempre bello iniziare ad interagire con gente nuova ma la sicurezza che mi dà vedere Valeria, Germana, Diana, Sergio, Claudia e Linda non ha eguali.

Oggi sono esattamente tre mesi da quando
abbiamo messo in scena Surrealiti e
io, guardando il palco, ripenso con nostalgia a quei momenti.

LO SPETTACOLO
“Sono sicuro che a Martina piaceranno i testi” disse Manuele a febbraio quando ci presentò la sua idea per il saggio di fine anno, in effetti proporre degli sketch tratti da Monty Python’s Flying Circus è stato davvero divertente, e per me un onore, visto che ho sempre trovato questo gruppo comico inglese unico nel suo genere, apripista di una comicità singolare e geniale.

IL BACKSTAGE
Ricordo l’emozione, il 13 giugno era una giornata calda, ci ritrovammo fuori dal teatro già a metà pomeriggio, tutti tamponati per poter finalmente salire sul palco senza mascherina, cosa non da poco visto che sarebbe stata la prima volta in un anno di lavoro.
Entrammo, appoggiammo le nostre cose e Manuele ci fece prima di tutto ripetere qualche scena, poi ci parlò, motivandoci e tranquillizzandoci, e infine ci fece fare un’oretta di esercizi di rilassamento, un vero toccasana per il corpo e la mente.
La preparazione e l’attesa furono momenti davvero singolari, con agitazione, giocosità, nervosismo, ansia da prestazione e paura, sì, io sentivo molto forte la paura, paura di sbagliare, paura di dimenticare le battute, paura degli imprevisti.

IL SIPARIO
Agitazione, cuore a mille, emozione forte, mi muovo non riesco a stare ferma, sento il brusio dalla sala, siamo pronti, il sipario ci divide dagli “spettatori mascherati” ma siamo pronti, consapevoli che l’apertura dello spettacolo ha sempre qualcosa in più, è il biglietto di presentazione dello spettacolo, Manuele ci disse “dovete partire subito a mille, dovete essere “esagerati” in tutto, osate, osate e osate!” e questa cosa mi agitava molto, esagerare partendo “freddi” non è cosa da poco.
Guardo Beatrice, che attende come me, così come Diana, Sergio e Linda, e le dico “sto male, ho lo stomaco chiuso”, lei con un sorriso, che io ritengo assolutamente inadeguato per questo dramma di situazione, mi dice “calma, respira, andrà tutto bene”.
Si apre il palco, ci siamo, non c’è più tempo, vai con la prima battuta di tutto lo spettacolo. Responsabilità.
Colloquio di lavoro è il primo sketch, ironia e sarcasmo con un pizzico di cinismo e abbondante no-sense.
Il primo sketch è andato, uscendo dal palco ho pensato alle persone che avevo invitato, amici, colleghe, vicine di casa, e…oddio ci sono anche Giorgio e Gerry di Condivisione Democratica, oddio che figura, Giorgio è un amico ma Gerry non l’ho mai conosciuto di persona, che dirà, che penserà quando mi vedrà con tutti i fiocchetti in testa, perché sì nello sketch successivo è così che mi presento. E infatti, non ho neanche il tempo di rilassarmi che già mi devo preparare, appunto con i fiocchetti in testa, per entrare nello sketch successivo Clinica della Discussione con Valeria, Beatrice, Diana, Linda e Claudia.
Sentiamo gli applausi ma siamo tutti talmente presi dai cambi scena e dai preparativi che non abbiamo tempo di realizzare bene quello che sta succedendo.
Seguiranno quindi Alpinista, Dejavu, La Donna che finisce le frasi degli altri (con Matilda), Cucciolotto, L’Inquisizione Spagnola (con Matilda, Claudia, Germana e Sergio), Dejavu 2, Negozio di Animali, L’Audizione e Ristorante (con Germana, Valeria, Beatrice, Sergio e Diana).

(Immagine dell’Autrice)

Abbiamo portato in scena un’ora di evasione per un pubblico che, come tutti noi, arrivava da un anno di patimento, ci siamo divertiti noi e loro, e la scelta del soggetto Manuele l’ha calibrata proprio per questo “purtroppo avremo un pubblico dimezzato e provato, quindi proponiamo qualcosa che diverta, che faccia sorridere ma che sia di qualità e soprattutto ragazzi divertitevi!”, e così è stato.

Il teatro è libertà, è cultura, è
autoanalisi, è crescita, è creatività.

Un percorso teatrale dovrebbe essere inserito, a parer mio, come materia di studio fin dalle scuole materne proprio per insegnare, come dice Elio Germano, ai bambini a mettersi nei panni degli altri e diventare degli adulti migliori di quello che siamo noi.

Un grazie speciale a Manuele Guarnacci e ai miei compagni di
avventura, Beatrice, Claudia, Diana, Germana, Linda, Matilda, Sergio e Valeria

Mi è capitato di piangere sentendo un testo reggae il cui titolo era “Freedom”.

Ho pianto al pensiero della privazione della libertà e dei diritti, tutt’ora così presente e prepotente nel mondo. Ma poi la disperazione riguardo questa realtà, è stata soppiantata da una lucida considerazione, peraltro abbastanza ovvia, scaturita dal vedere mio figlio così prigioniero delle sue ombre mentali, sebbene io l’abbia cresciuto in totale libertà.

Sì, il fatto ovvio è che, anche se non ci fossero regimi e privazioni del movimento, rimarrebbe ugualmente la nostra mente in prigionia, anche se il corpo fosse lasciato totalmente libero.
Per cui è dal liberare la nostra mente che dobbiamo cominciare e forse le prigioni esterne si sgretoleranno.

Allo stesso tempo è un dovere difendere con le unghie la libertà e i diritti acquisiti, così come è urgente impegnarsi nel trovare soluzioni affinché in altre parti del mondo, siano fermati coloro che calpestano la libertà e la dignità umana.

(Immagine dell’Autrice)

Mi è anche capitato di piangere di gioia nel sentirmi libera, danzando, camminando nel mare trasparente, muovendomi nel vento senza schemi né motivo.

La libertà si trova nel silenzio e nella spontaneità, nell’ascolto e nel suono del fluire delle cose nella loro semplicità.
Questo ha poco a che fare con le limitazioni imposte dalla società e dalla legge, oppure con le formalità e le regole.

Un tempo mi sentivo libera nel non seguire le regole.
Oggi contemplo il mio stato interiore in ogni situazione e ne alimento
semplicemente e amorevolmente l’innata e antica libertà.

Soldato Giulio Moscardi – Adria 25.04.1897 / Adria 14.01.1923
Cappellano militare Don Giulio Facibeni – Galeata 29.07.1884 / Firenze 02.06.1958

E’ buio, fumo una sigaretta appoggiata alla staccionata, pancia piena di una squisita carne con patate cotta nella Peka e cervello inebriato da un ottimo prosecco, guardo il paesaggio attorno a me, illuminato dalla luna, e ascolto il silenzio assordante, rotto solo da qualche rumore della natura e dal brusio che arriva da dentro, risate, chiacchiere e racconti.

La temperatura è piacevole, un po’ di fresco ci voleva, e io sono persa nei miei pensieri, penso alla commemorazione di domani ma soprattutto mi sembra di sentire Loro, i lamenti di quei ragazzini, perché questo erano, caduti a migliaia proprio in queste zone, in queste montagne, lontani da casa e non per loro scelta; ho il magone in gola, il vino non aiuta in questi casi, mi fisso a pensare a quanti saranno morti proprio nel punto dove mi trovo io, e mi scende una lacrima al pensiero che magari qualcuno di Loro non è morto subito, magari è stato lì agonizzante per ore, o forse giorni, e penso alla “fortuna” che hanno avuto quelli che si sono spenti subito.

Mi trovo sul Monte Grappa, alle pendici del Monte Pertica, e il paesaggio è bellissimo, colline dolci e verdi, con quei curiosi avvallamenti che non sono altro che il segno di bombardamenti continui; sono ancora ferma al pensiero di Loro e questa sensazione molto forte di cosa i loro occhi avranno visto prima di chiudersi definitivamente, non certo quello che vedo io ora ma solo distruzione, fumo e corpi martoriati.

E penso a Lui, mio fratello, che si è prodigato, con scrupolose ricerche storiche, per dare onore alla memoria di un fratello di nostro nonno paterno, suo omonimo, morto per le conseguenze delle ferite di guerra (http://www.condivisionedemocratica.com/2020/01/08/giulio-un-ragazzo-nella-grande-guerra/)

E’ un anno che Giulio aspetta questo momento, la commemorazione è stata rinviata causa pandemia, e ha organizzato tutto alla perfezione, collaborando con Davide Pegoraro, storico ed esperto della storia della Prima Guerra Mondiale sul fronte europeo, e Delfio Favrin, che gestisce con la compagna una struttura ricettiva sul Grappa.

(Immagine da Giulio Moscardi)

Ci alziamo presto, è il 26 giugno e il sole splende, facciamo colazione e io mi fumo la prima sigaretta appoggiata sempre nello stesso punto della sera prima, la vista adesso è diversa, c’è il sole, si sentono rumori e i profumi della natura sono vivi, eppure io sento ancora questo velo di angoscia, continuo a pensare a Loro, quella percezione di averli attorno e quella suggestione di sentirli grati per questa giornata di memoria.

Alle 9 iniziano ad arrivare gli invitati, amici, conoscenti, le Istituzioni, quindi il sindaco di Adria, Omar Barbierato, con una piccola rappresentanza al seguito, e il sindaco di Valbrenta Luca Ferrazzoli, poi vedo arrivare Patrizio Colombo, un giovane ragazzo partito prestissimo da Firenze in rappresentanza dei suoi genitori, Francesca Elia e Mauro Colombo, rispettivamente regista e produttore del film documentario sulla vita di Don Giulio Facibeni,

Inizio a salutare persone che vedo pochissimo, mi perdo in chiacchiere, quando ad un certo punto mi giro e sono colpita da un’immagine particolare: l’arrivo di quattro uomini – tre carabinieri e un ufficiale del Primo Nucleo Uniforme Storiche Arma dei Carabinieri – che vedo salire dal prato, sono in fila indiana e tengono la lucerna sottobraccio. Loro, il silenzio e il paesaggio. Sembra la scena di un film, sembra un istante di cento anni fa.

E’ tutto pronto, i fiori di campo vengono messi in un vaso e posizionati alla base delle due steli – pensate e disegnate da mia cognata Eva -, coperte con una bandiera italiana del 1918, un reperto storico di grande valore (la bandiera è rimasta a Trieste fino al 1954; dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, quindi dopo la caduta del Re, dalla bandiera era stato tolto lo stemma sabaudo, stemma però riattaccato appunto nel ’54 dai triestini quando si voleva annettere Trieste alla Jugoslavia).

Inizia la cerimonia.

(Immagine @martmosc)

Il picchetto d’onore, composto dai militari in divisa d’epoca, si posiziona ai lati delle lapidi, e lì rimarrà fino alla fine della cerimonia. Si procede con la scopertura, viene deposta una corona di alloro in memoria del soldato Giulio Moscardi ed iniziano gli interventi.

Le parole che vengono spese sono tante, è tutto molto commovente e io, allergica ad ogni tipo di retorica, ascolto con attenzione e trovo che nessuna parola detta sia fuori luogo e fuori contesto.

Si ricordano date, luoghi, battaglie della Prima Guerra Mondiale ma lo scopo di tutto questo è onorare le migliaia di ragazzi che sono morti in questi luoghi, indipendentemente da quale provenienza avessero, che fossero italiani, piuttosto che austriaci, oggi il ricordo è per tutti, per Loro morti in questa terra e per tutti caduti nelle guerre.

Gli interventi sono
tanti, parlano i sindaci, parla Patrizio, il giovane fiorentino, è tutto molto
emozionante, siamo tutti attenti, adulti, giovani e bambini.

L’emozione forte, e incontrollabile, mi arriva però ascoltando due interventi in particolare.

“….queste sono due sono figure maestose – dice Davide Pegoraro, iniziando il suo intervento – e queste figure non sono figure sconosciute, sono i nostri bisnonni, i nostri nonni, e sono anche i nonni e bisnonni degli altri, quindi estenderei questa parola meravigliosa che avete usato “noi” a Loro, è più esteso no?! Loro, Loro è qualcosa che non tiene conto di me, tiene conto solo degli altri, e forse quando si fa Memoria Storica è opportuno che non ci sia neanche il “noi” ma che ci sia il Loro, primo perché io non c’ero durante la guerra, posso solo riportarvi quello che ho letto e studiato, ma soprattutto perché la guerra è forse in assoluto l’elemento dove c’è solamente l’Io. Le guerre non finiranno mai, mi tocca dirlo, ma piccoli episodi, come quello di oggi, aiuteranno quanto meno ad avere comprensione e con la consapevolezza si vince, anche se si perde; qui abbiamo due Soldati che l’hanno vinta la guerra, uno come cappellano militare e l’altro come combattente effettivo, ma sono convinto che se chiedessimo a Loro non ci direbbero questo, ci direbbero che la guerra l’hanno persa tutti, indistintamente. E’ giusto che vi faccia una descrizione di cosa qui è accaduto, voi vi trovate sul Col della Martina….”.

(Immagine @martmosc)

Queste parole mi hanno davvero colpita, le ho trovate appropriate, profonde, mai fuori luogo e fuori tempo, lontane da ogni orientamento politico e anche religioso, severe ma umane.
Con queste parole il silenzio si fa totale, mi guardo attorno, le tante persone presenti sono concentrate e io ho la sensazione che trattengano il respiro, o forse sono solo io a trattenerlo, i bambini guardano e ascoltano, gli adolescenti sono concentrati, i soldati immobili e imperturbabili. Sento il bisogno di respirare davvero, mi allontano un secondo e mi guardo attorno, tutto questo verde e questa aria pulita in effetti aiuta.

E’ il momento dell’intervento di Giulio, è il suo momento, il momento del suo lavoro, dopo tanta attesa, inizia a leggere “Ero bambino quando, nella grande casa dei miei nonni, spesso mi piaceva entrare in una piccola saletta. Ricordo la poca luce, l’odore di naftalina e il profondo silenzio. Lì mi fermavo a guardare una gigantesca fotografia in bianco e nero, alta come un uomo, incorniciata e appesa al muro; e vecchia, tanto vecchia, quasi antica. Era di un ragazzo, in una posa elegante, leggermente girato di fianco, lo sguardo serio. Aveva una mano all’interno di una tasca dei larghi pantaloni e l’altra dietro la schiena. Indossava un maglione con il collo alto, una giacca militare con due decorazioni nere sui baveri…”.

(Immagine da Giulio Moscardi)

Continua a leggere, lo osservo, mi viene in mente quando eravamo piccoli, la sua passione per i soldatini e i film di guerra, e di quando giocavamo insieme nel giardino della casa dove siamo cresciuti.

Lo vedo sicuro nella lettura, nessun imbarazzo, in fondo sta raccontando una storia, i fatti, i luoghi, le date, sta andando davvero molto bene, in fondo è un professionista, sa gestire le situazioni. Il racconto adesso si fa più intimo, si inizia a parlare delle ferite di guerra, del calvario e del dolore fisico e psicologico, delle accuse di ammutinamento prima e di insubordinazione dopo, dei periodi trascorsi in prigione e di una Patria che prima l’ha “spremuto” e poi abbandonato.

Si immedesima, si immedesima così tanto che l’emozione prende il sopravvento, la sua commozione parla di tutto, di empatia, di fatica per il lavoro fatto, di attesa per questo momento, e poi chissà di quanto altro…
Tutti ci rendiamo conto in quel momento preciso che ha bisogno di essere accompagnato nel suo viaggio, almeno per un pezzetto. Qualcuno prova a farsi avanti ma io mi faccio largo tra tutti, mi avvicino a lui che mi consegna il foglio e continuo a leggere.

Il testo è molto doloroso e io faccio spazio alla rabbia per evitare che la commozione si riproponga, come ha già fatto più volte nelle ultime ore. Giulio, con rispetto, mi si avvicina silenziosamente e capisco che è il momento di lasciargli continuare la lettura.

Per me è stato un momento importante, improvvisamente è sparito il contesto in cui eravamo e per qualche minuto sono rimasta ferma all’affetto che provo per lui, noi così diversi ma uniti in quella che è stata la nostra storia e, purtroppo, anche la nostra guerra.
E un pensiero l’ho rivolto anche ai nostri genitori che, seppur avendoci tenuti in una guerra (e non per Nostra scelta), ci hanno trasmesso dei valori importanti e soprattutto ci hanno fatto il (sano) lavaggio del cervello con frasi del tipo “aiutatevi sempre e state uniti”.

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Signore, Tu che stronchi le guerre, accogli la nostra preghiera per la pace. Accogli il nostro pianto mai spento, per tutte le vittime che ogni guerra e violenza miete….”., recita Don Giuseppe, parroco di Seren del Grappa, leggendo la Preghiera al Col della Martina, siamo tutti raccolti, che si ascolti o meno le parole, il momento è davvero toccante per tutti, credenti e non.

La cerimonia si chiude con la consegna da parte di Davide Pegoraro della “Croce dei Popoli” alle persone che si sono spese per questa ricerca storica, accompagnata da una pergamena che spiega le motivazioni di tale onorificenza.

La fine della Commemorazione mi sembra un risveglio, come mi fossi ridestata da un momento mistico, bella e dolorosa sensazione.

Per quanto mistico sia il momento poi sappiamo come va a finire, per fortuna, al termine di ogni tipo di cerimonia, ebbene sì: “Magna e bevi”.
Tutti in compagnia abbiamo terminato la mattinata con un rinfresco a base di prodotti tipici in un posto davvero suggestivo e, non contenti, non sazi e “non sufficientemente idratati” (come solo noi veneti sappiamo essere) abbiamo infine pranzato al rifugio “Valtosella”, gestito da Davide e la moglie Elena, ottima cuoca.

(Immagine @martmosc)

La giornata si è chiusa, per noi pochi rimasti, con una visita in una delle grotte, poste sotto Col Della Martina, dove erano situati i ricoveri e i posti di comando dei reparti austro ungarici. La grotta si pensa sia quella a cui si fa riferimento nella motivazione della medaglia d’argento del soldato Giulio “scorta per primo l’esistenza di una grotta…”. Delfio è stata la prima persona che Giulio ha incontrato due anni fa ed è lui che l’ha condotto in quella grotta, grotta che poi loro due, insieme a Davide, hanno ripulito con un lavoro attento e preciso.
Arriviamo e la Madonnina, posta nell’apposito incavo, viene illuminata da un raggio di sole che si fa spazio tra i rami e le foglie, l’immagine parla da sola….Loro….

eh, siamo tutti e due emotivi, io poi senza ritegno” dico a Davide che mi si avvicina appena terminata la cerimonia e mi trova con gli occhiali da sole appannati, “non ti preoccupare, dì a tutti che hai una pesante allergia”, lo guardo e rispondo “no! dico che ho pianto, perché nascondere?” e il suo sorriso complice mi rasserena.

Oggi vi parlo di un incontro avvenuto sul lambire di un bosco, ai piedi del monte Soratte. Questo monte che si erge come un’isola non lontano dalla capitale, è carico di storie e leggende, citate da Dante, Orazio, Plinio e molti altri. Virgilio nell’Eneide riferisce un’invocazione di Arunte al dio Apollo “custode del santo Soratte” e parla della pratica cultuale del camminare sui carboni ardenti durante i riti a lui dedicati (sacrifici animali ed umani compresi). Secondo altre antiche leggende gli “Hirpi Sorani”, i sacerdoti che in un tempio sul Soratte veneravano Apollo in forma di lupo, potevano trasformarsi essi stessi in lupi. Durante le cerimonie in suo onore, lo stesso Apollo prendeva le sembianze di grande lupo bianco. E ora vengo al presente, argomento “lupi” compreso.

(Foto dell’autrice)

Posso testimoniare per esperienza diretta che la magia avvolge davvero la verde e sacra montagna, motivo per cui spesso mi sono aggirata tra i sentieri che conducono ai vari eremi, mi sono persa nel bosco dopo essermi affacciata sulle pericolose bocche dei famosi “meri” (considerati in antichità le porte per gli inferi); non ho resistito al fascino della grotta di Santa Romana, scelta come location per un progetto fotografico di cui offro con piacere un anteprima a Condivisione Democratica 

(Foto di Claudio Donati)

Proprio alla fine di una di queste mie avventure ecco che mi capita di scambiare due parole con una persona che, nonostante un look che avrebbe sviato chiunque (senza nulla togliere a quello tipico dei pastori), risulta essere per l’appunto, a guardia di un gregge poco distante. Il bel giovane si premura di avvertirmi che, nel caso io mi aggiri spesso nei boschi da sola, dovrei come minimo portarmi dietro un bastone. Lo avevo già sentito dire, ma Mario, oltre confermarmi la presenza di lupi, mi specifica che: sono tre esemplari, è raro attacchino l’uomo, è frequente che si divorino le pecore; in più mi spiega che, nello sfortunato caso venissi attaccata, la manovra da compiere è quella di avvolgere e proteggere la propria gola con il braccio. Non volevo scrivere cose tragiche, d’altronde questa è la natura e va amata così. Insomma, nel procedere di questa conoscenza, mi colpisce l’appagamento e la fierezza con cui Mario mi parla del suo lavoro: “Faccio il pastore da sempre e non mi sono mai stufato, né di svegliarmi all’alba per la mungitura, né di stare le ore qui, nella solitudine, in mezzo ad un prato, a seguire il gregge. Avrei potuto fare altro; mio padre, sebbene l’azienda agricola sia di famiglia e ci lavori da sempre, è archeologo, si interessa di tante cose a livello storico e culturale. Mia sorella è nel teatro. Mia madre maestra. Io sono un pastore e non vorrei fare null’altro. Mario, col suo viso da attore e la sua cultura, ha scelto a 28 anni, il contatto con la natura, il silenzio, la contemplazione. E comunque, nel 2021, sembra sia di tendenza: recentemente ho letto di alcune ragazze-pastore e, lo confesso, quando avevo 15 anni, in una mia fase di ritiro spirituale, avevo pensato anche io che quello fosse il lavoro per me. Poi sopraggiunsero altri stimoli ma, posso davvero capire Mario, il bel pastore del Soratte