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Coerenza: s.f., fedeltà di una persona ai propri principi, conformità costante tra le sue parole e le sue azioni. E’ questa la definizione di coerenza sul vocabolario, un termine a cui collettivamente si dà un significato positivo. Soprattutto se paragonato al suo contrario: l’incoerenza. Nell’immaginario collettivo, la coerenza è una qualità positiva, caratteristica delle persone affidabili, ma anche prevedibili. In alcuni casi, la coerenza può diventare persino un’ossessione, però, una sorta di trappola che non consente di modificare il proprio pensiero per il timore di risultare incoerenti. Per dirla con Oscar Wilde, “la coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”. Ecco, quindi, che la coerenza appare come un concetto ampio e fluido, che segue inevitabilmente l’evoluzione e il cambiamento di ciascuno di noi, sotto l’influenza di esperienze che ti cambiano. L’incoerenza rispetto a un precedente “schema mentale” non è pertanto un dato negativo, quanto il frutto di un percorso di maturazione dell’io. 

Un soggetto difficilmente riuscirà a essere coerente per tutta la sua vita. Ciò in cui credevo a 18 anni, appena finito il liceo, sulle relazioni umane, sull’orientamento politico, non è quello in cui mi identifico oggi. Per questo dovrei essere considerata incoerente? No. Sebbene siano rimasti fissi alcuni punti cardine sul comportamento da adottare relazionandomi con gli altri, l’esperienza e la maturità mi hanno insegnato a ponderare bene le scelte, a reagire meno d’impulso e più con la testa per non essere fagocitata in un mare di squali. Tenendo, però, a mente il principio di non essere uno squalo. In questo caso specifico, la coerenza è strettamente legata al concetto di morale. Un discorso analogo sulla coerenza degli ideali può essere fatto sulle scelte politiche, che possono essere modificate a volte per la deriva del partito politico in cui ci si identificava e/o per un mutato scenario della società e dei fatti storici. In definitiva, la coerenza a tutti i costi o un cambio di idee altalenante sono degli estremi da evitare, nel limite del possibile, ma non cambiare idea è innaturale. Come dicevano i latini “Est modus in rebus” (C’è una misura nelle cose)!

In un universo dove tutto vibra, pulsa, ondeggia e scintilla, la coerenza è quel raro miracolo fisico che riesce a mettere d’accordo le onde come se fossero l’equipaggio perfettamente addestrato dell’Enterprise. Niente a che vedere con il caos quotidiano, dove ognuno va per conto proprio: qui si parla di ordine, di fase, di armonia.

La coerenza è la differenza tra rumore bianco e sinfonia cosmica, tra un temporale improvviso e una nota tenuta da un coro di fotoni disciplinati. Prendiamo il laser, per esempio, non il blaster di Han Solo, ma il vero raggio di luce coerente, dove tutti i fotoni sono in fase, viaggiano nella stessa direzione, con la stessa energia: una sorta di marcia imperiale fotonica, forse anche più precisa.

Grazie proprio a questa coerenza possiamo fare cose straordinarie: tagliare l’acciaio con precisione chirurgica, correggere la vista, oppure misurare le impercettibili increspature dello spaziotempo causate da collisioni tra buchi neri.

In Toscana, a Cascina, c’è un “orecchio cosmico” chiamato VIRGO: un gigantesco interferometro laser capace di rilevare variazioni di lunghezza più piccole di un protone. Un’impresa resa possibile da fasci di luce coerenti, precisi come un’orchestra guidata
da un direttore inflessibile.

Ma cosa ascolta davvero VIRGO? Le onde gravitazionali, ovvero i “boati” cosmici generati da eventi catastrofici come fusioni tra buchi neri, collisioni di stelle di neutroni, esplosioni di supernove o addirittura dal ronzio primordiale del Big Bang. Queste onde increspano il tessuto dello spaziotempo e viaggiano per miliardi di anni fino a noi. È come se l’universo parlasse… e noi avessimo appena imparato ad ascoltarlo.

A proposito di musica: lo sapevi che il Sole suona? Certo non su FM, ovviamente, ma emette oscillazioni coerenti, onde di pressione che rimbalzano al suo interno come vibrazioni in una cassa armonica. Gli astrofisici le studiano con l’eliosismologia, decifrando queste “note” per esplorare l’interno della nostra stella. È una sorta di ecografia stellare… ma in Do maggiore.

E poi ci sono i maser cosmici: segnali naturali di microonde perfettamente coerenti, generati spontaneamente da nubi molecolari o dalle atmosfere di alcune stelle. L’universo, a volte, costruisce da sé i suoi laboratori, produce dispositivi naturali a microonde e li punta verso di noi. È come se ci mandasse messaggi in codice Morse, ma su scala galattica.

Il vero capolavoro di coerenza, però, è l’eco stesso del Big Bang: la radiazione cosmica di fondo. Un debole ma costante segnale a microonde che permea tutto lo spazio e conserva minuscole increspature coerenti, quelle stesse che, crescendo nel tempo, hanno dato origine a tutto ciò che vediamo oggi: galassie, stelle, pianeti, meme di gatti… ah no! Quelli li creiamo noi, che comunque siamo frutto di quella coerente increspatura.

La coerenza è il filo invisibile che cuce la stoffa dell’universo. Quando c’è, tutto vibra all’unisono. Quando manca, le onde si scontrano, si cancellano,
producono rumore. Ma quando funziona… succede la magia: l’universo canta. E noi siamo una delle sue sinfonie.

Il 26 giugno 2025 è escito il videoclip ufficiale della personale interpretazione del brano “Chi tene ‘o mare” del cantautore romano Davide Mottola. Un omaggio rispettoso e viscerale a Pino Daniele, ma anche molto di più: una dichiarazione sensibile, poetica e profonda su cosa significhi “avere il mare dentro”.

Link: https://www.youtube.com/watch?v=f1bMtPMYef4

In un tempo in cui la sensibilità sembra una debolezza e la purezza interiore un ostacolo, Davide Mottola sceglie di cantare “Chi tene ‘o mare” non solo come tributo a un classico intramontabile della musica italiana, ma come atto di resistenza emotiva. Perché “chi tene o mare”, oggi, è chi custodisce dentro di sé un mondo fragile, potente e ribelle.

La sua versione del brano – intensa, intima, attraversata da un’urgenza autentica – parla del mare come simbolo dell’inquietudine, della forza gentile, della bellezza che cerca ancora di non soccombere. Il mare non è solo acqua e orizzonte: è l’universo interiore di chi sente tutto troppo, di chi non si arrende all’indifferenza, di chi continua a emozionarsi, a cadere e a rialzarsi. È la metafora di chi combatte ogni giorno per restare umano in un mondo che anestetizza.

Con la regia evocativa del videoclip (dal 26 giugno sul canale ufficiale della Long Digital Playing, etichetta discografica dell’artista), Davide Mottola ci accompagna in un viaggio in cui l’ascolto diventa riconoscimento. Un invito silenzioso ma potente a guardare dentro di sé, a ritrovare quel mare che ognuno di noi – anche se dimenticato, anche se ferito – ancora custodisce.

“Chi tene o mare” non è solo chi guarda lontano: è chi porta dentro la profondità e la tempesta. È chi sa che la sensibilità è una forma di coraggio. È chi canta per restare vivo.

Un successo travolgente ha suggellato il Memorial Morricone, tenutosi il 6 luglio all’Auditorium della Conciliazione di Roma. In occasione del quinto anniversario della scomparsa del Maestro Ennio Morricone, l’evento organizzato da Federcori Lazio, presieduto da Luigi Ferrante, ha visto la sala gremita in ogni ordine di posto e un pubblico entusiasta, culminato in lunghi applausi, richieste di bis e un’atmosfera di profonda commozione.

Il concerto ha rappresentato un intenso e raffinato omaggio al genio morriconiano, con l’esecuzione di alcune delle sue colonne sonore più iconiche: The Mission, Il segreto del Sahara, Giù la testa, C’era una volta in America e molte altre.

Sul palco si sono esibiti circa 200 interpreti, tra cui un coro di oltre 100 voci selezionate tra le migliori formazioni romane federate a Federcori Lazio – Chorus Inside Lazio, e l’Orchestra Xylon, composta da 50 musicisti professionisti, diretta dal M° Paolo Matteucci, figura di rilievo internazionale.

A impreziosire la serata, la presenza di artisti di grande talento, tra cui la cantante Viviana Ullo, la pianista Licia Missori, il primo violino Andrea Paoletti, il cornista Stefano Berluti, il trombettista Sergio Vitale, il flautista Lorenzo Corsi e Danilo Paludi, baritono solista nel brano Mosè.

Fondamentale è stato il contributo dei Maestri preparatori dei cori coinvolti: Michele Josia, Dina Guetti e Gianluca Buratti, che hanno garantito un livello artistico di assoluta eccellenza.

Il Presidente di Federcori Lazio, Luigi Ferrante, ha sottolineato: «Il Memorial Morricone è stato uno dei più importanti eventi sinfonico-corali dell’anno a Roma. Con circa 150 coristi, 50 orchestrali ed eccellenti maestri preparatori, Federcori Lazio ha dimostrato grande forza organizzativa e valore artistico, rappresentando oggi ben 178 cori. Mettere insieme professionisti e cantori di dieci diverse realtà romane è stata una sfida vinta, che conferma il mondo corale amatoriale capace di realizzare eventi di alto livello e impatto culturale.»

Il M° Paolo Matteucci ha dichiarato: «Il Memorial Morricone è stato un evento straordinario che ha dimostrato come la musica del Maestro possa unire ed emozionare un pubblico di ogni età e preparazione, dagli esperti agli appassionati, dalle famiglie con bambini fino ai più grandi cultori. Ho avuto l’onore e l’orgoglio di dirigere un ensemble di circa 200 artisti, tra orchestra e coro, tutti animati dalla stessa passione per un repertorio che è patrimonio universale. La qualità degli interpreti, arricchita dall’eccellente contributo dei solisti, ha reso il concerto un’esperienza unica, capace di trasmettere l’anima e la magia delle colonne sonore di Ennio Morricone a un pubblico vasto e variegato.»

Tra gli ospiti d’onore, numerosi giornalisti. Tra il pubblico si sono distinti ospiti di rilievo, tra cui alte cariche del Vaticano, dirigenti imprenditoriali e rinomati direttori d’orchestra e di coro.

Il Memorial Morricone 2025 si è confermato come un evento di altissimo profilo culturale, capace di unire istituzioni, artisti e pubblico sotto il segno della grande musica italiana.

La foto è stata gentilmente concessa dalla signora Palma Navarrino.

Il mondo attuale è sempre più “liquido” e cambia ad una velocità vertiginosa, eppure c’è qualcosa che, più di ogni altra cosa, resta come un faro nella tempesta: la coerenza.

Essere coerenti infatti non significa semplicemente ripetere se stessi, ma rimanere fedeli ad un principio, ad un’idea, ad una visione del mondo, anche quando conviene poco, anche quando è scomodo.

               “ La coerenza è il coraggio di restare fedeli a ciò in cui si crede,
anche quando tutto ci spinge a voltare le spalle. ”

Può forse sembrare un atto di eroismo pure, in un tempo in cui l’opinione sembra possa cambiare a ogni scroll sullo schermo, ma c’è da essere consapevoli che questa è una sensazione. I social media ci espongono a giudizi continui, e a volte essere coerenti può portare all’isolamento, all’incomprensione, persino al “fallimento”. Ma la coerenza è anche ciò che dà senso alle nostre parole, struttura alla nostra identità, dignità alle nostre scelte. È ciò che ci permette, guardandoci allo specchio, di riconoscerci.

E anche questo “mondo” può sembrarci “unico nel suo genere”, vorrei sottolineare che la coerenza ha avuto le sue stelle polari – al plurale – anche nella Storia, che hanno difeso i propri principi senza seguire la “convenienza” né tantomeno lo spirito di “uniformarsi” alle persone o al “comune sentire” di quel periodo storico.

Mahatma Gandhi, ad esempio, è un simbolo di coerenza nella lotta per l’indipendenza dell’India attraverso la non-violenza.

Nonostante le numerose provocazioni e difficoltà, Gandhi rimase fedele ai suoi principi di “ahimsa” (non-violenza) e “satyagraha” (la forza della verità). La sua coerenza non solo ispirò milioni di persone in India, ma divenne un faro di speranza per i movimenti di libertà in tutto il mondo.

Un altro esempio è Nelson Mandela, che dedicò la sua vita alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Nonostante 27 anni di prigionia, Mandela non abbandonò mai il suo impegno per la giustizia e l’uguaglianza. La sua coerenza nel perseguire la riconciliazione nazionale, invece della vendetta, è un esempio straordinario di come i principi possano guidare le azioni anche nelle circostanze più difficili.

Avrebbero potuto vendicarsi delle angherie subite e delle sofferenze, ma hanno preferito incarnare fino in fondo i principi che li ispiravano.

Anche più indietro nel tempo con Socrate che bevve la cicuta pur di non rinnegare il proprio pensiero, e Giordano Bruno che preferì il rogo all’abiura o Rosa Parks che restando seduta in quell’autobus diviso tra bianchi e neri è stata coerente con un’idea di giustizia che non aveva ancora trovato spazio nel suo Paese.

Il coraggio di seguire i propri ideali, il proprio pensiero fino all’estremo sacrificio in alcuni casi o iniziando una battaglia legale lunghissima.

Principi e idee, ma anche azioni, perché la prima cosa del “coraggio di seguire i propri principi” è quello di praticarli, di mostrarli nelle proprie azioni.

             “ Stai attento ai tuoi pensieri, perché diventeranno le tue parole.
Stai attento alle tue parole, perché diventeranno le tue azioni.
Stai attento alle tue azioni, perché diventeranno le tue abitudini.
Stai attento alle tue abitudini, perché diventeranno il tuo carattere.
Stai attento al tuo carattere, perché diventerà il tuo destino.   “

Essere coerenti è una scelta che richiede forza interiore. Non è testardaggine cieca, ma adesione consapevole ai propri valori.

Direi che in un mondo che cambia, la vera rivoluzione è restare fedeli a ciò che conta. E in un mondo che cambia ancora più velocemente che in passato, i principi devono continuare a far da guida.

🎬 1. Codice d’Onore (A Few Good Men) – Rob Reiner (1992)
Al Naval Base di Guantánamo Bay, due Marines – Dawson e Downey – sono accusati dell’uccisione del collega William Santiago durante un “codice rosso” non ufficiale. Il tenente Daniel Kaffee (Tom Cruise), noto per patteggiamenti rapidi, viene assegnato alla difesa, coadiuvato dalla tenente Joanne Galloway (Demi Moore), che sospetta un coinvolgimento di un ordine superiore. Tra interrogatori e prove, scoprono che il colonnello Nathan Jessep (Jack Nicholson) ha effettivamente ordinato il “codice rosso”. Nel celebre scontro finale in aula, Kaffee provoca Jessep fino ad ottenere la storica confessione: “Tu non puoi reggere la verità!” – “You can’t handle the truth!”

🎬 2. V for Vendetta – James McTeigue (2005)
In un futuro distopico, la Gran Bretagna è sotto un regime totalitario. Un misterioso rivoluzionario mascherato, conosciuto come “V”, organizza un’insurrezione contro il governo e salva Evey, una cittadina oppressa. Attraverso attentati mirati e trasmissioni televisive, V scuote la popolazione. Pur rimanendo nei limiti della legalità, dimostra che la coerenza ai propri ideali – giustizia, libertà – può scatenare il cambiamento.

🎬 3. Erin Brockovich – Forte come la verità – Steven Soderbergh (2000)
Erin Brockovich (Julia Roberts), madre single senza laurea, lavora in uno studio legale. Scopre che la Pacific Gas & Electric sta contaminando l’acqua potabile di Hinkley (California) con il cromo esavalente. Pur ignorata all’inizio, Erin raccoglie testimonianze, insiste nonostante le minacce e vince una causa storica, ottenendo un risarcimento record (330 milioni $). Il suo coraggio e coerenza hanno portato giustizia alle vittime.

🎬 4. Gran Torino – Clint Eastwood (2008)
Walt Kowalski, reduce della guerra di Corea, vive da solo a Detroit, con forti pregiudizi verso i vicini Hmong. Un giorno, il giovane Thao tenta di rubare la sua Gran Torino sotto costrizione di una gang. Walt interviene con la sua arma: questo gesto segna l’inizio di un legame con Thao e sua sorella Sue. Alla fine, per proteggere la famiglia da uno scontro con la gang, Walt si sacrifica fingendo di avere un’arma, provocando la sua stessa morte – ma salvando Thao da un destino peggiore. In testamento lascia la Gran Torino a lui reddit.com+9en.wikipedia.org+9spoilertown.com+9.

🎬 5. L’Attimo Fuggente (Dead Poets Society) – Peter Weir (1989)
Nella rigida accademia Welton, il professore John Keating (Robin Williams) insegna ai suoi studenti a seguire le proprie passioni, declamando il motto carpe diem. Gli studenti studiano poesie segreti e ricreano il loro club letterario in una “grotta”. Il percorso porta Elliot Perry a superare la paura, e Neil Perry – sfidando il padre – recita il suo sogno di teatro. Alla fine, Neil si suicida quando il padre lo obbliga a fermarsi: i ragazzi proclamano “Oh Captain! My Captain!” in segno di lealtà alla coerenza morale di Keating.

🎬 6. Braveheart – Cuore impavido – Mel Gibson (1995)
William Wallace guida la resistenza scozzese contro gli inglesi dopo l’uccisione della sua amata. Con discorsi pubblici e battaglie strategiche, incarna la lotta per la libertà nazionale. Catturato e torturato, rifiuta di rinnegare il suo ideale: proprio morendo, grida “Freedom!” – diventando un simbolo immortale della coerenza con la sua causa libertaria.

🎬 7. Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons) – Fred Zinnemann (1966)
Basato sulla storia di Thomas More, Lord Cancelliere di Enrico VIII. Quando il re decide di creare la Chiesa Anglicana per sposare Anna Bolena, More – uomo religioso e leale – si rifiuta di firmare un atto che lo contraddice moralmente. Non cede nonostante l’arresto, il tradimento da parte di amici e la minaccia di esecuzione. Viene giustiziato coerentemente con la sua fede.

🎬 8. La Parola ai Giurati (12 Angry Men) – Sidney Lumet (1957)
Dodici giurati si ritrovano in una stanza claustrofobica per decidere sul destino di un ragazzo accusato di parricidio. Al primo voto iniziano 11-1. Juror #8 (Henry Fonda) comincia a svelare dubbi fondamentali: l’affidabilità dei testimoni, la vista obliqua della finestra, la costruzione del coltello, la voce al tatto. Uno ad uno, i giurati cambiano opinione: emergono pregiudizi, caratteri intensi, emozioni umane. Alla fine il voto è unanime per l’assoluzione, grazie alla coerenza con l’idea di giustizia basata su «ragionevole dubbio» rogerebert.com+1it.wikipedia.org+1.

🎬 9. Selma – La strada per la libertà – Ava DuVernay (2014)
Nel 1965, Martin Luther King Jr. guida la marcia da Selma a Montgomery, in Alabama, per ottenere il diritto di voto per gli afroamericani. Malgrado brutalità e arresti, King insiste sulla nonviolenza: migliaia di persone marciarono, la marcia passò per il ponte Edmund Pettus sotto lo slogan “We Shall Overcome”. Il suo impegno coerente alla giustizia civile influenzò l’America e portò al Voting Rights Act.

🎬 10. The Crucible (Il crogiuolo) – Nicholas Hytner (1996)
Ambientato nella Salem del 1692 durante i processi alle streghe, racconta di John Proctor, un uomo accusato di stregoneria. Per salvarsi dovrebbe accusare altri o ammettere un crimine non commesso. Rifiuta entrambe le soluzioni, pur sapendo che ciò gli costerà la vita. Dichiara: “Perché è il mio nome!” – coerente con la verità e la dignità personale.

Come “bonus” aggiungo un film del 1979 che a mio avviso è il punto più alto della capacità attoriale di uno dei “grandi” di Hollywood.
“E giustizia per tutti” è un dramma giudiziario che esplora il sistema legale americano mettendone in luce ipocrisie, contraddizioni e ingiustizie strutturali.
Al Pacino interpreta Kirkland, un avvocato idealista e integerrimo, al quale viene chiesto di difendere un giudice corrotto (interpretato da Jack Warden) accusato di stupro, lo stesso giudice con cui in passato aveva avuto scontri duri in aula. Kirkland si trova così combattuto tra l’etica professionale e la propria coscienza, tra il dovere di difendere un cliente e il desiderio di verità e giustizia. Il film affronta temi come l’abuso di potere, la burocrazia cieca della legge, la perdita di fiducia nel sistema giudiziario e la solitudine di chi cerca di restare onesto in un ambiente marcio.

Un nodo allo stomaco, il cuore che batte più forte, tanto da poterlo sentire nelle orecchie.

Succede ogni volta che si sta per esordire. Il primo giorno di scuola, il primo colloquio di lavoro, il primo passo davanti ad un pubblico. Ogni “prima volta” è un piccolo terremoto, un punto di svolta, un evento che ci costringe a fare i conti con l’immagine che vogliamo dare di noi — e con quella che gli altri ci restituiscono.

Esordire è entrare in scena. E quando lo facciamo, il mondo, il nostro mondo, ci guarda.

Ricordiamo tutti almeno un primo giorno di scuola: lo zaino nuovo, scarpe lucidate, l’odore dei quaderni ancora bianchi. Una sensazione strana: eravamo ancora noi stessi, ma stavamo per diventare qualcosa di diverso. La porta si era chiusa alle spalle, per entrare in un nuovo “te”.

Quella giornata non è solo un fatto logistico: è un rito. Come lo è il primo giorno di lavoro, con il vestito stirato la sera prima, l’ansia di arrivare puntuali, il sorriso di circostanza, la sensazione di non sapere bene chi si è in mezzo a sconosciuti.

Quei “primi giorni” non sono solo passaggi nel tempo: sono soglie di trasformazione, veri e propri atti iniziatici.

Riti di passaggio: il sacro nella vita quotidiana

Tutte le culture abbiano rituali di passaggio. Ogni società ha bisogno di marcare il momento in cui un individuo passa da uno stato all’altro: da bambino a giovane, da apprendista a maestro, da estraneo a membro della comunità.

Nelle religioni, questi passaggi diventano riti sacri. Nella tradizione cristiana, la prima comunione è un esordio: il primo incontro consapevole con il sacro, l’ingresso simbolico nel mondo degli adulti della fede. Per i ragazzi ebrei, il Bar mitzvah (per i maschi) e il Bat mitzvah (per le femmine) rappresentano l’assunzione di responsabilità morali e religiose. In altre culture esistono riti di passaggio tribali, iniziazioni simboliche, cerimonie di taglio dei capelli, prove fisiche o spirituali da superare.
Gli adolescenti della tribù Sa, nelle Vanuatu (Melanesia) hanno anche loro un rito di iniziazione, ma devono esibirsi nel rituale del Naghol (tuffo a terra, da una torre alta 18 metri) per poter diventare ufficialmente grandi.

La lunghezza delle liane, fissate alle caviglie, è calcolata in modo che l’impatto con il suolo venga evitato per pochi centimetri.

Il bungee jumping e i rischiosi salti nel vuoto da una torre o da un ponte che si fanno qui nell’Occidente “civile”, deriva da questo antico rito.

Ma cosa ci dicono questi riti? Che l’essere umano ha bisogno di dare significato agli inizi. Esordire non è solo “fare qualcosa per la prima volta”. È cambiare stato. È diventare qualcun altro, alla luce del mondo.

L’ansia da esordio: quando l’inizio fa paura

In tutte le forme di debutto c’è una tensione profonda. Esordire significa esporsi al giudizio altrui, ma anche — e forse soprattutto — al proprio. Significa mettere alla prova l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi. E spesso temiamo di non esserne all’altezza.

Questa paura ha un nome: performance anxiety. È quell’ansia da prestazione che ci blocca prima di parlare in pubblico, che ci fa sudare durante un esame, che ci fa dubitare di ogni nostra parola al primo giorno in ufficio.

Non è debolezza: è umanità. Dietro questa ansia si nasconde il desiderio profondo di essere accettati. Eppure, paradossalmente, solo affrontandola possiamo superarla. L’ansia dell’esordio non si elimina: si attraversa. Proprio come i riti di passaggio.

Il primo fallimento: quando l’inizio inciampa

Non tutti gli esordi finiscono in gloria. Anzi, molti iniziano male. La prima presentazione può essere un disastro. Il primo appuntamento può essere imbarazzante. Il primo tentativo di un progetto può crollare su se stesso. E questo è normale.

Ma nella nostra cultura, così ossessionata dal successo immediato, il fallimento iniziale viene spesso vissuto come una condanna. Come se l’essere bravi fin dall’inizio fosse l’unica prova di valore.

La realtà è molto diversa. Il primo fallimento non è la fine: è parte del processo. È lì che si impara. È lì che si costruisce la resilienza, la capacità di rialzarsi, di affinare, di correggere il tiro. Il vero esordio non è solo il primo gesto, ma anche la prima volta che si sbaglia e si sceglie di continuare.

Molti grandi hanno iniziato male. Walt Disney fu licenziato perché “non aveva idee”. Stephen King vide rifiutato il suo primo manoscritto più di venti volte. J.K. Rowling scrisse Harry Potter da madre single e fu respinta da dozzine di editori.

Il loro successo non fu “non fallire”. Fu non smettere.

La sacralità dell’inizio

Forse dovremmo recuperare un senso più profondo dell’inizio. Dargli tempo, rispetto, spazio. I riti religiosi ci insegnano che ogni passaggio è sacro perché trasforma. Che ogni nuovo stato ha bisogno di un simbolo, di un tempo di attesa, di una comunità che lo riconosca.

Nelle nostre vite moderne, frenetiche e ipercompetitive, abbiamo perso la ritualità del primo passo. Ma possiamo ritrovarla. Accogliendo chi inizia. Offrendo incoraggiamento invece di giudizio. Rispettando l’incertezza. E, soprattutto, riconoscendo che ogni inizio è anche un atto di fede — nella vita, in noi stessi, negli altri.

Conta avere il coraggio di cominciare, nonostante la paura, nonostante l’imperfezione.

Perché sì, il mondo ci guarda. Ma è solo guardando che possiamo finalmente essere visti.

Il progetto mira a sostiene iniziative finalizzate a contribuire al raggiungimento degli obiettivi della missione dell’Unione Europea “Restore Our Ocean and Waters by 2030” rivolto alla salvaguardia e alla conoscenza della Poseidonia e all’importanza della sua presenza nel mare Mediterraneo.

L’Istituto Comprensivo IC Padre Semeria di Roma ha vinto il prestigioso bando europeo SHORE Open Calls. SHORE – Sharing Our Roots for the Environment che rivolge l’attenzione verso l’ambiente marino come bene comune europeo. Il percorso risponde ai Goal 4, 13, 14, 15 e 17 dell’Agenda 2030, integrando le competenze digitali DigComp 2.2 per promuovere una cittadinanza consapevole, attiva e creativa. Il progetto è rivolto alle classi seconda di scuola primaria in continuità con la sezione musicale della scuola media. Shore è un’esperienza educativa interdisciplinare, sensoriale e partecipativa per una cittadinanza attiva, incentrata sulla tutela del Mar Mediterraneo e della Posidonia oceanica, pianta fondamentale per l’ecosistema marino.

L’iniziativa ha potuto contare sull’apporto decisivo della Dirigente Scolastica Serenella Presutti open mind e di tutto lo staff di segreteria.

Tutto questo è stato possibile grazie all’unione dei tanti professionisti dove ognuno investe nella propria crescita personale e collettiva per il bene e la bellezza dei nostri ragazzi offrendo loro diverse occasioni di apprendimento sperimentando, facendo, fare per imparare a fare. Questo progetto ambizioso mira a migliorare l’alfabetizzazione marina degli studenti delle scuole primarie e secondarie, mettendo i giovani in condizione di diventare agenti del cambiamento ed eco-cittadini responsabili. Si articola in attività esplorative, creative e digitali in collaborazione con importanti realtà scientifiche e culturali. Gli alunni sono accompagnati dai biologi marini dell’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale -, per fornire contenuti, informazioni e strumenti per comprendere il valore degli habitat marini e dei cambiamenti climatici.

“E’ un esempio di come l’alleanza scuola e famiglia, quando funziona, produce i suoi risultati – commenta Barbara Riccardi, Ambasciatrice Global Teacher Prize -, grazie anche all’impegno di tempo e professionalità della mamma project manager della classe IID, Andrea Rachele Fiore che ha saputo mettere a sistema quanto pensato, con il supporto dei processi conoscitivi e informativi nello specifico sui contenuti redatti da parte dei biologi marini di ISPRA, referente Barbara La Porta Coordinatrice progetto LIFE S.E.POS. S.O. e referente dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” ed esperto tecnico-scientifico dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Ecosistema Spiaggia”, che prestano il loro operato come formatori da anni nelle nostre classi dando le giuste informazioni per la crescita sostenibile a supporto nel prenderci cura del nostro mare, da parte di noi adulti e di loro, i nostri ragazzi, il nostro futuro già attuale”.

Le attività messe in campo per la formazione e la crescita di tutta la comunità scolastica, sono partite il 5 maggio presso l’IC Padre Semeria Roma al teatro del plesso Principe di Piemonte con il primo incontro formativo dedicato alle classi delle II scuola primaria, grazie all’intervento dei biologi marini: Tiziano Bacci Coordinatore progetto LIFE S.E.POS.S.O. ed esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Monica Targusi referente ed esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Fabio Bertasi esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Paola La Valle referente dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Ecosistema Spiaggia”dell’ISPRA. 

Il progetto mira a sostenere iniziative finalizzate a contribuire al raggiungimento degli obiettivi della missione dell’Unione Europea “Restore Our Ocean and Waters by 2030” rivolto alla salvaguardia e alla conoscenza della poseidonia e all’importanza della sua presenza nel nostro mare, il mar Mediterraneo. Tra le attività previste, l’IC Padre Semeria avvierà una serie di attività innovativi tra cui workshop, incontri, corsi di formazione, mostre e conferenze, tutti volti a sensibilizzare e formare studenti ed educatori su temi ambientali cruciali. Il 14 maggio sarà l’occasione per far osservare attraverso lenti di ingrandimento, toccare e riconoscere la poseidoniadirettamente sulle spiagge di Sant’Agostino di Civitavecchia dove i biologi marini saranno le guide esperte per questa esperienza unica. Nella stessa giornata è prevista la visita alla Lega Navale di Civitavecchia che ci ospiterà per un altro momento informativo e formativo per i nostri giovani ambientalisti. Partner del progetto SHORE è l’Università di Padova con la facoltà di biologia e il Museo dei bambini Explora di Roma dove le classi praticheranno laboratori esperienziali variegati inerenti l’educazione ambientale e la tutela del mare. Sul piano internazionale, la nostra scuola collabora in gemellaggio con la École Saint Jacques di Parigi, promuovendo un dialogo interculturale e una sensibilità ambientale condivisa per la conoscenza delle nostre due realtà, Roma e Parigi. Il 3 giugno sarà l’occasione per ritrovarsi tutti insieme per lo spettacolo tratto dal libro Le voci segrete del mare della prof.ssa Mari Caporale dell’Università Sapienza dove gli studenti della sezione musicale, la Fanfaretta composta da 20 fiati, 6 percussioni e 3 attori, realizzeranno la colonna sonora e saranno diretti dai loro professori Marcello Duranti e Vittorio Gervasi, accompagnati dalle note del maestro pianista Martino Orecchioni. Tutto il materiale prodotto, video, interviste, elaborati, foto, disegni, cartelloni, racconti e tutte le testimonianze degli studenti, docenti e genitori saranno raccolte ed inserite nel museo virtuale realizzato ad hoc, grazie all’animatrice digitale e referente del progetto Patrizia Mazzotta sarà accessibile per tutti come forma di apprendimento dinamico e i ragazzi saranno veri e propri ricercatori e guide. I laboratori saranno videoregistrati e tradotti in due lingue, italiano e inglese, garantendo così un accesso gratuito e permanente a risorse educative sostenibili alle scuole della Rete Blu. Questo approccio mira a sviluppare una maggiore consapevolezza verso le sfide ambientali e promuovere comportamenti sostenibili tra i giovani.

Grande orgoglio far parte della coalizione EU4Ocean e della Rete europea delle Scuole Blu, collaborando per la salvaguardia dei nostri oceani e acque interne. Insieme possiamo fare la differenza e ispirare le nuove generazioni a proteggere il nostro pianeta. Facendo parte della Rete delle Scuole Blu questi laboratori daranno la possibilità agli studenti di accedere gratuitamente a opportunità di apprendimento con l’obiettivo di sviluppare una maggiore consapevolezza verso un mondo sostenibile.

L’iniziativa non solo rafforzerà la coalizione EU4Ocean, ma contribuirà anche a costruire una rete europea di Scuole Blu, impegnate nella protezione dei mari e nell’educazione ambientale. La partecipazione attiva dei giovani è fondamentale, attraverso questa esperienza, gli studenti diventeranno agenti del cambiamento e promotori di una cultura di responsabilità verso il nostro pianeta.

Doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo di Nozzi

Da un’idea e per la cura di Roberto Gramiccia

Dal 15 marzo al 4 aprile 2025 

Numeri & Carezze è il titolo della doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi, che è stata inaugurata sabato 15 marzo 2025 presso l’Associazione Culturale Lavatoio Contumaciale di Roma.

Ideata e curata da Roberto Gramiccia, l’esposizione si colloca all’interno di una location suggestiva, sede dell’Associazione culturale fondata nel 1974 da Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna), in collaborazione con Filiberto Menna celebre critico d’arte, e oggi diretta da Grazia Menna.

La ragione del titolo, solo apparentemente bizzarro, risiede nel desiderio del curatore di portare a sintesi in due parole l’universo di senso entro il quale si colloca e da cui trae linfa l’immaginario creativo di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi. 

Scrive Gramiccia: «Numeri, infatti, è lemma che individua i territori sconfinati della certezza matematica, quella che nella nostra tradizione greca viene fatta risalire ad Archimede ma che ha origini ancora più antiche e provenienza molto più a Oriente rispetto all’area del Mediterraneo e della Magna Grecia. Quello dei numeri è il mondo che fa riferimento a quella razionalità calcolante che informa di sé, oggi più che mai, il pensiero unico, prono di fronte alle logiche di un universo fatto di fredde cifre, di mercato e di tecnologia. 

Carezze invece è parola che allude a una polarità opposta. Quella che si riconduce alle province dell’incertezza amorosa, dell’eros, del sentimento, del coraggio e della tenerezza che reca conforto a quella debolezza che trae origine dalla fragilità umana rassegnata. La carezza richiama alla mente il gesto della madre verso il bambino o dell’amante verso l’amata. Simbolo in entrambi i casi di energie primordiali. Ma sciocco sarebbe pensare che nel pensiero razionale il “cuore” non abbia cittadinanza, come insegnano le attuali neuroscienze».

Le pareti dell’Ex Lavatoio diventano così il teatro di una scena armoniosa, simbolicamente in bilico tra i lavori bidimensionali di Caterina Ciuffetelli e le tre dimensioni spaziali delle opere di Paolo Di Nozzi. 

La visione d’insieme restituisce il senso di una compenetrazione di anime e visioni, con la “geometria sentimentale” di Ciuffetelli che dialoga con il “poverismo barocco” di Di Nozzi, nel solco di un percorso all’insegna di una verità misconosciuta: materia e spirito, come razionalità e sentimento, non sono realtà in competizione tra loro ma facce di un’unica medaglia. 

Ufficio stampa della mostra

Ginevra Amadio (392 5315976) –  ginevraamadio@yahoo.it / ginevraamadio@gmail.com

Ingresso gratuito

Dal Martedì al Giovedì solo per appuntamento telefonando al 335.1364569; 

Il colore non è semplicemente una proprietà fisica degli oggetti, ma un fenomeno complesso che nasce dall’interazione tra la luce, l’oggetto che riflette o assorbe la luce e la percezione visiva dell’occhio umano. La scienza del colore è un campo che esplora come vediamo e interpretiamo i colori, le loro proprietà fisiche e come il nostro cervello li elabora. In questo articolo, esploreremo i fondamenti scientifici del colore, dalla teoria della luce alla percezione visiva.

La luce e la teoria del colore

Alla base della percezione del colore c’è la luce. La luce bianca, che percepiamo come una miscela di tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico visibile, può essere separata in una gamma di colori attraverso un prisma. Questo fenomeno fu studiato da Isaac Newton, che nel 1666 dimostrò che la luce bianca è composta da una serie di colori, visibili quando la luce passa attraverso un prisma. Questi colori corrispondono a lunghezze d’onda specifiche della luce, che vanno dal rosso (lunghezza d’onda più lunga) al violetto (lunghezza d’onda più corta).

Secondo la teoria di Newton, i colori primari che costituiscono lo spettro sono rosso, verde e blu, che combinati in varie proporzioni possono produrre una vasta gamma di colori. Questo principio alla base della sintesi additiva è essenziale per la produzione dei colori sui display elettronici, come quelli dei televisori o degli schermi dei computer.

La percezione del colore nell’occhio umano

Quando la luce colpisce un oggetto, esso assorbe alcune lunghezze d’onda e ne riflette altre, che arrivano ai nostri occhi. La percezione del colore è quindi il risultato di come la luce riflessa viene interpretata dal nostro sistema visivo. Gli esseri umani possiedono tre tipi di coni, cellule sensoriali specializzate nell’elaborazione della luce, ognuna sensibile a un range di lunghezze d’onda specifiche:

• Coni sensibili al rosso (L-coni)

• Coni sensibili al verde (M-coni)

• Coni sensibili al blu (S-coni)

Questi tre tipi di coni permettono la visione tricromatica, che è alla base della nostra capacità di percepire una vasta gamma di colori. L’informazione proveniente da questi coni viene inviata al cervello, che interpreta le differenze nelle lunghezze d’onda come colori diversi.

La teoria dei colori: sintesi additiva e sottrattiva

La sintesi additiva riguarda la creazione di nuovi colori unendo diverse lunghezze d’onda di luce. È il processo utilizzato nei display elettronici e nelle luci a LED. I tre colori primari della sintesi additiva sono rosso, verde e blu (RGB). Quando questi colori vengono combinati in diverse proporzioni, si ottengono altri colori, come il bianco quando tutti e tre i colori primari sono mescolati in eguale misura.

Al contrario, la sintesi sottrattiva riguarda il mescolare pigmenti o coloranti, come nel caso delle pitture. In questo caso, i colori primari sono ciano, magenta e giallo (CMY). Quando i pigmenti vengono mescolati, assorbono (o sottraggono) diverse lunghezze d’onda della luce, producendo vari colori. La sintesi sottrattiva viene utilizzata nella stampa a colori, dove si combinano ciano, magenta e giallo per creare altri colori, mentre l’aggiunta del nero (CMYK) consente di ottenere tonalità più scure.

Il colore nel mondo naturale: pigmenti e riflessione della luce

Nel mondo naturale, i colori che vediamo sugli oggetti sono dovuti a come i materiali riflettono, rifrangono e assorbono la luce. Ad esempio, le piante sono verdi perché la clorofilla, il pigmento principale nella fotosintesi, assorbe la luce rossa e blu, riflettendo la luce verde. Il cielo appare blu per un fenomeno chiamato scattering Rayleigh: quando la luce solare interagisce con le molecole nell’atmosfera, la luce blu viene diffusa più di quella rossa, dando al cielo il suo colore caratteristico.

Colore e visione dei colori: dal daltonismo alla tetrachromia

La percezione del colore non è universale tra gli esseri umani. Una delle condizioni più conosciute è il daltonismo, un difetto visivo che rende difficile distinguere tra alcuni colori, in particolare il rosso e il verde. Il daltonismo è dovuto a una mutazione genetica che impedisce il corretto funzionamento di uno o più dei coni nell’occhio. Si stima che circa il 8% degli uomini e l’1% delle donne soffrano di questa condizione.

Al contrario, alcune persone hanno una condizione chiamata tetrachromia, che consente di percepire un quarto colore. Questa condizione è rara e avviene quando una persona ha quattro tipi di coni sensoriali invece dei consueti tre. Le tetraplogie sono in grado di distinguere sfumature di colore che sono impercettibili per la maggior parte degli altri esseri umani.

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La scienza del colore è un campo affascinante che abbraccia la fisica della luce, la biologia della percezione visiva e le leggi della sintesi dei colori. La comprensione dei meccanismi alla base del colore ci consente di apprezzare meglio la sua importanza in tutte le sfere della vita, dall’arte alla tecnologia, fino alle applicazioni quotidiane come il design e la pubblicità. La percezione del colore è, infatti, un processo complesso e ancora in evoluzione, che continua a stupirci ogni giorno.

Il colore è uno degli strumenti più potenti del cinema, in grado di trasmettere emozioni, significati nascosti e messaggi subliminali. Alcuni film ne fanno un uso particolarmente marcato, sia nella palette visiva che nella trama stessa.

Ecco dieci pellicole nelle quali il colore gioca un ruolo fondamentale.

1. Rosso come il cielo (2006)

Questo film italiano di Cristiano Bortone racconta la storia di Mirco, un bambino che perde la vista e scopre un nuovo modo di percepire il mondo attraverso i suoni. Il rosso, nel titolo e nella simbologia del film, rappresenta la passione, la creatività e il desiderio di superare i limiti imposti dalla vita.

2. Tre colori: Blu, Bianco, Rosso (1993-1994)

La trilogia di Krzysztof Kieślowski è interamente costruita attorno ai colori della bandiera francese, ognuno dei quali simboleggia un ideale rivoluzionario:

  • Blu per la libertà e la solitudine (“Tre colori: Blu”).
  • Bianco per l’uguaglianza e il fallimento (“Tre colori: Bianco”).
  • Rosso per la fraternità e il destino (“Tre colori: Rosso”).

3. Il colore viola (1985)

Steven Spielberg adatta il romanzo di Alice Walker, raccontando la difficile esistenza di una donna afroamericana nei primi decenni del ‘900. Il viola è un simbolo di dolore, resistenza e speranza, un colore che accompagna la protagonista nel suo viaggio verso l’emancipazione.

4. Her (2013)

Il film di Spike Jonze utilizza una dominante cromatica calda, con il rosso e l’arancione che avvolgono il protagonista in un’atmosfera malinconica e intima. Il colore non è solo un dettaglio estetico, ma un mezzo per esprimere il senso di solitudine e connessione della storia d’amore tra un uomo e un’intelligenza artificiale.

5. The Neon Demon (2016)

Diretto da Nicolas Winding Refn, questo film fa un uso intenso dei colori, specialmente il neon e il rosso sangue, per raccontare il mondo ossessivo e spietato della moda. I colori vibranti diventano una metafora dell’illusione, del pericolo e della decadenza.

6. Il favoloso mondo di Amélie (2001)

Jean-Pierre Jeunet utilizza una palette cromatica dominata da verdi, rossi e gialli saturi, creando un’atmosfera fiabesca e nostalgica. I colori riflettono la visione ottimista e sognante della protagonista, rendendo il film un’esperienza visiva unica.

7. Sin City (2005)

Basato sulla graphic novel di Frank Miller, “Sin City” adotta un’estetica noir in bianco e nero, interrotta da dettagli di colore che enfatizzano elementi chiave della storia, come il rosso del rossetto o il giallo della pelle di un personaggio. Questo contrasto visivo esalta il tono dark e iper-stilizzato del film.

8. Joker (2019)

Il colore accompagna l’evoluzione del personaggio di Arthur Fleck. La palette iniziale è desaturata e cupa, riflettendo la sua condizione di emarginato. Man mano che abbraccia la sua nuova identità di Joker, i colori diventano più accesi, con verdi e rossi vibranti che segnano la sua trasformazione definitiva.

9. The Grand Budapest Hotel (2014)

Wes Anderson è noto per il suo uso distintivo del colore, e “The Grand Budapest Hotel” ne è un esempio straordinario. Con palette pastello e accostamenti cromatici armoniosi, il film utilizza il colore per rafforzare il tono surreale e nostalgico della narrazione.

10. Enter the Void (2009)

Gaspar Noé utilizza una palette di colori psichedelici per immergere lo spettatore in un viaggio allucinatorio. Il neon, il viola, il rosso e il giallo pulsante diventano strumenti visivi che riflettono la mente alterata del protagonista e l’atmosfera surreale del film.

Il colore non è solo un fenomeno fisico o psicologico, ma ha anche un’importante valenza culturale. Ogni società, civiltà e religione attribuisce significati diversi ai colori, utilizzandoli per esprimere valori, emozioni e tradizioni. Il colore può essere visto come un linguaggio visivo universale, ma i suoi significati possono variare notevolmente da una cultura all’altra. In questo articolo esploreremo come il colore venga percepito e utilizzato in differenti contesti culturali, storici e religiosi.

Il simbolismo del colore nelle diverse culture

Il rosso

Il rosso è uno dei colori più potenti in molte culture. In Occidente, è spesso associato all’amore, alla passione, ma anche al pericolo e alla violenza. Nella cultura cinese, invece, il rosso è simbolo di felicità, prosperità e buona fortuna. Per questo motivo, il rosso è un colore dominante durante il Capodanno cinese e in altre celebrazioni tradizionali. Nel mondo islamico, il rosso è spesso legato all’idea di sacralità e forza.

Il blu

Il blu, in molte culture occidentali, è considerato il colore della tranquillità, della serenità e dell’armonia. Tuttavia, nella cultura indiana, il blu è associato al dio Krishna ed è simbolo di divinità e potere. In Giappone, il blu rappresenta la natura e il cielo, e viene utilizzato anche per evocare una sensazione di pace e distensione. In contrasto, nel Medio Oriente, il blu può essere visto come un colore di protezione e viene spesso utilizzato per allontanare gli spiriti maligni.

Il giallo

Il giallo ha diverse connotazioni a seconda della cultura. In molti paesi occidentali, è visto come un colore di ottimismo, energia e gioia. Tuttavia, in alcune culture asiatiche, il giallo è un colore associato alla saggezza e alla ricchezza. In India, il giallo è il colore di Vishnu, una delle principali divinità induiste. In alcuni contesti europei, il giallo è anche legato al tradimento e all’inganno, come nel caso delle stelle gialle indossate dagli ebrei durante l’occupazione nazista.

Il verde

Il verde è il colore della natura e della rinascita. È associato alla vita e alla fertilità in molte culture del mondo. Nella cultura islamica, il verde è particolarmente sacro ed è spesso usato nei luoghi di culto. In alcune culture occidentali, il verde è il simbolo della speranza, ma può anche essere legato all’invidia o alla gelosia (come nel detto “essere verdi di rabbia”). In altre tradizioni, come quella celtica, il verde rappresenta il legame con la terra e la magia.

Il bianco

In molte culture occidentali, il bianco è simbolo di purezza, innocenza e novità. È il colore tradizionale dei matrimoni in molte società occidentali, ma ha anche una forte associazione con il lutto in molte culture orientali, come in Cina e in Giappone, dove il bianco è il colore della morte e della sepoltura. Nella cultura cristiana, il bianco rappresenta la luce divina e la purezza dell’anima, ma in molte religioni africane e in alcune tradizioni asiatiche, il bianco è considerato un colore di sospetto o disgrazia.

Il nero

Il nero è tradizionalmente legato al lutto e alla morte, ma anche all’eleganza e al potere in molte culture. In Occidente, il nero è il colore dei funerali, ma è anche simbolo di raffinatezza nella moda, come nel caso dei classici “piccoli abiti neri” creati da Coco Chanel. Nella cultura africana, il nero è un colore che rappresenta la terra madre, l’origine della vita e la forza spirituale. Nella cultura giapponese, invece, il nero è legato alla nobiltà e all’onore.

I colori nelle religioni e nelle tradizioni spirituali

In molte religioni, il colore gioca un ruolo fondamentale nei rituali, nei vestiti liturgici e nelle opere d’arte. Ad esempio, nel cristianesimo, il porpora è il colore associato alla penitenza e alla preghiera durante la Quaresima, mentre il bianco è usato per celebrare la Pasqua e altre festività cristiane.

Nel Buddhismo, il colore arancione è sacro, simbolizzando la illuminazione e la rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per rappresentare la loro dedizione al cammino spirituale. In Hinduismo, il safran è un colore di grande valore spirituale e viene utilizzato per rappresentare la purezza e la devozione.

Il colore nel design e nella moda culturale

Nel design moderno, i colori vengono scelti con cura per evocare determinati messaggi e per rispecchiare le tradizioni culturali. Ad esempio, il rosso è spesso usato nel design cinese per evocare prosperità, mentre il blu in contesti europei ed americani è simbolo di fiducia e serietà. La moda, poi, è strettamente legata alla cultura e ai colori che vengono scelti per rappresentare particolari identità sociali o etniche.

In molte culture africane, i colori e i motivi delle stoffe hanno un significato profondo. I colori delle stoffe Kente, ad esempio, variano a seconda della tribù e della storia personale di chi le indossa, mentre in India il sari è tradizionalmente indossato in vari colori che segnalano il periodo della vita della donna (ad esempio, il rosso per il matrimonio, il bianco per il lutto).

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Il colore è un linguaggio visivo universale che, però, assume significati unici e variegati a seconda del contesto culturale. Dai simbolismi religiosi alle tradizioni popolari, passando per il design e la moda, il colore è un potente strumento per comunicare valori, emozioni e identità culturale. È fondamentale comprendere il significato dei colori in differenti contesti per apprezzare appieno la loro profondità e la loro bellezza nelle diverse tradizioni e culture.

I colori, con la loro potente simbologia, svolgono un ruolo fondamentale nelle tradizioni religiose e culturali di tutto il mondo. Ogni religione e cultura attribuisce significati profondi a determinati colori, che spesso sono legati a valori spirituali, credenze e pratiche rituali. L’uso dei colori non solo aiuta a creare un’atmosfera sacra, ma serve anche come strumento per comunicare concetti astratti come la divinità, la moralità, la purificazione e la protezione. In questo articolo esploreremo come i colori vengono interpretati nelle religioni principali del mondo e come sono stati utilizzati nei riti e nelle tradizioni.

Il significato dei colori nel Cristianesimo

Nel Cristianesimo, i colori svolgono un ruolo simbolico profondo, soprattutto nelle liturgie, nell’arte sacra e nei vestiti liturgici. Ogni colore ha un significato specifico, legato a particolari periodi dell’anno liturgico e a eventi religiosi significativi.

Bianco

Il bianco è il colore della purezza e della luce divina. È utilizzato nelle celebrazioni liturgiche più gioiose, come il Natale, la Pasqua e i matrimoni. Il bianco rappresenta la risurrezione, la gloria e la gioia.

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, simbolo di sacrificio e passione. Viene utilizzato durante Pentecoste, la Settimana Santa e nelle celebrazioni dei martiri. Esso simboleggia anche la forza spirituale e l’amore divino.

Verde

Il verde è il colore della speranza, della vita eterna e della rinascita spirituale. È il colore della crescita e viene usato durante il periodo ordinario dell’anno liturgico, simboleggiando la crescita e la fede quotidiana.

Viola

Il viola è simbolo di penitenza, preghiera e umiltà. Viene utilizzato durante il periodo di Avvento e la Quaresima, rappresentando il tempo di preparazione spirituale e riflessione prima delle festività principali.

Giallo

Il giallo, come simbolo di luce, è associato al sole e alla gloria di Dio. Sebbene non venga usato frequentemente nelle liturgie, è comunque presente in molte rappresentazioni artistiche, come nell’iconografia dei santi.

Il significato dei colori nell’Induismo

Nell’Induismo, il colore ha un’importanza profonda, essendo legato alla spiritualità e alle divinità. Ogni colore è spesso associato a uno degli dei principali, a uno stato di coscienza o a uno stadio del ciclo karmico.

Arancione

Il colore arancione è strettamente legato alla divinità e alla spiritualità, ed è il colore tradizionale dei sacerdoti e dei monaci. È associato al dio Vishnu, alla conoscenza e alla realizzazione spirituale. Inoltre, l’arancione è un colore che simboleggia la saggezza e la rinuncia.

Rosso

Il rosso è il colore della fertilità, della passione e della prosperità. In molte cerimonie religiose, specialmente nei matrimoni, il rosso rappresenta la vita e la procreazione. È anche un colore sacro che simboleggia la protezione e viene spesso usato nei rituali di benedizione.

Bianco

Il bianco rappresenta la purezza, la pace e la trasparenza. In alcune pratiche religiose, il bianco è indossato durante i riti di purificazione e nei momenti di meditazione per rappresentare la purezza del cuore e della mente.

Verde

Il verde è simbolo di vita e fertilità. È associato al dio Krishna, ed è utilizzato nei templi per simboleggiare l’armonia con la natura e la divinità.

Il significato dei colori nel Buddhismo

Nel Buddhismo, i colori sono spesso utilizzati per rappresentare i vari aspetti della pratica spirituale e della via verso l’illuminazione. Ogni colore è legato a specifici insegnamenti e valori.

Arancione

Come nell’Induismo, l’arancione è un colore sacro anche nel Buddhismo, associato alla purezza mentale e alla rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per simboleggiare la loro dedicazione alla spiritualità.

Giallo

Il giallo rappresenta la conoscenza, la saggezza e l’illuminazione. È il colore che i monaci tibetani usano durante i rituali e simboleggia la ricerca della verità e la riconciliazione con il mondo.

Bianco

Il bianco nel Buddhismo è il simbolo di pace e purificazione. È il colore della consapevolezza e della serenità che si raggiungono attraverso la meditazione.

Blu

Il blu è associato al Buddha Amitabha e simboleggia l’infinito e l’immortalità. È anche un colore che rappresenta la profondità della meditazione e la calma interiore.

Il significato dei colori nell’Islam

Nel Islam, i colori hanno un’importanza simbolica che si lega alla spiritualità e alla bellezza divina. Mentre non vi è una codifica rigorosa dei colori, alcune tradizioni li associano a concetti fondamentali.

Verde

Il verde è considerato il colore più sacro nell’Islam, spesso associato al profeta Maometto. È simbolo di paradiso, protezione divina e benedizioni. È un colore che evoca pace e armonia ed è comunemente utilizzato nelle moschee e nelle bandiere dei paesi musulmani.

Bianco

Il bianco rappresenta la purezza e l’innocenza. È il colore che viene indossato durante il pellegrinaggio a La Mecca (Hajj), dove i pellegrini indossano il “ihram”, un semplice abito bianco per simboleggiare l’uguaglianza davanti a Dio.

Nero

Il nero ha un significato importante, specialmente nella Kaaba a La Mecca, che è ricoperta da un drappo nero chiamato Kiswah. Il nero è associato alla potenza divina e alla misteriosità di Allah.

Il significato dei colori nel Judaísmo

Nel Judaismo, i colori hanno un’importanza simbolica legata principalmente alla spiritualità e alla purificazione. Alcuni colori hanno un forte legame con i riti religiosi e i simboli ebraici.

Blu

Il blu è uno dei colori più sacri nel giudaismo e si trova nel “tzitzit”, le frange rituali che gli ebrei indossano. Esso rappresenta la presenza divina e il legame con Dio. È anche il colore che simboleggia l’infinito e l’eternità.

Bianco

Il bianco è il colore della purezza e della santità. Viene indossato durante Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, e durante le celebrazioni più solenne come il Shabbat.

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I colori hanno un significato profondo e variegato nelle diverse religioni e tradizioni spirituali. Ogni colore, con le sue sfumature e il suo simbolismo, è un mezzo per comunicare idee spirituali universali, dai valori di purezza e amore alla protezione divina e all’illuminazione. Comprendere il significato dei colori nelle tradizioni religiose aiuta a apprezzare il loro potere spirituale e il ruolo che svolgono nel nostro rapporto con la divinità e l’universo.

C’è un detto che suona più o meno così: “Il tempo cura tutte le ferite“.
Ma cosa succede quando, invece di guarire, continuiamo a graffiare il ricordo di quelle ferite?
È un paradosso universale: quanto più cerchiamo di dimenticare qualcosa, tanto più questa cosa sembra fissarsi nella nostra mente. Un loop mentale che può essere tanto doloroso quanto frustrante. Non penso certamente alle cose tant dolorose da esser rimosse dalla memoria dal nostro Io, ma alle esperienze negative che abbiamo vissuto.
Il risveglio il giorno dell’esame di maturità.

La memoria umana, tanto straordinaria quanto misteriosa, non è solo un archivio passivo di eventi passati. È un sistema attivo, capace di rielaborare e reinterpretare le informazioni, talvolta aggiungendo un tocco drammatico ai ricordi. Freud definiva questo fenomeno come “compulsione alla ripetizione“, un meccanismo inconscio che ci spinge a rivivere eventi traumatici per cercare, paradossalmente, di risolverli o integrarli. Ma spesso questo si traduce in una continua riapertura di vecchie ferite.

Il nostro cervello sembra cablato per prestare maggiore attenzione alle esperienze negative.
Una spiegazione scientifica viene dalla teoria del “negativity bias“: la tendenza innata a dare maggiore peso ai ricordi spiacevoli rispetto a quelli positivi. Questo bias ha radici evolutive: ricordare il pericolo e il dolore era essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati.
Dimenticare un pericolo poteva significare la morte; ricordarlo, invece, aumentava le probabilità di sopravvivenza.

Quando viviamo un evento doloroso, il cervello rilascia sostanze chimiche che intensificano la memoria, rendendola più vivida e difficile da dimenticare.

Ogni situazione è neutra: non sono gli eventi a turbare gli uomini, ma il modo in cui li interpretano“, diceva il filosofo Epitteto.
Questo significa che non è tanto il ricordo in sé a perseguitarci, quanto il significato che gli attribuiamo. Un insulto, ad esempio, può essere archiviato come un episodio insignificante o trasformarsi in un’ossessione, a seconda del valore emotivo che gli diamo.

“Non pensare a un elefante rosa”. La frase ti ha fatto immaginare proprio un elefante rosa, vero? Questo fenomeno, noto come “effetto del rimbalzo” o “ironia mentale”, è stato studiato dallo psicologo Daniel Wegner. Cercare di sopprimere un pensiero, infatti, spesso lo rende più persistente. Lo stesso accade con i ricordi: più cerchiamo di dimenticare un evento doloroso, più questo si radica nella nostra mente.

Allora, come possiamo liberarci dal peso dei ricordi spiacevoli? Una strategia è accettare il ricordo invece di combatterlo. Secondo le teorie della mindfulness, osservare il pensiero senza giudizio può aiutare a ridurne l’intensità emotiva. Inoltre, parlare con qualcuno di fiducia o scrivere i propri pensieri può rivelarsi catartico. Non si tratta di cancellare il passato, ma di riconoscerlo per ciò che è: una parte della nostra storia, non la nostra intera identità.

In definitiva, i ricordi dolorosi possono insegnarci lezioni preziose, ma solo se siamo disposti a guardarli con occhi nuovi. Come scriveva Oscar Wilde: “L’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori”. Forse, accettando questa prospettiva, possiamo trasformare i nostri ricordi più pesanti in strumenti di crescita e consapevolezza.

Dominio delle stronzate, crepuscolo della democrazia, agonia della libertà

Se, come diceva Gesù, «la verità vi farà liberi», allora la scomparsa della verità ci renderà tutti schiavi. E, dato che stiamo precipitando nell’abisso di una società senza verità, ogni istante che passa, siamo sempre meno liberi. 

La cosa peggiore, però, non è che non ce ne rendiamo conto. È che – anche quando ce ne rendiamo conto – non ce ne preoccupiamo.

In parte, perché ci illudiamo che non sia così. Pensiamo si tratti dell’ennesimo catastrofismo ingiustificato, messo in giro dai soliti “profeti di sventure”. Gufi disposti a tutto pur di farci vivere nella paura e – come cantava De Gregori – «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera». 

In parte – ed è questo l’aspetto più inquietante – perché crediamo che la cosa non sia poi così importante. Questa o quella cosa non sono vere? E chissenefrega! Come se la Storia non avesse abbondantemente dimostrato che le società senza verità finiscono col destabilizzare e stravolgere le vite delle persone, fino al punto di soffocarle, negarle e, infine, cancellarle. 

NIENTE LIBERTÀ, NIENTE VITA

Non c’è vita senza libertà. Eppure ignoranza, stupidità, servilismo, opportunismo, pusillanimità e paura ci convincono che non è così. Morale: andiamo avanti come se niente fosse, tra inconsapevolezza, rassegnazione e fatalismo, fidando nel fatto che, all’ultimo istante, qualcosa o qualcuno ci salverà dall’abisso.

Non succederà. Nessuno verrà a salvarci. Anche perché nessuno – a parte noi – tiene alla nostra libertà. Gli altri non vedono l’ora di togliercela. Se, poi, siamo noi stessi i primi a rinunciarci, tanto meglio per loro: risparmieranno tempo, denaro e fatica. 

DIRITTO AL VOTO: REGALO INESTIMABILE, BUTTATO VIA

Un’intera generazione (né alieni né estranei: i nostri nonni e i nostri genitori) ha combattuto e sacrificato la vita per regalare a tutti noi la libertà di votare e scegliere la “casa” che vogliamo, chi la deve costruire e aiutarci a “mandarla avanti”. Un dono dal valore inestimabile del quale, a quanto pare, non sappiamo più cosa farcene. Ce ne siamo stancati, e l’abbiamo buttato via, tra i giocattoli che non divertono più, come fanno i bambini con i regali del Natale precedente.

Dal 1948 a oggi, infatti, l’affluenza alle urne è precipitata. Siamo passati dal 92,23% delle prime elezioni al 49,69% delle Europee dello scorso anno. 42,54 punti percentuali in meno. Un crollo che ha determinato il crollo verticale del “coefficiente di democraticità” della nostra democrazia. 

DEMOCRAZIA DIMEZZATA

Un coefficiente che, per la democrazia, è come i carati per l’oro. Più sono, più l’oro è puro e più vale; meno sono, meno l’oro è puro e meno vale. Come ho già scritto, infatti, la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, piuttosto, all’oro: il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Ed è del tutto evidente che una democrazia rappresentativa nella quale vota meno del 50% dell’elettorato è tutt’altro che pura. 

Di fatto, quindi, viviamo in una democrazia dimezzata. Il che equivale a trovarsi al volante di un’auto che perde due ruote per strada: praticamente impossibile non schiantarsi.

DEMOCRACY INDEX 2023

Secondo l’ultima edizione del Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (un’istantanea dello stato della democrazia in 165 Stati indipendenti e due territori – quasi l’intera popolazione mondiale e la stragrande maggioranza degli Stati – basata su: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e libertà civili) sebbene circa la metà della popolazione mondiale (45,4%) viva in una qualche forma di democrazia, solo il 7,8% risiede in “piene/complete democrazie” e ben più di un terzo (39,4%) vive sotto regimi autoritari. 

ITALIA DA “SERIE B”

Il nostro Paese, purtroppo, non brilla. E come potrebbe, visto l’andazzo degli ultimi decenni. L’Italia, infatti, non trova posto nella “serie A” del Democracy Index, che ospita i 24 Paesi che lo studio definisce “democrazie piene/complete”. Tra queste, in ordine di graduatoria, troviamo Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Canada, Australia, Giappone, Austria, Regno Unito, Grecia, Francia e Spagna. 

Il nostro Paese risulta al decimo posto della classifica della “serie B” – le “democrazie imperfette” – preceduta da Cile, Repubblica Ceca, Estonia, Malta, Stati Uniti d’America, Israele, Portogallo, Slovenia e Botswana. 

Dietro di noi, infine, Paesi come Belgio (36), India e Polonia (41), Sud Africa (47), Ungheria (50), Brasile (51), Argentina (54), Colombia (55), Croazia (58), Romania (60), Bulgaria (62), Serbia (64), Albania (66), Tunisia (82), Ucraina (91), Turchia (102), Emirati Arabi (125), Egitto (127), Iraq (128), Russia (144), Cina (148), Iran (153), Libia (157), Siria (163), Corea del Nord (165).

NIENTE PARTECIPAZIONE, NIENTE DEMOCRAZIA, NIENTE LIBERTÀ

Come abbiamo visto, nel nostro Paese, la rappresentatività è fortemente compromessa. E, dato che essa è il cuore della democrazia (aveva ragione Gaber: libertà è partecipazione), fortemente compromesso è anche il cuore della nostra democrazia. Un cuore sempre più prossimo all’infarto. 

Alle ultime Europee – solo per citare la tornata elettorale più recente – ha votato meno del 50% dei 47 milioni di aventi diritto: 23.372.323 elettori, contro i 23.663.947 che hanno scelto di non andare a votare. 

GOVERNANO LE MINORANZE

Dati infinitamente più preoccupanti di quanto non appaia. Per due ragioni. La prima è che, per la prima volta nella storia repubblicana, è una minoranza – e non una maggioranza – a vincere le elezioni. E, di conseguenza, a formare un Parlamento ed esprimere/orientare un governo. 

Alle Europee 2024, FDI – il partito che, in Italia, ha ottenuto più consensi – ha raccolto, infatti, 6.713.952 voti: il 28,81% del totale. Meno di un terzo dei votanti. Minoranza che diventa ancora più minoranza, se si rapportano quei 6,7 milioni di voti ai 47 milioni degli aventi diritto al voto. Risultato? Il 14,27% del totale: un settimo dell’elettorato.

Il che significa che meno di 1,5 elettori su 10 hanno votato per FDI. E, dato che è oggettivamente impossibile definire “maggioranza” 1,5 elettori su 10, dichiarare che “gli italiani hanno scelto FDI” è una colossale mistificazione. Mistificazione che, però, funziona alla grande, dal momento che quasi nessuno, ormai, si prende la briga di raccogliere, verificare e analizzare numeri e percentuali, e di ragionare sulla loro reale o presunta rilevanza.

IL DIRITTO DI VOTO HA I GIORNI CONTATI?

La seconda ragione è ancora più preoccupante della prima. Proverò a sintetizzarla in una semplice domanda: se gli italiani continueranno a disertare le urne e saranno sempre meno quelli che decideranno di esercitare il loro diritto di voto, secondo voi, quanto tempo passerà prima che qualcuno si affacci a un nuovo balcone, arringando la folla al grido: “Visto che non andate a votare, vuol dire che ritenete il voto un inutile fastidio. Non vi preoccupate: da domani, ve ne libereremo!”?

LA LIBERTÀ NON CI INTERESSA…

La verità è che a noi umani la libertà non interessa. Neghiamo che sia così ma lo facciamo sapendo di mentire. Perché? Perché la libertà implica il fardello della responsabilità e non c’è nulla che pesi di più agli esseri umani del fatto di assumersi la responsabilità di decidere del proprio presente/futuro. Molto meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Se le cose andranno bene, potremo dire di aver visto giusto. Se le cose andranno male, potremo dire che non è stato per colpa nostra.

Lo scrivo spesso, non perché mi manchino gli argomenti ma perché trovo stupido provare a esprimere con parole migliori questa illuminante verità: aveva ragione il Grande Inquisitore: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!». Ecco perché «non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà».

… PER QUESTO, NON VOGLIAMO LA VERITÀ

In sintesi: la libertà costa e noi non vogliamo pagare. Ora: se noi non vogliamo essere liberi e la verità ci rende liberi, è evidente che noi non vogliamo la verità. 

Ecco perché le stronzate (un istante per crearle, un’eternità per smontarle, sempre ammesso che ci si riesca) hanno così tanto successo. Pensare e scegliere richiedono tempo e fatica. Bisogna informarsi (presso fonti autorevoli e affidabili), approfondire, capire, riflettere, formarsi un’opinione, confrontarsi con gli altri, disposti a sostenere le proprie idee ma, soprattutto, ad accettare il fatto che possano essere sbagliate e, nel caso, essere pronti a modificarle. 

Chi ce lo fa fare? È infinitamente più facile, conveniente e gratificante vivere di folli convinzioni fai-da-te, alimentate dalla saggezza-spazzatura che, ormai, domina, incontrastata, ovunque: case, uffici, bar, mezzi pubblici, amicizie, social media, giornali, radio, televisioni. Saggezza-spazzatura che continua a fiorire e a mietere milioni e milioni di proseliti, anche perché, nella Babele di fake news e false narrazioni quasi impossibili da smascherare e smontare, è praticamente impossibile capire cosa sia vero e cosa no.

CONCLUSIONI

Permettetemi, quindi, di concludere parafrasando il versetto del Vangelo di Giovanni, ricordato in apertura: «La verità vi renderà liberi. Se solo riuscirete a trovarla, riconoscerla, comprenderla, accettarla e seguirla».

Fino ad allora, good night, and good luck.

Ogni traguardo, piccolo o grande che sia, nasconde alla memoria delle sue radici una lotta. Non parliamo di conflitti esterni, ma di quella battaglia silenziosa e continua che affrontiamo dentro di noi: la lotta per superare i limiti autoimposti, per abbracciare l’incertezza e per riscrivere chi siamo. Questo viaggio verso la consapevolezza è un percorso unico, fatto di cadute, dubbi, e momenti di incredibile trasformazione.

Immagina di nascere in un piccolo paese come Cissone, un luogo dove il cambiamento è guardato con sospetto e la tradizione è legge. Crescere in un ambiente simile significa spesso interiorizzare convinzioni limitanti: 

  • “Non puoi farcela”, 
  • “Il mondo là fuori è troppo grande, ti perderai come in un bicchier d’acqua”, 
  • “cosa penseranno le altre persone di te”, 
  • “perderai le tue amicizie senza sapere cosa troverai la fuori”.

Eppure, qualcosa dentro, a volte, inizia a muoversi, e ti spinge oltre.

Perchè ti senti stretta, in un mondo in cui non puoi esprimerti perchè sei “diversa”, in cui devi omologarti alla mentalità del “si è sempre fatto così” per sentirti parte di un gruppo e accettata, in cui tutto quello che non è visibile con gli occhi non esiste. 

Inizio a buttarmi nel vuoto a 18 anni, aprendo la mia azienda di servizi con 2 socie in cui operavo nel mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica con servizi di marketing, logistica, commerciale e segreteria. Dico “buttarmi nel vuoto”, perché nessuno ti insegna a fare l’imprenditrice, non esiste una guida, o peggio, a 18 anni, anche se esistesse, non ti viene in mente di cercarla. 

Lavorare in un settore dominato dal “si è sempre fatto così” e portare innovazione e digitalizzazione significava sfidare le convenzioni e il modo di lavorare di diverse persone che ha funzionato per tanti anni.

Sono stati 5 anni in cui ho sempre puntato a quella goccia, che giorno dopo giorno, avrebbe modellato la pietra. 

E così è stato, mi ha permesso di capire e sperimentare tante cose come:

  • l’importanza di aver ben chiara la tipologia di persona che hai davanti, come pensa, come ragiona, riflette, quali sono gli input che fanno attivare certi trigger su cui puoi fare leva per raggiungere il tuo obiettivo;
  • a calibrare la comunicazione sulla base di queste informazioni ed adattare il tuo registro verbale in base all’interlocutore;
  • a studiare e comprendere bene il loro punto di partenza e confrontarlo con quello dove vuoi arrivare per evidenziare pro e contro;
  • ad evidenziare i vantaggi competitivi ed economici della tua proposta.

Tutto questo per cosa?

Per digitalizzare l’azienda, snellire i processi, automatizzarli, introdurre programmi di monitoraggio e gestione che permettessero di lavorare più agilmente ed evitando di perdersi le informazioni, ridurre i tempi di gestione e i rework. 

E poi, il salto: dall’agricoltura alla tecnologia. Cambiare industria è come cambiare pelle.

E’ un processo, lento, fatto di tanto tempo, di mettere in discussione la tua realtà, comprendere un nuovo target e le sue dinamiche, che implica apprendimento continuo e la volontà di reinventarsi.

La lotta, in questo caso, è stata contro la paura del fallimento, contro l’idea che cambiare significasse perdere un qualcosa di cui conoscevi molto bene le dinamiche e di entrare in un mondo in cui non eri nessuno, dovevi ricostruirti da zero, in un mondo densissimo di persone competenti.

Oggi, il passato lascia spazio a una vita in costante viaggio ed evoluzione, con connessioni stupende che abbracciano culture e persone diverse. Questo passaggio non è stato privo di difficoltà.

È stato un atto di ribellione contro un qualcosa in cui non volevo più essere io la sola a puntare in alto ma volevo vivere in una spinta costante di ispirazione, energia e desiderio di crescita, una decisione consapevole di rompere il ciclo e costruire una nuova identità.

Come non esistono percorsi per essere imprenditrice, e ci si barcamena in mille aspetti sconosciuti, non esistono qualifiche da community manager. 

Mi sentivo un impostore prima, e continuo a sentirmici ora.

Come lo maschero? Con la strategia più semplice in assoluto “fake it until you make it”. Parlo a conferenze internazionali, accetto sempre nuove sfide lavorative, mi butto in progetti che non ho mai fatto.

Perché? Perché la mente è un critico severo, che ci ricorda costantemente ciò che non sappiamo invece di ciò che abbiamo costruito e il modo migliore per smascherare questa dinamica per me è la possibilità di dimostrarmi che ogni volta che ho fatto qualcosa di nuovo, ogni volta che mi sono buttata nell’ignoto, in cui ho avuto paura di non raggiungere il risultato, di deludere le persone, beh ogni volta ho imparato qualcosa e la maggior parte delle volte sono arrivata, li, dove non avrei mai pensato.

La verità è che nessuno ha mai certificato questo ruolo. Nessuna laurea, nessuna qualifica. Eppure, tutto quello che faccio oggi richiede abilità che non si imparano sui libri: empatia, ascolto, leadership, problem solving, gestione delle priorità ecc… 

La lotta, qui, è accettare che la competenza non sempre si misura con un pezzo di carta, ma con i risultati, con i feedback, con il segno che sei riuscita a lasciare nel percorso delle persone e con le lezioni imparati dagli errori.

La lotta più significativa, però, è quella quotidiana. È guardarsi allo specchio e amarsi per ciò che siamo e decidere di migliorarsi per diventare le nostra versione migliore, chi noi vogliamo davvero essere. Ogni singolo giorno.

È identificare i propri limiti, per comprenderli, analizzarli e spingerli sempre un po’ più in là se questo ci permette di essere soddisfatti. Creare routine, dedicare del tempo per sé stessi, per sentirsi, per capire cosa ci piace e cosa no, per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, per ascoltarsi: tutto questo non è solo un esercizio di crescita, ma un percorso che richiede tanta energia e  amore verso sé stessi. 

Perchè vuol dire mettersi in discussione, far crollare in autonomia le proprie certezze e l’essere umano ha una disperata necessità di sicurezza quindi entrare in questo flusso è estremamente dispendioso a livello energetico ma ti apre una nuova visione di te, di chi davvero puoi essere.

La lotta interiore è parte integrante della vita. Ci sfida a fare scelte difficili, a confrontarci con le nostre paure e insicurezze. Ma è anche ciò che ci rende vivi, che ci permette di evolvere e di scoprire chi siamo davvero.

Non esiste un punto di arrivo definitivo. Ogni giorno è una nuova opportunità per crescere, per imparare, per abbracciare il cambiamento. La vittoria non è nell’eliminare la lotta, ma nell’accoglierla come parte del viaggio. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per superarli. E chi decide di buttarsi sempre oltre la sua zona di comfort, chi accetta il rischio e sceglie di conoscersi meglio, scopre che la vera vittoria è nella trasformazione continua, non dell’obiettivo raggiunto.

La lotta interiore è un invito a vivere, a crescere, a essere più di quello che pensavamo possibile.

La redazione ringrazia per il contributo concesso a titolo gratuito da Michela.

Io lo scrivo quì, ma penso che abbiamo tutti in mente un pensiero negativo ogni qualvolta sentiamo dire o leggiamo dei progressi degli impianti di chip all’interno del cervello umano. “Studi scientifici”, “Progressi Tecnologici”, “Grandi Possibilità” si affrettano ad aggiungere gli esperti interpellati dai giornalisti, eppure dentro di noi si fa largo il ribrezzo al pensiero che un essere umano possa desiderare di farsi impiantare un elemento estraneo nel proprio corpo, per di più nel cervello. Abbiamo tutti in mente la scena di Terminator quando da sotto la pelle di Arnold Swarzenegger emerge il metallo e i circuiti elettrici e abbiamo lo stesso senso di repulsione. Tutti, compresi quei ragazzi che per ragioni anagrafiche il film certamente non l’hanno visto al cinema o forse nemmeno in TV.

Siamo spaventati di un oggetto che, comandato da qualcun altro oppure in ragione della propria programmazione algoritmica, possa prendere il sopravvento sulla nostra volontà.

Scrivendo gli altri articoli per questo numero (“Stop con i beatles stop..?” e “L’annullamento della Memoria come strumento di controllo“) mi sono reso conto che l’Antropocene – ossia l’idea che l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente possa configurarsi come una nuova “era geologica” – ha implicazioni anche sulla nostra stessa struttura mentale e non dal 1945 – da quando si fa risalire l’inizio dell’Antropocene appunto.
Da quando l’uomo è diventato un essere “civile”, e quindi da tanto tanto tempo fa, ha cercato di modificare l’ambiente circostante per adattarlo in qualche modo alle proprie esigenze. Ha “addomesticato” razze animali e ha “selezionato” razze vegetali, per i propri bisogni primari e anche per il proprio diletto: il selvaggio Uro è diventata la mansueta mucca, il famelico lupo è diventato il delicato Chihuahua, la Rosa canina la profumosa e delicata Tea. Ha costruito habitat artificiali che si sono distaccati moltissimo dai prati verdi e dalle foreste, senza pensare al Bosco Verticale, possiamo immaginare alle palafitte costruite negli stagni o agli arredi nelle caverne vicino alle coste (e ne abbiamo di esempi anche sulle coste laziali ad Circeo, senza dover andare troppo lontano da Roma ad esempio).

Ma molto prima di poter pensare alle estensioni della mente con i chip e prima di pensare all’Intelligenza Artificiale o anche prima di pensare agli automi (e mi viene in mente il servitore di Filone di Bisanzio costruito più di 200 anni prima della nascita di Cristo), prima di tutto questo l’uomo aveva capito che era possibile estendere la propria mente con la scrittura.
Lasciando un segno, un disegno in uno dei suoi rifugi poteva ricordare con esattezza come cacciare gli animali. Aveva esteso il concetto del “quì e adesso” nel quale sostanzialmente era relegato per la propria natura umana, portando la sua mente a ricordare cose che il trascorrere del tempo avrebbe lasciato andare nel “panta-rei” fisiologico.
Ha creato, per se stesso, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio.
Questo – per gli storici – ha determinato il passaggio dalla Preistoria alla Storia, ma a pensarci è stato il primo passaggio dell’uomo all’antropizzazione della propria natura animale.

Pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ex Presidente americano Joe Biden ha lanciato un accorato allarme. “Oggi, in America – ha detto – sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia realmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà”. Biden ha, quindi, puntato il dito contro un “complesso tecno-industriale” ultra-ricco che potrebbe esercitare un potere incontrollato sugli americani. 

Ma no? Davvero? E se n’è accorto solo quattro giorni prima dell’insediamento di Trump? Un genio, non c’è che dire. E dove diavolo è stato in tutti questi anni?

E gli altri sedicenti progressisti, al di là e al di qua dell’Oceano? Dove diavolo erano in questi quarant’anni nei quali il mondo non si è più diviso – ideologicamente – tra “buoni” (Americani & Co.) e “cattivi” (Russi & Co.) ma – turbocapitalisticamente – tra iper-ricchi (pochissimi) e iper-poveri (miliardi)? 

Dove sono stati, in tutti questi anni, i cantori di libertà, giustizia, pace, diritti umani e civili, solidarietà, equità, salute, istruzione, dignità di lavoro e salario, pari opportunità, inclusione, stato sociale, e bla-bla-bla fratelli?

Dormivano tutti? Erano tutti stupidi o troppo impegnati a godersi sprizzini, shottini, salatini, salottini, librettini, teatrini, cinemini, concertini ed eventini, che non se ne sono accorti, poverini? 

O, forse, se n’erano accorti ma non sono riusciti a evitare il peggio? Cos’è: incapaci e ignavi, hanno lasciato fare oppure, collusi e complici, volevano che il mondo arrivasse esattamente dov’è arrivato e che le destre tornassero a dominare, indisturbate, praticamente ovunque?

Non risponderò a queste domande. 

Che ognuno faccia le proprie riflessioni 

e tragga le proprie conclusioni.

Una cosa, però, è certa: in politica, o sei parte della soluzione o sei parte del problema. E, dato che di soluzioni non se ne vede nemmeno l’ombra, mentre “il problema” trionfa quasi dappertutto, suggerirei che tutti coloro i quali – a qualunque titolo e con qualunque grado di responsabilità – non sono riusciti a impedire o, peggio, hanno favorito questa devastante deriva antidemocratica, togliessero il disturbo, una volta per tutte. 

Se non altro, i veri democratici – ammesso che ne esista ancora qualcuno – si renderebbero, finalmente, conto del fatto che “non esistono liberatori ma uomini che si liberano”. E potrebbero decidere, una volta tanto con la propria testa, cosa farne di sé stessi e della propria vita.

Uno degli elementi fondanti di ogni regime totalitario è il controllo della memoria collettiva. La storia non è solo una cronaca di eventi passati, ma una struttura narrativa che definisce l’identità di un popolo, le sue radici, i suoi valori. Per questa ragione, uno dei primi atti del nazismo fu la distruzione sistematica dei libri di scuola e dei testi di storia, sostituendoli con una nuova visione della realtà, costruita ad arte per giustificare la loro ideologia e il loro dominio.

Nel 1933, appena salito al potere, il regime nazista organizzò il Bücherverbrennung, il rogo dei libri considerati “non tedeschi”, un atto simbolico che mirava a cancellare idee scomode e sostituirle con una narrazione alternativa. Tra le opere distrutte vi erano testi di scienza, filosofia, letteratura e soprattutto storia, poiché il passato doveva essere riscritto in funzione della visione nazionalsocialista. Questo processo non era solo censura, ma un vero e proprio tentativo di manipolazione della memoria collettiva.

Il Potere della Riscrittura della Storia

La storia è lo strumento con cui una società tramanda i suoi valori e le sue esperienze. I regimi totalitari non possono permettere che esistano narrazioni concorrenti rispetto alla loro ideologia. Questo concetto è brillantemente rappresentato in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, dove i libri vengono bruciati non solo per impedire alle persone di leggere, ma soprattutto per eliminare il pensiero critico e sostituirlo con un conformismo imposto dall’alto. “Non volevano uomini che pensassero, ma uomini che obbedissero”, scrive Bradbury, una frase che potrebbe benissimo descrivere l’atteggiamento del nazismo nei confronti dell’istruzione e della cultura.

L’ideologia nazista non poteva accettare una storia che mostrasse le sue contraddizioni o che mettesse in discussione la superiorità della razza ariana. Per questo motivo, non solo i libri furono distrutti, ma anche la storiografia venne riscritta per enfatizzare un passato glorioso e creare nemici immaginari. I programmi scolastici vennero modificati per inculcare nei giovani i principi dell’antisemitismo, del nazionalismo esasperato e della guerra come destino inevitabile.

Casi Storici e Citazioni

Questo fenomeno non è esclusivo del nazismo. Altri regimi totalitari hanno adottato strategie simili per controllare il passato e quindi il futuro:

Unione Sovietica: Stalin fece riscrivere la storia rimuovendo figure politiche scomode, cancellandole persino dalle fotografie ufficiali.

Cina di Mao: Durante la Rivoluzione Culturale, vennero distrutti testi classici e riformati i libri scolastici per eliminare ogni riferimento al passato pre-comunista.

Cambogia di Pol Pot: Il regime dei Khmer Rossi eliminò testi scolastici e chiuse le scuole per annullare qualsiasi forma di sapere precedente alla rivoluzione.

George Orwell in “1984” descrive magistralmente questa dinamica con il concetto di “controllo della memoria” attraverso lo slogan “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Questa frase sintetizza perfettamente la necessità dei regimi totalitari di riscrivere la storia per legittimarsi.

Conclusione

La distruzione dei libri di storia e dei testi scolastici da parte del nazismo non fu un atto di semplice censura, ma una strategia per plasmare una nuova realtà e un nuovo popolo. La conoscenza del passato è uno strumento di libertà: chi la possiede, può capire e giudicare; chi ne è privato, è destinato a credere e obbedire. Ecco perché ogni regime totalitario ha bisogno di creare una nuova memoria: per cancellare le radici di un popolo e sostituirle con una storia costruita a proprio vantaggio.

  1. Memento (2000) – Christopher Nolan
    Un uomo con un disturbo della memoria a breve termine cerca di scoprire chi ha ucciso sua moglie, usando tatuaggi e note per ricordare gli indizi. Un puzzle narrativo sulla fragilità della memoria.
  2. Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) – Michel Gondry
    Una coppia decide di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura medica, ma l’inconscio lotta per trattenere ciò che è importante. Un viaggio emotivo sulla memoria e l’amore.
    Scrivo il titolo in versione originale perché quella italiana l’aveva trasformato in una commedia di serie B e mi aveva impedito di guardarlo e solo le lunghe insistenze di un amico me lo aveva fatto vedere. E mi sono ricreduto, tanto di metterlo in questa lista, e tra le prime posizioni.
  3. Inception (2010) – Christopher Nolan
    Oltre a esplorare il sogno e la realtà, il film ruota attorno ai ricordi e a come essi possono essere manipolati o impiantati nella mente umana.
  4. The Manchurian Candidate (1962 / 2004) – John Frankenheimer / Jonathan Demme
    Un thriller politico in cui un soldato è sottoposto a lavaggio del cervello per diventare un’arma inconsapevole. Un film inquietante sul controllo della memoria.
    Nomino ambedue i film perché sono uno il clone dell’altro, ma a parte la sceneggiatura, a voi la scelta di quale regia, quale interpretazione scegliere.
  5. The Father (2020) – Florian Zeller
    Un viaggio nella mente di un uomo affetto da demenza, visto dal suo stesso punto di vista. Il film trasmette in modo potente la confusione della perdita di memoria.
  6. Mulholland Drive (2001) – David Lynch
    Un film onirico e surreale che mescola amnesia, ricordi distorti e sogni per creare un’esperienza destabilizzante e affascinante.
  7. Total Recall (1990) – Paul Verhoeven
    Basato su un racconto di Philip K. Dick, esplora l’idea di ricordi impiantati e la difficoltà di distinguere la realtà dalla finzione. Effetti speciali davvero datati, visti con l’occhio di oggi, ma un action movie molto destabilizzante, interpretato da un Arnold Schwarzenegger in forma, molto prima di diventare il Governatore della California.
  8. Shutter Island (2010) – Martin Scorsese
    Un agente federale indaga sulla scomparsa di un paziente da un ospedale psichiatrico, mentre lotta con i suoi stessi ricordi e traumi.
  9. 50 volte il primo bacio (2004) – Peter Segal
    Una commedia romantica con un sottotesto malinconico: una donna perde la memoria ogni giorno e il protagonista cerca di farla innamorare di lui ogni volta. Per tante e tante volte, cercando di seguire i suoi sogni che, rivivendo sempre lo stesso giorno, avrebbe potuto non realizzare mai.
  10. The Bourne Identity (2002) – Doug Liman
    Un uomo senza memoria cerca di scoprire chi è, mentre viene braccato da forze misteriose. Una riflessione sull’identità e sul passato dimenticato.

Aggiungo un ultimo film sulla memoria. Un film del grandissimo Alfred Hitchcock: Spellbound. Anche qui la versione italiana (“Io ti salverò”) devia il senso del film che fa diventare una psichiatra giovane e determinata una “crocerossina”. Si tratta di un Thriller ambientato in una casa di cura negli anni ’40 nella quale viene accolto un nuovo medico che nasconde un segreto tanto tanto profondo, nascosto nei meandri della sua memoria.
Per questo film, Hitchcock ha voluto niente meno che Salvador Dalì per rappresentare il sogno.
A tal proposito mi piace ricordare il mio amico Ernesto Laura che su questo tema scrisse un gran bel libro.