Intervista a Maurizio Gregorini

In anteprima per Condivisione Democratica il poeta Maurizio Gregorini presenta la sua ultima opera “Ki. Segni dello spirito”, nata dal profondo legame spirituale con l’amico Angelo Cordelli. Una preziosa esclusiva per i nostri lettori, testimonianza non solo della loro incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi della vita ed oltre.

L’intimità più sacra di un poeta che dialoga con il suo “altro allo specchio” per coglierne la sua eredità e trasformarla in un unico ed eterno canto d’amore.  

(Immagine dall’Ospite)

Esce la nuova edizione di “Ki. Segni dallo spirito” del poeta romano Maurizio Gregorini. La prima (anch’essa privata e di sole cento copie, novembre 2020), fu mandata in stampa affinché Monsignor Angelo Cordelli, a cui il libro è dedicato, potesse vederlo e goderne. A quella edizione era inclusa una lettera che nella nuova versione non trova spazio (la riportiamo qui per la singolare significatività: “Angelo, caro unico amico, sai bene come non sia solito mostrare la mia intimità. L’educazione che ho ricevuto da Letizia ha dato frutti delicati, in mezzo alla volgarità che ci circonda; riesco solo a legare a me con la poesia gli affetti più cari e, anche se per motivi dissimili, come è avvenuto tempo fa per Raffella Belli con ‘Scaglie di passione’, ora accade con te. Non conosco atto d’amore più appassionato, più forte e tenace. Do alle stampe ‘KI. Segni dallo spirito’ perché te lo devo: ore e giornate e anni trascorsi insieme in un dialogo solo apparentemente asimmetrico, tu dalla parte della fede di Dio, io da quella della religiosità dello spirito. È testimonianza non solo della nostra incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi. Dinanzi allo strazio, all’angoscia di questo periodo, le parole si indeboliscono, non riescono a raccogliere il pensiero ed esprimerlo: ho il cuore lacerato, ogni suono che nella mente si compone in una frase mi appare un esile balbettio che non posso ridire sulle labbra. Può darsi che, barca e remi in mano, occorra avviarsi quietamente sulle acque dell’oceano del Nulla; quel ‘Nulla’ che – lo sai – è qui inteso nell’accezione turoldiana, come luce e pienezza, e non buio o vuoto. Inutile negarlo: innanzi alla morte che inizia a bussare assiduamente alla porta della vita, restiamo inermi.

(Immagine dall’Ospite)

Poco resta da fare, ma possiamo farlo nel modo migliore, con fede, senza indifferenza, per chi va e per chi, ancora per poco, resta. Sono versi che portano il mio nome, e anche se le parole sono quelle di chi le ha scritte, questo libro ha in ogni sillaba l’impronta della tua anima. Rileggendomi, ho capito che gli autori erano due. Ecco perché te lo dedico, per quale ragione appartiene a me ma anche a te. L’affetto, le cure che mi hai sempre donato, te li ricambio, restituendoti col mio canto il tuo canto. Turoldo diceva che ‘mai la stessa onda si riversa nel mare, e mai la stessa luce si alza sulla rosa: né giunge l’alba che tu non sia già altro’. È vero, ogni giorno siamo sempre altro, ma con una fiamma inestinguibile nel cuore. Mi conosci nel profondo, non amo gli addii, preferisco gli arrivederci; e questo è un arrivederci. Ti lascio dunque alla lettura di queste pagine con una carezza leggera, quella delle parole dell’adorato Abbé Pierre: ‘Io sopporto di vivere così a lungo soltanto perché ho in me questa certezza: morire, lo si creda o no, è incontro’. Indubitabile. Sicuro che anche per te sia così. Ti abbraccio fraternamente”): al suo posto, in seconda e quarta di copertina, ci sono cinque commenti (compreso quello della sottoscritta) che chiariscono al lettore un libro di poesia di certo non di uso comune.

(Immagine dall’Ospite)

Sandro De Fazi parla di un “Libro ispirato, sapienziale e intensissimo, a partire dal ‘KI’ dell’antica filosofia cinese, che costituisce il dialogo direi ‘realistico’ tra il poeta e il suo amico sacerdote, dove la ‘realtà’ primaria delle energie vitali e spirituali è resa tangibile attraverso il linguaggio della poesia. Sono versi dal ritmo solenne e insieme discorsivo che contraddicono l’‘irrealtà’ che mai come in questo momento storico, appare in termini perentori ed esclusivi, laddove Gregorini ci fa ricordare e ci mostra un ben altro modo d’essere e di intendere il reale”; Duccio Benocci annota come “Questo di Gregorini, uomo garbato di altri tempi, è un vero atto d’amore nei confronti di Angelo Cordelli, nonostante le loro evidenti ‘diversità’: da una parte un ministro di Dio in terra, dall’altra un pensatore contemporaneo, valente scrittore e poeta di rara sensibilità, esperto tra l’altro di spiritualità e filosofie orientali. Non capita a tutti di aver un poeta per amico. Non capita a tutti di aver dedicata una intera raccolta di versi. Don Angelo l’ha avuta, seppur nel momento del distacco da questa terra”; Elena Antonini avvisa come questo libro di poesia sia “Un libro che perlustra le inquietudini genuine del poeta; la sua sensibilità contro l’inganno umano apre la porta oltre ciò che non è tangibile alla visione terrena. Versi con Angelo e per Angelo è la mia analisi di quest’opera: viaggio che entrambi percorrono verso l’accettazione di un discernimento celeste. Quella di Gregorini è una voce che dà respiro al dolore di due anime che aspirano alla consapevolezza, spasimo che si manifesta nel cerchio interrotto della vita. Cosicché ogni parola di questo ‘Ki’ si mostra come pugnalata intrinseca, una estasi reale di visioni e suoni su cui il lettore può solo lasciarsi trasportare”; e infine (e qui è anche la centralità del nostro nuovo numero), Sonia Corsi tratta il tema dell’eredità, non solo culturale, ma soprattutto umana: “Lettura importante quella dell’ultimo libro -purtroppo privato- del poeta Gregorini. Grazie alla potenza della poesia, l’amicizia e l’esperienza -anche nel dolore e nella conseguente morte- si trasformano in un dono che stravolge il senso della parola ‘eredità’. Un’opera poetica complessa e profondissima. Epifanica. Bellezza allo stato puro”. Chiude questa nuova versione di “Ki. Segni dallo spirito”, un originale e profondo -nonché toccante- intervento della poetessa Vincenza Fava. Maurizio Gregorini (Roma, 1962), giornalista e scrittore, presente in varie antologie, è autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. Per la poesia, nel 2002, presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio, gli è stato consegnato il ‘Premio Personalità Europea’. Tra i suoi libri ricordiamo il saggio biografico “Il male di Dario Bellezza” (tre edizioni, 1996, 2006 e l’ultima aggiornata del 2016), con cui si è aggiudicato il ‘Premio Mangialibri’ nella categoria “Miglior rapporto qualita/prezzo del 2006”; il romanzo “Neve e sangue”. Nel 2017 Castelvecchi manda in libreria “Sigillo di spine”, opera omnia poetica che ha ottenuto il Premio speciale della giuria della terza edizione del Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos”.

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Ci ha concesso un’intervista in anteprima ed in esclusiva e noi gli siamo molto riconoscenti per l’apprezzamento e la stima che ancora una volta riserva alla nostra testata. 

Caro Gregorini, eccoci ancora una volta a conversare su una sua opera, tra l’altro molto complessa. Non le nascondo un certo imbarazzo e coinvolgimento dato che anche io ho avuto l’opportunità, tramite lei, di frequentare Angelo Cordelli, un uomo e un sacerdote anomalo, intelligente, colmo di fede e aperto ad ogni tipo di dubbio esistenziale, non solo di tematica religiosa. Innanzitutto, come sta?

“Come ogni persona che perde un affetto caro, un compagno di vita amato. Evitando equivoci, faccio subito chiarezza per ciò che esprimo coi termini ‘compagno’ e ‘amato’: il più delle volte il prossimo fa fatica a concepire una diversa dimensione dell’affetto e dell’amore, pensa subito a qualcosa di fisico, corporeo, insomma, considera l’amicizia intima una relazione sessuale (purtroppo capitò anche colla mia esperienza vissuta con Dario Bellezza) poiché -credo- non abbia gli strumenti per arrivare a comprendere che oltre alla fisicità, al linguaggio dei corpi, c’è anche l’amore non solo platonico, ma soprattutto spirituale. Ecco, la chiave per annoverare questa poesia è nella incorporeità, dato che comunemente, oggi, si tratta parecchio il tema della spiritualità, ma non se apprende il senso profondo. Vuole sapere se ne avverto la mancanza? Si. Era una delle rare compagnie con cui potevo discutere su tutto, soprattutto in ambito religioso, filosofico e poetico. E, sotto questo aspetto, Angelo aveva molto da insegnare, come del resto -perché negarlo?- ha imparato da me il linguaggio dell’anima. Pensi che alla poetessa Raffaella Belli (ma pure a Maria Paola Fortuna, una sua cara amica) disse che tramite il nostro legame si scopriva ogni giorno migliorato, come uomo certo, ma primariamente come sacerdote. Non la trova una cognizione magnifica? Peccato che a me direttamente non lo abbia mai detto. Ma va bene così, anche perché, dentro di me, ero certo di simile trasformazione, l’avvertivo”.

Ha riportato in seconda di copertina anche un mio commento: “Non considero questo un libro, non lo considero un dono. Mi viene più da pensare ad un miracolo e come tale lo accolgo. Il ‘grande evento’ è giunto e ha dilaniato le catene: espressione straordinaria che fa sentire il suo rumore”. Cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto e preferire queste annotazioni che sono state licenziate sui social?

“Col cancro Angelo ha convissuto due anni, e in questo tempo parecchie sono state le riflessioni e la percezione, non solo di ciò che stava capitando, ma di come si potesse concludere in serenità la propria vita. Insomma, come prepararsi alla morte. In questo Angelo provava una sorta di gelosia per le mie certezze sul ‘dopo morte’. Ma la mia esperienza era (ed è) dovuta all’impegno più che trentennale sulle letture buddiste, esoteriche, su tutta una documentazione da me studiata con attenzione partecipativa delle ‘near death experience’: i libri di Brian Weiss, Raymond A. Moody jr., Eben Alexander, Sylvia Browne, Anita Moorjani, Doreen Virtue (tanto per citarne alcuni), o testi come “Il viaggio delle anime” di Michael Newton, “Le prove scientifiche della vita dopo la morte” di Grant e Jane Solomon o “I morti parlano” del teologo Padre Francois Brune continuano ad essere per me di estrema rilevanza. Angelo viveva la contraddizione (tipica degli uomini religiosi) di sapere dell’esistenza di una eternità (di qui la sua fede) ma di non credere che ci potesse essere un contatto con quelli che chiamiamo morti: è noto come la Chiesa nutra la più grande diffidenza su questo tema: si sa, insegna l’eternità, ma non ammette che si possa viverla o mettersi in comunicazione con essa (sono parole di Brune, non mie). Questo per dire come anche lui tentasse di assimilare in che modo questo passaggio -a cui tutti noi siamo costretti- lo liberasse dall’angoscia o dal dolore di morire a cinquantasette anni. Conservo parecchi dei messaggi inviatimi in quei giorni in cui esprimeva tutta la sua afflizione. Gliene riporto solo due: ‘L’amore che ho per te è al di là del pianto e del riso. Se non ci fossi stato tu, ora non sarei sicuramente qui. Fai parte di me e la tua assenza mi è inconcepibile’; ‘Il dolore più grande è di non poterti stare più accanto per condividere insieme questa vita; ma spero che dove andrò potrò custodirti”. Francamente non so perché la rendo partecipate di queste parole, forse perché lei, Giovanna, conoscendomi, sa come prendermi, anche perché lei sa bene della mia riservatezza: di Angelo, della nostra confidenza, non parlo affatto volentieri. Ad ogni modo, lei nelle sue parole ha parlato di un ‘ miracolo’, mentre Angelo, in uno dei suoi ultimi messaggi ha utilizzato il termine ‘custodirti’, cioè, sorvegliare qualcosa con attenzione e cura. Ecco, non è questo un prodigio? Chi mai si sarebbe servito di un siffatto termine per esprimere una estensione spirituale?”

(Immagine dall’Ospite)

Ma non ha risposto alla mia domanda: cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto? La trovo una scelta bizzarra.

“Non potendo proseguire insieme nella vecchiaia (ma non è detto che a me capiterà di vivere così a lungo) Angelo era terrorizzato dall’idea che lo dimenticassi; lo sa Giovanna, parlo poco e raramente esprimo i miei sentimenti, con chiunque; accadeva anche con lui. La lettera e la prima edizione di ‘KI’ sono state il mio intimo responso al suo panico di essere obliato. E sono felice di averlo fatto, poiché non so esprimere con termini adatti l’appagamento, la gioia e la serenità che le cento copie donategli gli avevano arrecato. Nelle ultime tre settimane ha potuto salutare i suoi amici, i suoi affetti, donando loro copie del libro, a testimonianza di un’amicizia su cui parecchia gente aveva favoleggiato. Insomma, una sorta di sua rivincita sul significato di un sentimento diversamente commentabile (e come la si può descrivere un’ amicizia che vive permeata di beatitudine? Con quali termini terreni?), ma soprattutto un epilogo del suo essere uomo di fede. Ecco la ragione che mi porta a considerare questo testo poetico nostro, ossia, concepito insieme. A causa della terminalità della sua malattia, non avevo molto tempo a disposizione. Per cui, me lo lasci dire, sono grato a Fabio Capocci, editore delle edizioni Ponte Sisto, e a Daniela Carretti (che si è occupata dell’impaginazione, anche per la nuova edizione) poiché in sole due settimane il libro è stato realizzato e stampato. “KI. Segni dallo spirito” è un testo poetico generato principalmente dai nostri colloqui e considerazioni avvenute nel corso del tempo; è composto da tre fasi distinte ma, data la complessità del testo e non volendo esagerare, con lui ancora vivo, ho preferito dare alle stampe solo il primo atto. Sì è poi deciso, di comune accordo con Angelo, di realizzare una versione in cui trovava spazio il secondo atto un anno dopo la sua morte, e il terzo anno di editare il volume completo non in forma privata, ma pubblica. Cosa che ho promesso e che, naturalmente, farò. La nuova edizione ha una veste grafica diversa: in copertina e all’interno ci sono opere a firma di Emanuele Pantanella, particolarmente quella della copertina è un disegno che Angelo ha sempre amato e che voleva gli regalassi, ma purtroppo è un’opera amata anche da me e non ho mai ceduto (per singolo egoismo?), e comunque ora è nel libro. Ho estratto il ritratto di noi due e la lettera scrittagli unicamente perché, adesso che il dialogo si avvia verso la condivisione col lettore, oltre che intimo, trovavo inutile riproporre; al loro posto ho scelto d’inserire alcuni dei commenti scritti sui social da coloro che, conoscendolo e avendone avuta copia, ne hanno apprezzato il contenuto, e lei è tra questi. Il perché di questa scelta? Per la ragione che essendo anche questa una edizione fruibile per poche persone e, ancora, un tributo al suo credo, volevo vi stagnasse un’atmosfera di cordialità familiare, da Angelo inseguita perpetuamente”.

Cos’è per lei questo libro?

“Le parrà strano, ma non so risponderle. Non le nascondo che per parecchio tempo non riuscivo ad assimilare che piega stesse prendendo, tant’è che Castelvecchi era intenzionato ad inserirlo come inedito in ‘Sigillo di spine’, ma ottenne un netto rifiuto. Mi capitava di parlarne con Raffaella Belli sporadicamente, ammettendole che si trattava di un testo arduo da classificare. Poi però, coll’avvento della malattia di Angelo ho iniziato a comprendere, anche perché il contenuto dell’opera aveva toni di chiaro presentimento su ciò che sarebbe accaduto di lì a breve. Una sorta di preveggenza? Possibile; i poeti sono spesso chiaroveggenti. Lo sono stati Whitman, Goll, Trakl, tanto per fare un esempio. Stenterà a crederci, ma considero ‘KI’ un libro elaborato sotto dettatura. Di chi? Angeli, esseri incorporei, anime disincarnate… le chiami come meglio predilige, ma il succo non cambia: resto certo che si è trattato di un processo di scrittura automatica, una congiunzione spirituale a cui mi sono abbandonato e da cui mi sono lasciato trasportare. Non a caso più lo leggo, più mi sorprendono certi passaggi o certe associazioni di idee completamente estranee al mio stile, anche se di poesia con questa tematica iniziai a trattare quando nel 1987 preparavo il libro sul Cristo (“L’odore del nulla o l’eresia del Cristo scomposto”, Edizioni del Cardo, n.d.i.). Questo per ribadire che è un libro che sto tuttora scoprendo; però posso dirle cosa determina: il mio rifiuto di continuare a pubblicare con gli editori che di norma non pagano le royalties, o la rinuncia di divulgare un testo con editori non adatti (per la poesia, licenziare un testo con un piccolo o un grande editore cambia poco: gli editori lo editano ma non se ne occupano, non lo seguono affatto né lo promuovono. E’ la realtà): qualcuno di questi aveva chiesto di volerlo stampare, solo che, come al solito, essendo io un amabile seccatore, ho iniziato a discutere sulla scelta della collana, sulla preferenza della copertina, sul rifiuto di essere seguito da un editor (cosa mai gradita per i miei libri; per caso Penna, Virginia Woolf, Sereni, Vita Sackville-West, Ferlinghetti hanno avuto degli editor? Un ruolo imposto dalle grandi case editrici per chi ha intenzione di realizzare scrittura creativa, fatto che mi fa orrore), insomma, su come realizzare una edizione raffinata. E allora, come sovente accade, ho mandato a quel paese gli interessati e, dato che la prima stampa l’ho realizzata a mie spese quale dono per Angelo, ho preferito comportarmi di conseguenza anche per l’attuale, senza stare a discutere invano. Lei lo sa bene e lo ripeto: avere a che fare con gli editori è di una noia indicibile, a loro interessa solo vendere e guadagnare; si figuri un po’ se un libro simile sia facilmente commerciabile. Del resto alla mia età e con la mia esperienza -visto le innumerevoli pubblicazioni in trentacinque anni di attività poetica- posso anche permettermelo; inoltre, data l’intenzione a breve di avviare una mia piccola casa editrice, è anche un lavoro di prova su come intendo licenziare, in un prossimo futuro, libri di poesia”.

Scrittura automatica, congiunzione spirituale… sia più chiaro; davvero, non è accettabile che lei non sappia interpretarlo…

“Cosa vuole che le dica? Lo ha letto, e lei stessa ha commentato come si tratti di un grappolo di versi che ti lacera il cuore, di un incanto che scuote, lasciandoti svuotato da ogni senso possibile. E’ questo che lei pubblicò sulla sua pagina social, no? Vale anche per me: replico, è un libro che sto scoprendo e su cui sto lavorando ancora adesso”.

Bene, proferiamo del secondo atto, “Modifica sempiterna”. Ha appena detto che il libro si compone di tre sezioni e che in accordo con Cordelli le due restanti sarebbero state stampate in un arco di tempo da voi circoscritto. Però in questa sezione scrive: “…io scruto l’urna da mattina a sera/ pedinando d’avvertire l’incomprensibile/ incarnando mantra degli assennati d’Oriente/ intorno agitando campanelle/ e colpi nelle ciotole di metallo/ e bianco latte di mucca versato/ com’è d’uso nei riti funerari tibetani/ sempre indugiando segnali percezioni dispacci/ dall’invisibile e dall’universo/ perché spetta a me ora dare voce/ e novella lingua al tuo cuore bruciato/ in manifesto silenzio”; e ancora: “Fruscii, rumori, voci ovattate,/ presenze e impronte sul letto/ di notte mi destano d’improvviso,/ -sei tu? M’alzo, perlustro stanze/ della casa, anche i gatti sono fuggiti/ pei loro giri serali, appaiamo solo io e te;/ ma resti sigillato per bene nel tuo scrigno/ e di certo ardua t’è l’impellenza di venirne fuori”. Scusi, ma a me sembra che questi versi siano stati scritti dopo la sua morte.

“Diamine che attenzione!, non le sfugge nulla. Dovrei qui soffermarmi sul processo creativo, mutato notevolmente in questi ultimi anni. Sa bene come la musa non si presenti ogni mattina per consumare una colazione insieme, tutt’altro. Se da ragazzo ero solito scrivere versi terminandoli nell’arco di qualche minuto senza mai tornarci sopra, adesso annoto idee, sensazioni, percezioni per poi combinarle nell’attimo in cui l’ispirazione è chiara, diretta. Così, mentre per il primo atto tutto era già ultimato, per il secondo e il terzo mi sono lasciato coinvolgere dall’esperienza di questa morte; di conseguenza mi è capitato di inserire nel testo già elaborato influenze e fervori presentatisi dopo. Quindi perché non intercalarle? Il libro per e su Angelo è questo, non è mia intenzione scriverne un altro, accadimento tra l’altro capitato anche col saggio biografico su Dario Bellezza. Inoltre non necessito di licenziare un libro ogni due o tre anni, anche perché il ‘controllo’ da me operato sui versi è ora più pregnante, cioè, è mia intenzione essere certo di quel che vado, non scrivendo, ma licenziando. E’ possibile che quando queste poesie saranno editate per un pubblico vasto vi siano variazioni e modifiche significanti. Intendo dire che, se mi sarà possibile, vorrei eliminare nel testo tutta l’emotività soggettiva dell’esperienza, che deve restare intima e non fruibile a chiunque. Per ciò che concerne la scrittura diretta o la congiunzione delle anime il dialogo sarebbe troppo lungo e trattarlo qui risulterebbe poco esaustivo. Ad ogni modo, si tratta di certezze. Ora, sappiamo bene come ognuno di noi si ponga il quesito di quel che potrà accadere dopo la morte. Alcuni, scettici, non sono intenzionati a indagare sulla questione ed è un peccato poiché penso che arriveranno al capolinea completamente impreparati (del resto non è questo che insegna il buddismo tibetano o la filosofia zen? Mishima era solito dire che, al pari dei samurai, ognuno di noi dovrebbe alzarsi al mattino intuendo che quello potrebbe essere l’ultimo giorno sulla terra e dunque consigliava di essere accorti e preordinati ad un evento possibile in ogni momento). E come ci si preordina? Ascoltando il proprio cuore, la propria anima, la coscienza: la chiami come vuole. Io sono interessato a questa tematica da quando ero piccolo, sia per eventi medianici capitatimi, sia per predisposizione psicologica (la mia poesia ne è deposizione). Come dettole prima, oggi l’argomento è vasto e vi sono pubblicazioni esaurienti; basta andarsele a cercare. Poi ognuno se ne farà una propria idea, inutile discuterne, sono predisposizioni del cuore che debbono essere sostenute, almeno per ciò che mi riguarda e trattiene ancora in questo mondo. Il discorso non muta nemmeno sulla congiunzione delle anime: non siamo mai nati, non siamo mai morti (decantato da Battiato, che si è servito di parecchi trattati buddisti e spirituali per analizzare nei suoi testi simile tematica) è una realtà: essendo anime eterne, noi decidiamo di entrare nel tempo per conseguire esperienze scelte prima di cadere sulla terra. E prima di cadere sulla terra viviamo l’eternità nei vari mondi dell’universo, talvolta anche in gruppi predefiniti (di qui il grado di evoluzione spirituale della propria coscienza), ed è con le anime del nostro insieme di appartenenza astrale che azzardiamo di compiere questo nostro viaggio terrestre. Non esiste il caso, non esistono le coincidenze, non sussistono le anime gemelle: tutto è già sottoscritto prima della partenza dai mondi invisibili, incorporei. Lo so, posso essere preso per pazzo, e dunque? Come ogni argomento di fede tutto questo né si può provare scientificamente (ma anche qui sono state fatte scoperte interessanti), né si può condividere: è qualcosa che vive e alberga nel cuore. Ritengo siano fortunate le persone che l’intuiscono. Ed ora la poesia: la consapevolezza di essere un poeta e un poeta dello spirito s’è marcata nel corso del tempo, e per concretizzarla mi vengono in aiuto gli incorporei (e per tornare all’esperienza di Battiato, questa era una faccenda che egli stesso spiegava benissimo): visioni, indicazioni, pressioni, congetture: tutto viene imboccato alla mente tramite una sorta di trance; del resto, sarebbe possibile scrivere versi simili restando lucidi? Non penso, o perlomeno questa è la mia intuizione, e va bene così. Gli altri commentino come credano, io ho un sogno -poetico, ovvio- e di questo sogno ne faccio bandiera, cosciente che nella mia scrittura non posso più tacere. Una lettura difficile? Può darsi, ma l’esperienza della vita cos’è se non la condiscendenza totale delle problematicità? Evidenza capitata al grande Carlo Coccioli quando, intrattenendosi sui suoi saggi a tematica filosofica religiosa annotava che era ‘cosciente del fatto terribile che ogni giorno si facesse capire sempre meno’. Penso accada a chi è predisposto per il ‘grande evento’. Oltre questo non saprei cosa dire”.

Sia Dario Bellezza che Angelo Cordelli hanno scelto lei per condividere questa esperienza. Se ne è chiesto la ragione? L’attuale numero è dedicato all’eredità. Che tipo di lascito le hanno donato esperienze simili?

“Angelo -da uomo di fede- restò colpito dal saggio su Dario. Non si capacitava in che modo la serenità della presenza di un amico potesse far superare l’angoscia, la paura, la ribellione ad un poeta controverso, ma soprattutto era segnato dalla compassione e dal dono umano reciproco che io e Dario avevamo inteso. Credo fosse conseguenziale per lui scegliermi (con invidia di chiunque, le assicuro: si figuri, per gli altri un parroco che predilige un poeta al servizio dei parrocchiani è indecente): era certo della mia riservatezza, del mio rispetto, della mia deferenza nei riguardi della morte (e in questo sono parecchio buddista: so condurre, è una questione della mia natura, anche poetica; legga “Saper accompagnare” di Frank Ostaseski -sottotitolo, ‘Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte’ o “L’educazione del cuore” di Gibran e capirà cosa intendo), insomma, si fidava, per questo mi ha consegnato le sue ultime volontà e ha preteso che fossi custode delle sue ceneri (vede? Ritorna il suo messaggio: lui mi costudisce dal cielo e io lo sorveglio qui in terra). E poi, mi ha voluto perché ci si voleva bene, ma bene per davvero. Vi sono però delle differenze: quando capitò con Dario ero relativamente giovane, avevo trentaquattro anni, e la relazione, l’esperienza, anche innanzi alla morte e ad una morte per AIDS, era strettamente di natura poetica, ossia anche ingenua, se vuole. Con Dario eravamo amici, ma non strettamente intimi. Più che altro fu lui a percepire in me delle potenzialità che non credevo di possedere. E il suo lascito, soprattutto umano, è in un libro che considero uno tra i miei più sentiti. Con Angelo invece è capitato che s’è siglata una propensione compassionevole, soprattutto ora che la nostra società vede e vive la morte come fatto puramente clinico e l’esperienza del Covid ne è testimonianza. Io invece sono portato a credere che la morte sia un accadimento di enorme valenza non solo psicologica, ma emotivamente spirituale. La relazione con chi amiamo e da cui siamo amati, la concezione di divinità possibili, la conoscenza del dolore, in altri termini, l’altruismo. Ecco perché diviene significativo per chi affronta questa esperienza circondarsi di persone che si ritengono adatte, ossia in grado di raccogliere la sofferenza altrui. Credo -ma potrei cadere in errore- di essere stato un utile spunto di riflessione -anche se in forme diverse- sia per Dario come per Angelo. Prova ne è una struggente lettera che Angelo mi ha scritto due giorni prima di morire all’interno della seconda di copertina del nostro libro; e, ad ogni modo, ho cercato di fare e di dare il meglio che potessi fare o dovessi dare. Oltre le ipocrisie o i conformismi culturali, si è trattato di esperienze che hanno fornito risposte a degli interrogativi spesso perpetui. Sebbene l’eredità umana, misericordiosa, una eredità anche del perdono, è qualcosa difficile da chiarire e risolvere con parole esaustive, penso che ‘Il male di Dario Bellezza’ o ‘KI. Segni dallo spirito’ possano coinvolgere qualsiasi lettore a non respingere nulla, a raccogliere tutto il possibile, a portare dentro di loro esperienze simili, a mettervi sé stessi, interamente. Non si può scacciare il dolore, ogni dolore: è una via alla integrità del cuore; solo così si può capire che ogni contatto non è solo eredità, ma un meraviglioso dono”. 

Cosa pensa di aver raggiunto con queste nuove poesie? Mi sembra di ricordare che quando uscì la sua opera omnia lei era intenzionato a sospendere nuove  pubblicazioni…

“E’ vero. Poi però accadono eventi che coinvolgono il tuo sentire e, per quel che mi riguarda, alcuni sentimenti riesco a esporli solo in poesia. Il mio rifiuto di pubblicare va di pari passo con una crescita spirituale che non necessita di riscontri, per lo meno pubblici. Si tratta di una ricerca che coinvolge l’interiorità e non l’esteriorità. Forse è per questo che lo stile usato adesso può risultare enigmatico, e per chi ha poca frequentazione con letture specifiche, il ‘KI, può conseguire una dolorosa spina nel fianco: non solo ragguaglio di come la vita non termini con la morte fisica, ma resa ad una gioia che non è felicità (la felicità è fatta di momenti e di forme di dipendenza; la gioia invece permea l’essere nel profondo), ma risveglio dell’amore. I saggi indiani indicano come noi ‘siamo amore e viviamo nell’amore. Siamo in uno stato d’amore con tutti gli esseri senzienti; impariamo, cioè, ad accettare che siamo un’unica coscienza, un’unica famiglia, in molti corpi diversi’ (e qui torniamo al tema della congiunzione delle anime. Vede? Si tratta di un serpente che si morde la coda, null’altro); perlomeno questa è la lezione, ad esempio, di Ram Dass, divulgatore di filosofie orientali quando afferma che ‘una volta che si è sperimentato l’amore incondizionato, non possiamo più fuggire. Possiamo correre, ma non nasconderci. Il seme è piantato e crescerà a suo tempo’. Come dire che l’amore è uno stato dell’essere e non di certo un viaggio interminabile di chilometri e chilometri per trovare una felicità apparente, che non può essere tale se non emerge dal nostro cuore, da dentro di noi. Insomma, bisogna prendere come esempio l’esperienza di Cristo, che si è dissolto nell’amore, talmente disperso che in nome dell’amore s’è lasciato ammazzare. E i veri poeti che altro sono se non la deduzione di saper avvertire l’amore con evidenza cosmica? Non so cosa potrei aver raggiunto con i versi del ‘KI’, ma resto certo che segna uno spartiacque tra ciò che ho scritto prima e quel che sto scrivendo adesso, e ‘Sigillo di spine’ ne è conferma: c’è un prima e ora c’è un dopo. Il dopo è il ‘KI’. Ed è in questo anomalo seguito che credo si possa rintracciare il senso di una necessità che spinge l’animo ad affrontare tematiche poco comuni in poesia (ma poi mica tanto inusuali se leggiamo le poesie di Blake o di Clemente Rebora o di Turoldo). Forse la soluzione è nel perdersi, nell’abbandonarsi all’amore delle anime, un amore che proviene dall’essenza più elevata dell’essere (anche questo concetto lo spiega molto bene Ram Dass). Perlomeno la poesia dovrebbe innalzare simili stati dell’animo. Ah, sì, ovvio: non è detto che io ci riesca, magari resta solo una mia illusione, ma so per certo che in ‘KI. Segni dallo spirito’, oltre all’esperienza e alla dimostrazione della prosecuzione della vita dopo la morte, vi è l’intero mio vissuto poetico, una sorta di biografia dell’anima, una summa sul come muta e si trasforma un pensiero, uno spirito, un cuore; modifica che a sua volta può creare quella vibrazione empatica che permette di sbrogliare l’intricato mosaico che si chiama vita”.