Viaggio nel mondo onirico

Nella città in cui vivo c’è un luogo incredibilmente affascinante e misterioso: il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia, venti padiglioni e un parco di 125 mila metri quadri.

Nato nel 1937 come Ospedale Psichiatrico Nazionale e chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, legge promulgata dal dott. Besaglia, neurologo e psichiatra, che pose al centro la questione dei diritti umani e ricollocò questi individui come pazienti, e non più come detenuti. Certo, questa legge vide anche una massiccia contrazione delle spese pubbliche, ma preferisco pensare che non fosse la priorità. Alcuni padiglioni rimasero ancora attivi come A.S.L. fino al 1991, quando in città venne inaugurato il nuovo ospedale, dopodiché fu definitivamente abbandonato a sé stesso (e agli appassionati di urbex). Naturalmente non è aperto al pubblico, ma questo non è mai stato un freno per i numerosi gruppi di curiosi, che spesso arrivano anche da fuori confine, attraversando campi, orti e reti metalliche per potersi introdurre all’interno e tuffarsi nella magia dell’esplorazione. Questo luogo ripaga di tutti gli sforzi. Addentrandoci troviamo ancora le vasche, i lettini, i tavolini autoptici, un’infinità di libri e articoli scientifici, le cinghie di contenimento, fino alle schede dei pazienti e ai registri, scritti a mano, con quella calligrafia così anacronistica. Sorvolando (anche se un po’ contro la volontà) sul fatto che tutto il materiale contenente dati sensibili andasse conservato in maniera più idonea, archiviato con maggiore attenzione o distrutto, rimane quel senso di incredulità e fascinazione a trovarsi circondati da oggetti come questi.

Sì chiamano luoghi abbandonati o luoghi fantasma, eppure non manca mai qualche amante che faccia loro il filo.  C’è sempre una forza di attrazione che ci spinge a voler esplorare ciò che un tempo era vitale e attivo, e la fascinazione che subiamo di fronte a questo passato pieno di interrogativi, pronto a raccontarci storie incredibili e che in fondo è un po’ in nostro terriccio, da dove le nostre radici traggono nutrimento (e si spera anche qualche insegnamento).

Ripercorrendo i corridoi del vecchio manicomio, contemplando la violenza che il passare del tempo può esercitare anche sulle cose inanimate, e respirando quell’odore di muffa e di marciume, in questa cornice dove il passato è sospeso, e dove le pareti sembrano voler soffocare il grido degli orrori vissuti, è difficile non fantasticare su come vivessero la quotidianità tra quelle mura medici e infermieri, ma soprattutto i pazienti. Quale fosse l’ingrediente in eccesso nella ricetta, che li facesse passare agli occhi delle persone comuni come “pazzi”?! E se fossero stati solo dei sognatori cronici? Vittime inghiottite dal mondo Onirico? Uomini e donne riluttanti ad una realtà troppo complicata? O semplicemente persone in qualche modo scomode, da dover privare della propria libertà… E mi domando se anche la nostra psiche non sia un po’ come uno di questi luoghi abbandonati. Un universo infinito, da esplorare con cautela, ma dal quale non farsi inghiottire completamente, mantenendo il ponte con la realtà, un luogo in cui avventurarsi in punta di piedi , con la giusta attrezzatura e poi uscirne, possibilmente integri.

Secondo Jung, fondatore di uno dei due approcci principali della psicoanalisi, il centro della nostra psiche è l’inconoscibile sé, che se esplorato e indagato può diventare una straordinaria forma di libertà e autodeterminazione. Come si può farlo vi chiederete voi? In un modo bellissimo: attraverso i sogni. Quelle immagini folli e apparentemente senza senso che si sviluppano quando dormiamo e lasciamo andare le redini. Il linguaggio dell’inconscio, e quindi dei sogni, non è facilmente fruibile al conscio perché non è razionale, si esprime attraverso immagini, metafore e simboli, esattamente come fa il linguaggio artistico.

E cosa succede quando questo luogo non lo esploriamo e lo consegniamo all’incuria? Quando diventa il luogo dei potenziali irrealizzati? Quando non siamo armonizzati con il sé? Ebbene c’è il rischio di sviluppare sintomi, inquietudine o addirittura nevrosi. Ma analizzando questo luogo, spesso dimenticato, abbiamo una guida per realizzare il nostro destino.

Penso all’inconscio come ad un luogo abbandonato perché i sogni mirano ai nostri lati oscuri, non a ciò che già conosciamo, non sono l’espressione dei nostri desideri e delle nostre paure. Associare o proiettare eventi accaduti nei sogni a cose che conosciamo nella realtà può rivelarsi incorretto o impreciso. I sogni hanno una struttura ed un linguaggio a sé e ciò può rende complicato fare un’autoanalisi.

Abbiamo detto che è importante comunicare con il proprio inconscio attraverso i sogni, ma sappiamo bene che non è così facile registrarli prima ancora di analizzarli e tradurli. Molte persone fanno fatica a ricordare i propri sogni. Ci vuole un po’ di allenamento, in effetti, ma anche l’impegno di scriverli non appena svegli. Perché questi, al mattino, con il primo raggio di luce che contempliamo,  svaniscono come una folata di vento.

Una buona tecnica sarebbe quella di prendere un foglio e dividerlo in due, come si faceva con i temi alle superiori. Nella parte sinistra registriamo il sogno e nella parte destra annotiamo le nostre associazioni, quello che il sogno ci ha evocato. E bisogna farlo nel modo meno razionale possibile. Lasciare la mente libera di vagare e lasciar parlare le immagini, come se fossimo di fronte al Trittico del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch. Opera complessa, sublime ed assolutamente folle agli occhi severi della razionalità.

I sogni sono spontanei e imprevedibili eppure tutti presentano una struttura identificabile nella quale si organizzano.

La psicologia junghiana ci permette di esaminare il sogno dividendolo nelle sue tre componenti strutturali: introduzione o ambientazione, azione e conclusione (obiettivo del sogno, la fase che fornisce la soluzione inconscia). Ma alle volte semplicemente non esiste una libera associazione. E qui è il caso di alzare l’asticella e passare al livello superiore, prendendo in considerazione i sogni archetipici. Gli archetipi sono dei modelli di comportamento primitivi, che l’umanità ha sviluppato nel tempo attraverso l’adattamento all’ambiente. Dei veri e propri centri di gravità dell’inconscio collettivo. Hanno quindi un significato mitologico, che prescinde dall’individuo stesso.

Spesso quando sogniamo qualcuno, magari qualcuno che non c’è più, ci abbandoniamo a un senso di nostalgia e/o pensiamo che lo spirito di quella persona voglia comunicare con noi.  Qui bisogna stabilire su quale piano ci troviamo: oggettivo o soggettivo. Mi spiego meglio, se nel sogno compare il nonno, interpretarlo sul piano oggettivo vuol dire che le azioni di questo personaggio appartengono davvero a lui, mentre su un piano soggettivo le attribuisco ad una parte di me, che può avere delle affinità con la figura rappresentata (il nonno può essere il lato maschile della mia personalità, per esempio). Nella stragrande maggioranza dei casi, la giusta interpretazione ha carattere soggettivo!

Solitamente nella prima metà della vita i sogni riguardano maggiormente l’andamento della vita esteriore terreno e materiale Nella seconda metà invece il modello onirico induce l’individuo a occuparsi del suo mondo interiore, a sviluppare una certa saggezza, a prendere coscienza dell’aspetto profondo dell’esistenza. A rendere il sé un luogo non completamente abbandonato.