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Un nodo allo stomaco, il cuore che batte più forte, tanto da poterlo sentire nelle orecchie.

Succede ogni volta che si sta per esordire. Il primo giorno di scuola, il primo colloquio di lavoro, il primo passo davanti ad un pubblico. Ogni “prima volta” è un piccolo terremoto, un punto di svolta, un evento che ci costringe a fare i conti con l’immagine che vogliamo dare di noi — e con quella che gli altri ci restituiscono.

Esordire è entrare in scena. E quando lo facciamo, il mondo, il nostro mondo, ci guarda.

Ricordiamo tutti almeno un primo giorno di scuola: lo zaino nuovo, scarpe lucidate, l’odore dei quaderni ancora bianchi. Una sensazione strana: eravamo ancora noi stessi, ma stavamo per diventare qualcosa di diverso. La porta si era chiusa alle spalle, per entrare in un nuovo “te”.

Quella giornata non è solo un fatto logistico: è un rito. Come lo è il primo giorno di lavoro, con il vestito stirato la sera prima, l’ansia di arrivare puntuali, il sorriso di circostanza, la sensazione di non sapere bene chi si è in mezzo a sconosciuti.

Quei “primi giorni” non sono solo passaggi nel tempo: sono soglie di trasformazione, veri e propri atti iniziatici.

Riti di passaggio: il sacro nella vita quotidiana

Tutte le culture abbiano rituali di passaggio. Ogni società ha bisogno di marcare il momento in cui un individuo passa da uno stato all’altro: da bambino a giovane, da apprendista a maestro, da estraneo a membro della comunità.

Nelle religioni, questi passaggi diventano riti sacri. Nella tradizione cristiana, la prima comunione è un esordio: il primo incontro consapevole con il sacro, l’ingresso simbolico nel mondo degli adulti della fede. Per i ragazzi ebrei, il Bar mitzvah (per i maschi) e il Bat mitzvah (per le femmine) rappresentano l’assunzione di responsabilità morali e religiose. In altre culture esistono riti di passaggio tribali, iniziazioni simboliche, cerimonie di taglio dei capelli, prove fisiche o spirituali da superare.
Gli adolescenti della tribù Sa, nelle Vanuatu (Melanesia) hanno anche loro un rito di iniziazione, ma devono esibirsi nel rituale del Naghol (tuffo a terra, da una torre alta 18 metri) per poter diventare ufficialmente grandi.

La lunghezza delle liane, fissate alle caviglie, è calcolata in modo che l’impatto con il suolo venga evitato per pochi centimetri.

Il bungee jumping e i rischiosi salti nel vuoto da una torre o da un ponte che si fanno qui nell’Occidente “civile”, deriva da questo antico rito.

Ma cosa ci dicono questi riti? Che l’essere umano ha bisogno di dare significato agli inizi. Esordire non è solo “fare qualcosa per la prima volta”. È cambiare stato. È diventare qualcun altro, alla luce del mondo.

L’ansia da esordio: quando l’inizio fa paura

In tutte le forme di debutto c’è una tensione profonda. Esordire significa esporsi al giudizio altrui, ma anche — e forse soprattutto — al proprio. Significa mettere alla prova l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi. E spesso temiamo di non esserne all’altezza.

Questa paura ha un nome: performance anxiety. È quell’ansia da prestazione che ci blocca prima di parlare in pubblico, che ci fa sudare durante un esame, che ci fa dubitare di ogni nostra parola al primo giorno in ufficio.

Non è debolezza: è umanità. Dietro questa ansia si nasconde il desiderio profondo di essere accettati. Eppure, paradossalmente, solo affrontandola possiamo superarla. L’ansia dell’esordio non si elimina: si attraversa. Proprio come i riti di passaggio.

Il primo fallimento: quando l’inizio inciampa

Non tutti gli esordi finiscono in gloria. Anzi, molti iniziano male. La prima presentazione può essere un disastro. Il primo appuntamento può essere imbarazzante. Il primo tentativo di un progetto può crollare su se stesso. E questo è normale.

Ma nella nostra cultura, così ossessionata dal successo immediato, il fallimento iniziale viene spesso vissuto come una condanna. Come se l’essere bravi fin dall’inizio fosse l’unica prova di valore.

La realtà è molto diversa. Il primo fallimento non è la fine: è parte del processo. È lì che si impara. È lì che si costruisce la resilienza, la capacità di rialzarsi, di affinare, di correggere il tiro. Il vero esordio non è solo il primo gesto, ma anche la prima volta che si sbaglia e si sceglie di continuare.

Molti grandi hanno iniziato male. Walt Disney fu licenziato perché “non aveva idee”. Stephen King vide rifiutato il suo primo manoscritto più di venti volte. J.K. Rowling scrisse Harry Potter da madre single e fu respinta da dozzine di editori.

Il loro successo non fu “non fallire”. Fu non smettere.

La sacralità dell’inizio

Forse dovremmo recuperare un senso più profondo dell’inizio. Dargli tempo, rispetto, spazio. I riti religiosi ci insegnano che ogni passaggio è sacro perché trasforma. Che ogni nuovo stato ha bisogno di un simbolo, di un tempo di attesa, di una comunità che lo riconosca.

Nelle nostre vite moderne, frenetiche e ipercompetitive, abbiamo perso la ritualità del primo passo. Ma possiamo ritrovarla. Accogliendo chi inizia. Offrendo incoraggiamento invece di giudizio. Rispettando l’incertezza. E, soprattutto, riconoscendo che ogni inizio è anche un atto di fede — nella vita, in noi stessi, negli altri.

Conta avere il coraggio di cominciare, nonostante la paura, nonostante l’imperfezione.

Perché sì, il mondo ci guarda. Ma è solo guardando che possiamo finalmente essere visti.

Il progetto mira a sostiene iniziative finalizzate a contribuire al raggiungimento degli obiettivi della missione dell’Unione Europea “Restore Our Ocean and Waters by 2030” rivolto alla salvaguardia e alla conoscenza della Poseidonia e all’importanza della sua presenza nel mare Mediterraneo.

L’Istituto Comprensivo IC Padre Semeria di Roma ha vinto il prestigioso bando europeo SHORE Open Calls. SHORE – Sharing Our Roots for the Environment che rivolge l’attenzione verso l’ambiente marino come bene comune europeo. Il percorso risponde ai Goal 4, 13, 14, 15 e 17 dell’Agenda 2030, integrando le competenze digitali DigComp 2.2 per promuovere una cittadinanza consapevole, attiva e creativa. Il progetto è rivolto alle classi seconda di scuola primaria in continuità con la sezione musicale della scuola media. Shore è un’esperienza educativa interdisciplinare, sensoriale e partecipativa per una cittadinanza attiva, incentrata sulla tutela del Mar Mediterraneo e della Posidonia oceanica, pianta fondamentale per l’ecosistema marino.

L’iniziativa ha potuto contare sull’apporto decisivo della Dirigente Scolastica Serenella Presutti open mind e di tutto lo staff di segreteria.

Tutto questo è stato possibile grazie all’unione dei tanti professionisti dove ognuno investe nella propria crescita personale e collettiva per il bene e la bellezza dei nostri ragazzi offrendo loro diverse occasioni di apprendimento sperimentando, facendo, fare per imparare a fare. Questo progetto ambizioso mira a migliorare l’alfabetizzazione marina degli studenti delle scuole primarie e secondarie, mettendo i giovani in condizione di diventare agenti del cambiamento ed eco-cittadini responsabili. Si articola in attività esplorative, creative e digitali in collaborazione con importanti realtà scientifiche e culturali. Gli alunni sono accompagnati dai biologi marini dell’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale -, per fornire contenuti, informazioni e strumenti per comprendere il valore degli habitat marini e dei cambiamenti climatici.

“E’ un esempio di come l’alleanza scuola e famiglia, quando funziona, produce i suoi risultati – commenta Barbara Riccardi, Ambasciatrice Global Teacher Prize -, grazie anche all’impegno di tempo e professionalità della mamma project manager della classe IID, Andrea Rachele Fiore che ha saputo mettere a sistema quanto pensato, con il supporto dei processi conoscitivi e informativi nello specifico sui contenuti redatti da parte dei biologi marini di ISPRA, referente Barbara La Porta Coordinatrice progetto LIFE S.E.POS. S.O. e referente dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” ed esperto tecnico-scientifico dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Ecosistema Spiaggia”, che prestano il loro operato come formatori da anni nelle nostre classi dando le giuste informazioni per la crescita sostenibile a supporto nel prenderci cura del nostro mare, da parte di noi adulti e di loro, i nostri ragazzi, il nostro futuro già attuale”.

Le attività messe in campo per la formazione e la crescita di tutta la comunità scolastica, sono partite il 5 maggio presso l’IC Padre Semeria Roma al teatro del plesso Principe di Piemonte con il primo incontro formativo dedicato alle classi delle II scuola primaria, grazie all’intervento dei biologi marini: Tiziano Bacci Coordinatore progetto LIFE S.E.POS.S.O. ed esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Monica Targusi referente ed esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Fabio Bertasi esperto tecnico-scientifico delle iniziative di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Alla scoperta delle praterie di Posidonia oceanica” e “Ecosistema Spiaggia”; Paola La Valle referente dell’iniziativa di educazione ambientale e alla sostenibilità di ISPRA “Ecosistema Spiaggia”dell’ISPRA. 

Il progetto mira a sostenere iniziative finalizzate a contribuire al raggiungimento degli obiettivi della missione dell’Unione Europea “Restore Our Ocean and Waters by 2030” rivolto alla salvaguardia e alla conoscenza della poseidonia e all’importanza della sua presenza nel nostro mare, il mar Mediterraneo. Tra le attività previste, l’IC Padre Semeria avvierà una serie di attività innovativi tra cui workshop, incontri, corsi di formazione, mostre e conferenze, tutti volti a sensibilizzare e formare studenti ed educatori su temi ambientali cruciali. Il 14 maggio sarà l’occasione per far osservare attraverso lenti di ingrandimento, toccare e riconoscere la poseidoniadirettamente sulle spiagge di Sant’Agostino di Civitavecchia dove i biologi marini saranno le guide esperte per questa esperienza unica. Nella stessa giornata è prevista la visita alla Lega Navale di Civitavecchia che ci ospiterà per un altro momento informativo e formativo per i nostri giovani ambientalisti. Partner del progetto SHORE è l’Università di Padova con la facoltà di biologia e il Museo dei bambini Explora di Roma dove le classi praticheranno laboratori esperienziali variegati inerenti l’educazione ambientale e la tutela del mare. Sul piano internazionale, la nostra scuola collabora in gemellaggio con la École Saint Jacques di Parigi, promuovendo un dialogo interculturale e una sensibilità ambientale condivisa per la conoscenza delle nostre due realtà, Roma e Parigi. Il 3 giugno sarà l’occasione per ritrovarsi tutti insieme per lo spettacolo tratto dal libro Le voci segrete del mare della prof.ssa Mari Caporale dell’Università Sapienza dove gli studenti della sezione musicale, la Fanfaretta composta da 20 fiati, 6 percussioni e 3 attori, realizzeranno la colonna sonora e saranno diretti dai loro professori Marcello Duranti e Vittorio Gervasi, accompagnati dalle note del maestro pianista Martino Orecchioni. Tutto il materiale prodotto, video, interviste, elaborati, foto, disegni, cartelloni, racconti e tutte le testimonianze degli studenti, docenti e genitori saranno raccolte ed inserite nel museo virtuale realizzato ad hoc, grazie all’animatrice digitale e referente del progetto Patrizia Mazzotta sarà accessibile per tutti come forma di apprendimento dinamico e i ragazzi saranno veri e propri ricercatori e guide. I laboratori saranno videoregistrati e tradotti in due lingue, italiano e inglese, garantendo così un accesso gratuito e permanente a risorse educative sostenibili alle scuole della Rete Blu. Questo approccio mira a sviluppare una maggiore consapevolezza verso le sfide ambientali e promuovere comportamenti sostenibili tra i giovani.

Grande orgoglio far parte della coalizione EU4Ocean e della Rete europea delle Scuole Blu, collaborando per la salvaguardia dei nostri oceani e acque interne. Insieme possiamo fare la differenza e ispirare le nuove generazioni a proteggere il nostro pianeta. Facendo parte della Rete delle Scuole Blu questi laboratori daranno la possibilità agli studenti di accedere gratuitamente a opportunità di apprendimento con l’obiettivo di sviluppare una maggiore consapevolezza verso un mondo sostenibile.

L’iniziativa non solo rafforzerà la coalizione EU4Ocean, ma contribuirà anche a costruire una rete europea di Scuole Blu, impegnate nella protezione dei mari e nell’educazione ambientale. La partecipazione attiva dei giovani è fondamentale, attraverso questa esperienza, gli studenti diventeranno agenti del cambiamento e promotori di una cultura di responsabilità verso il nostro pianeta.

Altro che l’arrivo di Iron Man nel primo “Avengers” o l’entrata in scena di Darth Vader con mantello svolazzante: l’esordio più clamoroso della storia non è accaduto al cinema, ma 13,8 miliardi di anni fa, con il Big Bang. Niente luci, niente pubblico, eppure è andato in scena l’inizio di tutto: Universo, spazio, tempo… boom! Sipario aperto. 

Cosa c’era prima del Big Bang? Beh bella domanda, in realtà non possiamo nemmeno parlare di un prima perché il tempo stesso è nato in quell’esordio è come chiedersi “cosa c’è al Nord del Polo Nord?”. Eh no non è trucco Jedi: è fisica.   All’inizio l’Universo era in uno stato indescrivibile una specie di punto infinitamente denso e caldo chiamato singolarità. Non c’era  ancora nulla: nessuna stella, nessun pianeta, nessuna galassia, nessun “là fuori”, nessun “quando”, nessun “dove”e  poi, all’improvviso, qualcosa accade. In una frazione piccolissima di secondo, quel punto  ha cominciato ad espandersi  e secondo le teorie più accreditate lo sta facendo ancora oggi. 

Nei primissimi istanti dopo il Big Bang (parliamo di meno di un milionesimo di miliardesimo di secondo), l’universo era una “zuppa bollente” di energia pura, troppo calda per permettere la formazione di atomi o particelle stabili, ma via via che si espandeva e si raffreddava iniziarono a formarsi  le prime particelle: dopo pochi secondi iniziarono a fare il loro esordio sul palco  protoni e neutroni, dopo qualche minuto i primi nuclei semplice dell’Idrogeno e dell’Elio. Solo dopo 380,000 anni  anche gli elettroni iniziarono ad unirsi ai nuclei formando i primi atomi. A questo punto l’universo era abbastanza freddo e molto meno denso da permettere alla luce di muoversi. La radiazione, che da quel momento ha potuto propagarsi, è ancora oggi visibile si chiama radiazione di fondo cosmico.

Nei milioni e miliardi di anni successivi, la forza di gravità ha fatto il suo lavoro: ha attirato la materia, creando grumi sempre più grandi che sono diventati stelle, galassie e ammassi di galassie.

Le prime stelle hanno acceso la luce nel cosmo. All’interno di queste fornaci, l’idrogeno si è fuso per creare elementi più pesanti, come ossigeno, carbonio, ferro… le basi della chimica della vita e quando queste stelle sono esplose, hanno sparso questi elementi nello spazio, pronti a formare nuovi sistemi, nuovi mondi. Il nostro Sole, il nostro Sistema Solare, la Terra e persino noi stessi, siamo il risultato di quella catena di eventi.  “Siamo fatti della stessa materia delle stelle.”…e no, non l’ha detto Yoda. L’ha detto Carl Sagan. 

Oggi, l’universo continua ad espandersi. E con sorpresa degli scienziati, lo sta facendo sempre più velocemente. È come se qualcuno avesse premuto l’acceleratore e poi si fosse dimenticato di mollarlo. A spingere questa espansione è qualcosa di misterioso, invisibile e potentissimo, che gli studiosi hanno battezzato energia oscura. Una forza che permea tutto il cosmo, domina l’universo… ma che ancora non capiamo. Sì, sì, lo so che ci avete pensato: “È la Forza!”.
Eh no. Mi spiace nessun Jedi e nessun Sith. Questa roba qui non solleva astronavi ma spinge intere galassie a scappare l’una dall’altra. Altro che lato oscuro: questo è il lato sconosciuto dell’universo. 

Siamo all’esordio di un nuovo ordine mondiale? Questa è la domanda che ci chiediamo un po’ tutti in questa prima metà dell’anno, così densa di avvenimenti epocali. I prodromi c’erano tutti e gli attori in fin dei conti sono gli stessi e già noti ma nessuno si aspettava cambiamenti così repentini.

Stiamo assistendo ad un mutamento storico che chiude un periodo di 80 anni di pace e “stabilita’” pur nonostante i grandi scossoni che si sono avuti in questo lunghissimo arco temporale. Mai come adesso era stato messo in discussione così apertamente e platealmente il diritto internazionale, le stesse istituzioni internazionali che ne stabilivano il rispetto, le alleanze storiche e i rapporti di forza che hanno più o meno garantito gli equilibri mondiali fino ad oggi.

Di fatto, come affermato da Papa Francesco, che ci ha lasciato nel Lunedì dell’Angelo, siamo già dentro una terza guerra mondiale “a pezzi”, con 56 conflitti armati in tutto il mondo, il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale. 

 

Per il soglio di Bergoglio, che non è stato solo il capo spirituale della cristianità, ma un faro per l’intera umanità per le sue idee di pace e fratellanza, il Conclave ha deciso, novità assoluta per la Chiesa, per il cardinale americano Robert Francis Prevost. 

Assistiamo così al nuovo esordio, di portata mondiale di Leone XIV come 267° papa, missionario in America Latina e agostiniano. 

Sappiamo quanto i pontificati abbiano inciso nei corsi storici e nelle vicende del mondo intero e il motivo dell’interesse suscitato da questa elezione, soprattutto tra cattolici conservatori e progressisti, in particolare negli Stati Uniti e nello stesso presidente Trump.

Tutti si domandano se proseguirà sulle orme di Bergoglio. Probabilmente smusserà alcuni aspetti più radicali della linea del predecessore anche se dai primi passi, sembra essere in sostanziale continuità. Dalla loggia delle benedizioni il primo messaggio e’: la pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante. 

Vatican Media

Anche il nome, che lui stesso ha spiegato, si ricollega a Leone XIII, il papa della “modernità” che con la sua Rerum Novarum, ha inaugurato la dottrina sociale della Chiesa. Nella  nuova modernità, la sfida sarà quella del’Intelligenza artificiale, tema che mette pesantemente in gioco non solo la questione del lavoro e della tecnica, ma dello stesso  significato dell’umano.

Con la “guerra” dei dazi, in genere anticamera della  guerra vera, entra anche crisi la globalizzazione e con essa, il liberismo, fondamento del commercio internazionale, sviluppatosi dal dopoguerra ad oggi prima con il GATT poi con il WTO. Con esso, stanno entrando in crisi le stesse democrazie, minate da chiusure, nazionalismi e autoritarismi. La cosa che spaventa non sono solo i venti di guerra, ma anche la messa in discussione di tutti i diritti civili e sociali che le democrazie liberali avevano portato come conquiste acquisite.

Se in occidente, nella seconda metà del Novecento, lo sviluppo economico e dei servizi avevano modellato l’organizzazione sociale, favorendo forme democratiche, lo sviluppo impetuoso, a partire dal nuovo millennio, delle tecnologie in mano a poche persone o a gruppi oligopolistici, ha creato nuove forme di alleanze tra economia e politica. Il triangolo di forze tra finanza, capitale e tecnica, con al vertice quest’ultima, sta alimentando tecnocrazie con tendenze autoritarie, come stiamo vedendo anche negli Stati Uniti, dove si assiste, non più solo più al condizionamento politico ma, all’ingresso di questi soggetti in grado di affiancarsi direttamente al potere politico. 

Se prima le democrature sembravano un appannaggio della parte orientale dell’Europa, contraddistinta dall’ex cortina di ferro dove prevaleva l’incompiutezza della transizione democratica negli stati dell’Europa centrale e orientale dopo la dissoluzione dell’URSS (ed ovviamente in altre parti del mondo per altri e diversi motivi), adesso hanno contaminato tutto l’occidente più avanzato.  

Gli stessi Stati Uniti, “esempio” della più avanzata democrazia, sono entrati in questo cono d’ombra che lascia sgomenti per le modalità in cui sta avvenendo. Un assaggio si era già avuto con le vicende dell’assalto a Capitol Hill, attuato a Washington il 6 gennaio 2021, dopo il discorso del presidente uscente Trump, in cui si contestavano le elezioni che lo vedevano perdente. La pur debole e contraddittoria amministrazione Biden sembrava almeno in parte aver riequilibrato il vulnus con una serie di misure quali lo stop dall’uscita dall’OMS dopo le contestazioni dovute alla gestione della pandemia da Covid-19 (che invece è stato riconfermato con un ordine esecutivo, tra i primi atti della nuova amministrazione Trump tra cui anche quello del blocco alle attività dell’USAID, la più grande agenzia al mondo di aiuti umanitari), le politiche di integrazione degli immigrati, il rafforzamento del ruolo delle Agenzie federali, le misure contro il cambiamento climatico e per i diritti civili e sociali con l’Inflation Reduction Act (IRA) che guardava anche alla competitività del sistema produttivo. È pur vero che questa stessa Amministrazione si è mostrata molto indulgente verso le guerre.

Anche l’Europa, che avrebbe dovuto essere lo scrigno di valori civici, sociali e dell’humanitas, è stata investita da questa onda, principalmente dovuta ai partiti sovranisti e alle divisioni dei vari Paesi in seno alla stessa Unione. La spaccatura creatasi con il conflitto russo-ucraino ha dato il colpo di grazia. Il suo ruolo non è stato purtroppo all’altezza delle aspettative e dei cambiamenti che stavano trasformando il mondo. Su questo si potrebbe aprire un capitolo, se non altro che possa servire da lezione per il futuro.  A parte la ferma vocazione per la diplomazia che ha ceduto il passo alle armi, sarebbe auspicabile l’abbandono delle votazioni all’unanimità, almeno in alcuni campi. Stessa riforma andrebbe fatta per l’ONU, dove il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, porta spesso alla paralisi decisionale. Inoltre, in sede europea, andrebbero sanzionati se non espulsi, quei Paesi che non si riconoscono nei valori di democrazia e civiltà, fondanti l’Europa stessa e che ne garantiscono la coesione e la civile convivenza. Sicuramente il riarmo dell’Europa costituisce un nuovo esordio mondiale, Vediamo che esiti avrà, se soprattutto andrà di pari passo con una coerente ed unitaria politica estera ed un’armonizzazione della difesa comune non affidata ai singoli Paesi.

Se prima la globalizzazione e la tecnologia avevano incrinato i precari equilibri democratici, a questo binomio s’è aggiunto, come frutto avvelenato (e non sufficientemente capito e contrastato dalle classi politiche), quello delle derive autoritarie e delle chiusure nazionalistiche, alimentate dalla sfiducia dei cittadini, in cerca di protezione e sicurezza, nei confronti delle stesse elites politiche. Lo spettro dell’estrema destra ormai aleggia in Europa e in tutto il mondo “occidentale”, con gli Stati Uniti in testa a questa internazionale nera e sovranista, mettendo le democrazie sotto scacco.

È evidente che l’ordine uscito dalla Seconda Guerra Mondiale, che vedeva la supremazia degli Stati Uniti, è ormai più che incrinato. Gli USA sentono il fiato sul collo della Cina, attorno alla quale si stanno coagulando i BRICS che si vanno via via ampliando e organizzando, con l’obiettivo di offrire un’alternativa all’ordine mondiale vigente. Speriamo solo, che in queste guerre per procura non scatti la “trappola di Tucidide”, espressione coniata dal politologo statunitense Graham Allison per indicare tensioni che possono sfociare nella guerra tra potenze egemoni, come appunto fu quella rovinosa tra Atene e Sparta.

Si possono leggere in quest’ottica le mosse scomposte di Trump sui dazi, che vorrebbero colpire o cercare di isolare principalmente la Cina, le sue mire espansionistiche sul Canada, sulla Groenlandia, sul canale di Panama, e sulle rotte Artiche, che si inscrivono in questo ritorno nostalgico codificato nell’acronimo MAGA (Make America Great Again). Gli Stati Uniti sono stati gli artefici della globalizzazione, ma chi ne ha tratto maggior vantaggio è stata la Cina, motivo per cui adesso vorrebbero tornare indietro ma in un mondo ormai completamente trasfigurato. La “riabilitazione” della Russia probabilmente fa il paio con il ritorno nostalgico di Putin all’URSS.

Creator: Matt Rourke | Credit: AP

Ma allora è un ritorno o un esordio? C’è da dire, come afferma il filosofo Peter Sloterdijk, che l’antropotecnica è una cifra della modernità, in quanto l’uomo è l’unico essere che nella linea evolutiva è riuscito a distaccarsi dall’ambiente naturale creando un mondo artificiale (e culturale). Fina dall’età della pietra è infatti un susseguirsi di forme antropotecniche di cui oggi siamo al culmine o, forse meglio, a un nuovo esordio anche per le loro implicazioni sempre più strette con l’economia, la politica e la vita stessa delle persone. Non a caso nella Silicon Valley si stanno moltiplicando le start-up che si occupano di superare biologicamente la morte, sulla scia del pensiero “don’t die” di diversi guru tecnologici e imprenditori come Bryan Johnson. Sembra ormai che l’ultimo grande rimosso delle nostre società, ossia la morte, sia l’ultima barriera da superare per l’onnipotenza dell’uomo, insieme alla colonizzazione di Marte.

L’Intelligenza artificiale, la cui portata allarma, ma non è stata ancora ben compresa e studiata, nelle sue implicazioni sull’”umano”, di certo costituisce anch’essa un nuovo esordio, come richiamato dallo stesso Pontefice Leone XIV che sembra farne la questione centrale del suo pontificato nella post-modernità, come fu la questione sociale per il suo “predecessore” Leone XIII trattata con l’enciclica Rerum Novarum del 1891 che affrontava, oltre alla questione operaia e ai conflitti posti dal socialismo, anche il rapido sviluppo industriale e tecnologico con cui si andava a chiudere il suo secolo e a prefigurare il Novecento.

Sull’umano, la cifra che sembra emergere è l’istituzionalizzazione della cattiveria e dell’indifferenza a tutti i livelli. La politica, che prima aveva una funzione di governo, mediazione e compensazione, si è estremizzata e incattivita. La disumanizzazione è la cifra di questo nuovo mondo, un esordio tutt’altro che rassicurante che ha investito purtroppo anche le nostre vite e le nostre relazioni. Basta guardare con che rapidità ci stiamo assuefacendo alle guerre e alle atrocità.  

A cura di Ivan Fedele

Giuseppe Cesaro nasce a Sestri Levante il 12 marzo del 1961.

Si appassiona ben presto alla musica e alla parola scritta. Mancino come Paul McCartney, del quale è un grande estimatore, impara a suonare la chitarra da ragazzino. Collabora con le riviste “Chitarre” e “Chitarra acustica”. Nel 1987 partecipa alla realizzazione del libro “Assolo, non solo” edito nel 1987 da Rusconi. Volume che approfondisce un progetto musicale live di Baglioni il quale, unico musicista sul palco, suona insieme tutti gli strumenti musicali collegati dal neonato sistema MIDI (del quale Giuseppe Cesaro diventa esperto per “Midiware” e “Musicarte”, epicentro delle novità musicali e strumentali a Roma e in Italia). Nell’ambito di queste competenze, Giuseppe Cesaro si ritrova anche ad avvicinare alle nuove potenzialità del MIDI e dei nuovi software musicali Lucio Battisti. 

Collabora con il portale fingerpicking.net e scrive ancora, in qualità di esperto del settore, sulle riviste “Fare musica”, “Computer music”, “Studio report”, ecc.

Negli anni ’90 è direttore responsabile del mensile di cultura politica “Città popolare”. Collabora anche con il quotidiano “L’informazione” e il quindicinale “Agricoltura”.

Dalla primavera del 1998 diventa consulente ai testi di Claudio Baglioni collaborando alla realizzazione di progetti discografici, produzioni live, iniziative editoriali e alla comunicazione. La collaborazione inizia col progetto “Da me a te” e nella stesura di brani evocativi come “Prima del calcio di rigore” per poi proseguire con gli album “Viaggiatore sulla coda del tempo”, “Sono io, l’uomo della storia accanto”, “QPGA” (album musicale e romanzo), “Con voi” e “In questa storia che è la mia”. Il suo apporto collaborativo è decisivo anche per “O’ Scià”, festival musicale che il cantautore romano svolge sull’isola di Lampedusa, con cadenza annuale, dal 2003 al 2012, ottenendo importanti riconoscimenti istituzionali per i suoi scopi sociali in ambito europeo. 

Il 20 dicembre 2003, in uno degli appuntamenti speciali legati all’Associazione Culturale ClaB, al Palaghiaccio di Marino duetta con Claudio Baglioni sulle note di “Yesterday” dei Beatles.

È curatore, editor e ghostwriter per le case editrici La nave di Teseo, Bompiani, Mondadori, Rizzoli, Skira.

Nel 2008 esordisce nella narrativa con il romanzo breve “Aghi di pino” con la casa editrice Edimond. 

Nel 2013 inizia la sua collaborazione con Giuseppe Sgarbi. Dietro invito di Elisabetta Sgarbi, Giuseppe Cesaro raccoglie testimonianze e memorie del padre, contribuendo a realizzare i romanzi “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” (2014), che vince i prestigiosi premi Martoglio e Bancarella, “Lei mi parla ancora” (2016, del quale Pupi Avati si è occupato di una trasposizione cinematografica avente come attore protagonista Renato Pozzetto e come interprete del personaggio richiamante la figura di Giuseppe Cesaro, l’attore Fabrizio Gifuni) e “Il canale dei cuori” (2018).

Nel 2018, con La nave di Teseo, pubblica il romanzo “Indifesa”, una storia di solitudine che ha per protagonista Andrea, intrappolato in un corpo misterioso difficile da definire e da decifrare.

Nel 2021 pubblica, sempre con La nave di Teseo, il romanzo “31 aprile – Il male non muore mai”. Vera Stark, la protagonista, è una giornalista che ha iniziato un’inchiesta sulla crescita del neonazismo in Germania e che dovrà presto rendersi conto che l’orrore non è alle spalle, ma è vivo e presente a pochi passi da lei.

Nel 2023, per la Round Robin Editrice, esce “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”, un vademecum per imparare l’arte di scrivere a uso e consumo di giovani, adulti, principianti e addetti ai lavori. 

Infine, nel 2025, esce, per La nave di Teseo, il suo memoriale “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce”. Romanzo che racconta squarci autobiografici relativi alla storia della sua famiglia e soprattutto a due lutti familiari molto importanti.

FOCUS SULL’ULTIMA OPERA

“Fatico a ricordare il tuo volto. E, ancora di più, la tua voce” è l’ultimo libro dell’autore Giuseppe Cesaro, pubblicato da La nave di Teseo nel marzo di quest’anno e introdotto da una bellissima prefazione di Pupi Avati. Nel romanzo memoriale Giuseppe Cesaro racconta dei suoi diciassette anni e della perdita della madre. L’autore si rivolge alla madre, in un dialogo che va oltre la morte, nel tentare di ricordare i mesi della sua malattia. In una famiglia già segnata dalla morte di Marta, una delle sorelle dell’autore il libro esplora i temi della perdita, del ricordo, dei vari modi di porsi di fronte al dolore, alla malattia (di quel “brutto male” del quale si celava il nome) e alla morte. E’ un libro doloroso e poetico, ma, paradossalmente, è una storia piena di vita, di amore, di una famiglia comunque unita. Un lungo racconto dove sentiamo la puzza di ospedale, ma anche l’odore del mare di Sestri Levante.

Innanzitutto grazie per averci concesso questa intervista. 

Grazie a voi per l’attenzione.

Ho letto i tuoi bellissimi romanzi. Dai racconti di “Aghi di pino” fino all’ultimo “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce”. Come nasce la tua passione per la scrittura? 

Credo che sia andata un po’ come a Obelix. Lui, da piccolo, è caduto nel pentolone della pozione magica di Panoramix, io, nello studio-libreria di mio papà, un “sancta sanctorum” nel quale erano ordinatamente accatastati migliaia di titoli. Un bel giorno – avrò avuto quindici o sedici anni – ho commesso l’errore di prendere un libro e cominciare a leggerlo (un racconto breve di Dostoevskij, chiamato “Povera gente”) e sono precipitato nel mondo più affascinante di tutti: quello delle parole. Affascinante e totalizzante, evidentemente. Da allora, infatti, non ne sono più uscito. 

C’è stato un momento preciso in cui hai capito che volevi fare lo scrittore?

No. Il passaggio dall’amore per le parole lette a quello per le parole scritte è stato del tutto naturale. A poco a poco, mi sono trovato a mettere in fila le parole. E, una fila dopo l’altra, mi sono accorto che prendevano vita delle storie. Quello di cui non ero ancora consapevole è che, mentre le storie prendevano la loro vita, si prendevano anche la mia. E, così, quasi senza che me ne accorgessi, le parole sono diventate la mia vita. Loro continuano ad arrivare, io continuo a metterle in fila e le storie continuano a nascere. A volte – come in questo caso – tirarle fuori dalla testa e metterle su carta è doloroso. In compenso, però, aiuta. Certe ferite non si rimarginano, è vero. Ma impariamo a disinfettarle meglio. La speranza è che pagine come queste, possano aiutare anche chi deciderà di dedicare loro un po’ del suo tempo. Un dono immenso, se ci pensi. Visto che non abbiamo niente di più prezioso. Spero, almeno, di non deluderlo.

“Aghi di pino” del 2009 è composto da una serie di racconti che vanno a intersecarsi tra di loro, donando grande coralità alla narrazione. Ogni storia personale è mossa, appunto, come un ago di pino al vento. E noi ci avviciniamo promettendoci un “per sempre” che non possiamo mantenere, perché lo stesso vento potrebbe allontanarci. Siamo mossi dal caso o dal caos?

Da entrambi, temo. E, forse, non è del tutto privo di significato il fatto che “caso” e “caos” siano l’uno l’anagramma dell’altro. Non so dire se faremmo meglio a lasciarci trascinare dal vento, come gli aghi di pino o se dovremmo combattere le correnti, per cercare di prendere in mano – ammesso che sia davvero possibile – il timone di noi stessi. Credo che ognuno di noi debba scegliere la strada che sente più sua. Quello che so è che navigare non è facile. Mai. Né in favore di vento né controvento. Per due ragioni su tutte, secondo me. La prima è che abbiamo piantata nell’anima una parola – “infinito” – che parla di qualcosa che, in natura, non esiste. Tutto, intorno a noi, infatti è “finito”. E questa fame di infinito, in una realtà, nella quale ogni cosa finisce, genera angoscia. Il “per sempre” che qualcuno ha depositato in fondo al nostro cuore, è irrealizzabile e questo ci fa soffrire. 

La seconda ragione è che noi umani (sostantivo, non aggettivo) siamo gli unici animali che fabbricano da sé la gabbia nella quale si rinchiuderanno. Pensaci: tra il “lordo” e il “netto” dell’esistenza, c’è un abisso. Abbiamo costruito una quotidianità talmente opprimente che, tra il lavoro, le mille incombenze quotidiane, le faccende domestiche (le famigerate “cose da fare”), la burocrazia, ecc. ecc., il tempo per vivere davvero si riduce al lumicino, anche perché un terzo della vita la dormiamo… “È la vita”, diciamo. Balle! Non l’abbiamo trovata bell’e pronta: l’abbiamo voluta così noi! Invece di lamentarci, dunque, faremmo bene a farci un bell’esame di coscienza. (Pensiamo solo a come l’avidità sta riducendo il nostro pianeta…). Ci siamo resi schiavi di falsi bisogni e modi di vivere completamente assurdi, che finiscono col succhiarci i quattro quinti del nostro tempo. Di’ la verità: non sembra folle anche a te?

Hai perfettamente ragione. È assoluta follia! La tua avventura umana parte da Sestri Levante. Una Sestri raccontata molto nel tuo ultimo lavoro. Le tue origini quanto hanno influito sulla tua personalità e sul tuo modo di scrivere?

Racconto spesso di essere nato sul tavolo da pranzo di una casa equidistante da Baia del Silenzio e Baia delle Favole ed è la verità. Chissà: forse sarà per questo che amo così tanto le parole e fatico a rimanere attaccato alla realtà. E, mentre la realtà – forse perché, come ho detto, noi umani facciamo di tutto per renderla indigeribile – è spesso devastante e quasi sempre deludente, le parole, persino le più brutte, non deludono mai, perché hanno sempre qualcosa da dire. Credo che, dopo la musica, la parola sia la più grande invenzione dell’umanità. Pensaci: una parola salva, un’altra condanna; una esalta, un’altra deprime; una dà la vita, un’altra la toglie. È la parola l’arma più potente che esista. Proprio per questo, però, bisogna maneggiarla con la massima cura. Basta davvero un nonnulla per trasformare il Paradiso in Inferno. Un grande filosofo del Novecento diceva: “Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo”. Se è così – e io ne sono convinto – non è difficile capire che, se parliamo parole brutte, sporche e cattive, viviamo in una casa brutta, sporca e cattiva, e conduciamo una vita brutta, sporca e cattiva. Non una grande prospettiva, non ti pare?

Per niente. Il nostro linguaggio influenza il nostro pensiero e la nostra morale. Ma, a proposito di parole, quali sono gli autori che hanno particolarmente ispirato la tua formazione di uomo e di scrittore?

Domanda difficilissima. Dopo più di cinquant’anni di letture, sono davvero tante le anime che mi hanno animato e, spesso, rianimato. Impossibile citarle tutte. Mi vengono in mente il Dostoevskij de “I fratelli Karamazov” o di “Delitto e castigo”, il Böll di “E non disse nemmeno una parola” o “Opinioni di un clown”, il Gadda di “La cognizione del dolore” e del “Pasticciaccio”… ma anche Virginia Woolf e Toni Morrison, Fitzgerald, Hemingway e Salinger, Pasolini, Calvino e Tabucchi… e, naturalmente, Omero, Dante, Shakespeare, Leopardi! Ma sono solo i primi nomi che mi vengono in mente. La lista è infinitamente più lunga di così. Se non ho ancora smesso di scrivere, credo sia per il tentativo di riuscire, un giorno, a diventare bravo come loro. Tentativo disperato perché, inevitabilmente, destinato a fallire. Un fallimento che, però, tiene vivi, dal momento che costringe a lottare per fare ancora un piccolo passo avanti verso la vetta. Non conta arrivare in cima: conta non smettere mai di camminare. Non dovremmo mai dimenticare l’“ideale” (le cose, cioè, come dovrebbero essere) e non dovremmo mai arrenderci al “reale” (le cose come, invece, sono), perché, se lo facciamo, non solo né noi né il mondo miglioreremo mai ma, al contrario, continueremo, irrimediabilmente, a peggiorare.

Un punto importante della tua carriera è stato l’incontro con Giuseppe Sgarbi, grazie alla figlia Elisabetta. Ne sono nati dei libri che hanno fatto incetta di premi. Raccontaci di questo sodalizio. 

È stato un incontro sorprendente, intenso ed emozionante. “Nino” – come lo chiamavano tutti – aveva già più di novant’anni. Un gentiluomo d’altri tempi. “Lei crede davvero che a qualcuno possa interessare la mia vita?”, mi chiese, la prima volta che ci incontrammo. “Sì”, risposi, senza esitare. “Non dica bugie”, replicò, dubbioso. “Mi chiamo Giuseppe – dissi – le pare che uno che si chiama così possa dire bugie?”. Sorrise, crollando la testa e cominciò a raccontare. Dai nostri incontri, sono usciti quattro romanzi: uno più bello dell’altro. Non lo dico io. Lo hanno detto critici e lettori. “Uno scrittore e un uomo autorevole”, lo ha definito un gigante come Claudio Magris: “ricorda, racconta, riflette in una prosa classica, affascinante, piana e percorsa da echi e risonanze, come ogni classicità”. Più di così.

E che impressione ti ha fatto essere interpretato, nel film “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati, da Fabrizio Gifuni? Che significativo dono, poi, che proprio Pupi Avati abbia scritto la prefazione di “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancor più, la tua voce”…

Un’emozione incontenibile. Quasi impossibile da raccontare. Pupi mi invitò a Cinecittà alla proiezione riservata al cast. Ricordo Stefania Sandrelli, Isabella Ragonese, Chiara Caselli, Fabrizio Gifuni, Alessandro Haber… (C’era anche Vittorio Sgarbi…). Un attimo prima di dare il via alla proiezione, Pupi mi indicò e disse: “È lui il vero Gifuni!”. Quello che accadde dopo, dentro di me, te lo lascio immaginare. Alla fine della proiezione, erano – come te – tutti curiosi di sapere come fosse stata quell’esperienza e come si fosse sviluppato un dialogo così intenso e poetico tra due persone così lontane, non solo anagraficamente. Sandrelli e Caselli mi dissero: “Vieni, ti accompagniamo a casa”. Troppe emozioni per un solo pomeriggio. Le ringraziai, ci abbracciammo, uscii nella Roma di sempre e tornai a casa in Metro. Nel tempo, la sintonia con Pupi si è affinata. Non so se, oggi, si possa parlare di amicizia. È una parola troppo grande: il pudore mi impedisce di usarla con leggerezza. Credo si possa parlare di affinità elettive e di simpatia, nell’eccezione che l’etimologia suggerisce. Fatto sta che, da allora, mi invita alle anteprime dei suoi film, ci scambiamo messaggi su attualità, libri, cinema, arte e su questo presente chi ci piace ogni giorno di meno… Una mattina, gli ho mandato una delle prime bozze del mio memoir. Ero dubbioso se andare avanti o no. La bozza lo ha colpito e mi ha chiamato subito. “Devi scriverlo, assolutamente!”, ha detto. Stessa cosa che mi aveva detto anche Maria Antonia: sceneggiatrice, regista, eccellente scrittrice (il suo “Il silenzio del sabato” è uno dei libri che ho amato di più di questi ultimi anni) e anche figlia di Pupi. Sono stati loro tra i primissimi a incoraggiarmi a imboccare questa strada. E, a giudicare dalle parole di recensori e lettori, direi che avevano visto giusto.

Nel 2018 esce “Indifesa”. Un romanzo di rara intensità. È una condizione da evitare o da accogliere il sentirsi indifesi?

Mettiamola così: se una farfalla si posa sulla schiena di un rinoceronte, il rinoceronte non se ne accorge nemmeno. Se, invece, è il rinoceronte a poggiare una zampa sulla farfalla, la farfalla se ne accorge eccome. Peccato, però, che quella sarà l’ultima cosa della quale si accorgerà. Un’anima indifesa somiglia molto più a una farfalla che non a un rinoceronte. È infinitamente più fragile e assai più esposta alle intemperie dell’esistere. In cambio, però, le sono consentite due meraviglie che al rinoceronte sono irrimediabilmente negate: incantare il mondo con i colori e i disegni strabilianti delle sue ali e volare. La fragilità si paga a caro prezzo, è vero. Ma ripaga. Molto più di quanto immaginiamo. Non so te ma io, se potessi scegliere, preferirei volare. E tu?

Assolutamente sì. Innalzarsi dove la grettezza del rinoceronte non potrà mai. Andrea, nel romanzo, vive una situazione di solitudine ed esclusione in un corpo che biologicamente a volte è maschile, altre volte femminile. A cosa ti sei ispirato per tratteggiare la sua figura?

Mi sono ispirato alla parte femminile che è in ciascuno di noi. Che, spesso, è la nostra parte migliore. Credo che dovremmo imparare ad ascoltarla e a tenere nella dovuta considerazione quello che ci dice. Sono certo che le cose andrebbero molto ma molto meglio. Sia nel nostro rapporto con noi stessi che in quello con gli altri. E credo anche che il mondo troverebbe, finalmente, la bussola che non ha mai trovato. E che, purtroppo, temo abbia paura di trovare.

Cosa avevi urgenza di raccontare?

L’ottusa cecità e la meschina e volgare mediocrità del mondo. Un mondo che non è disposto ad accettare la nostra vera identità e che è ancora meno disposto ad accettare chi, come Andrea (un nome, non a caso, ambigenere), di identità ne ha addirittura due. Il mondo vive – non da oggi ma soprattutto oggi – in una sgradevolissima e nefasta asimmetria: tutti ci riempiamo la bocca della parola identità, rivendicando il nostro diritto a vederla riconosciuta, accettata e rispettata dagli altri. Allo stesso tempo, però, neghiamo agli altri il diritto a vedere riconosciuta, accettata e rispettata la loro identità. Una follia. Come se ci fossero identità buone e identità cattive, identità giuste e identità sbagliate, identità legittime e identità illegittime. E, come al solito, senza curarci minimamente della “trave” nel nostro occhio, puntiamo il dito e, sempre più spesso, il mitra contro la “pagliuzza” nell’occhio dell’altro. La “terza guerra mondiale a pezzi” parte da qui. E rischia di fare a pezzi il mondo, con tutte le sue identità, vere o false che siano.

Nella storia fa capolino anche un artista musicale che, in molti tratti, sembra ricordare Baglioni, proprio il cantautore romano con il quale collabori ai testi dal 1998. Ma la vostra conoscenza ha radici negli anni ’80, ai tempi di “Assolo, non solo”, un progetto altamente innovativo di Claudio Baglioni. Ci racconti come è nato e come si è sviluppato il vostro rapporto artistico?

L’incontro è avvenuto, nel 1986, grazie a Pasquale Minieri, quando nasceva il progetto di trascrivere – con i primi software di scrittura musicale – le parti realmente suonate da Claudio, dal vivo, sul palco di quel tour, straordinario e letteralmente unico, che fu “Assolo”. Un’idea tanto affascinante quanto difficile da realizzare, anche perché, all’epoca, i software di scrittura e stampa musicale erano davvero agli albori della loro storia. Un lavoro massacrante, soprattutto per Walter Savelli che doveva ricontrollare, nota per nota, ogni esecuzione di ogni pezzo. Sembrava la tela di Penelope: Walter rimetteva a posto le note, Pasquale e io, le parole ma il software riusciva sempre a farci qualche brutta sorpresa e, spesso, eravamo costretti a ricominciare tutto da capo. Quell’esperienza, per me, è stata, però, un big-bang straordinario. Oltre a conoscere il genio di Pasquale e la vitalità musicale di Walter, mi ha fatto incontrare uno dei più grandi artisti italiani: autore, musicista e persona tutt’altro che ordinaria. Com’è nato il nostro rapporto artistico? Una parola dopo l’altra. Abbiamo cominciato a parlare – di tutto, non solo di musica (la musica, anzi, è arrivata per ultima) – e non abbiamo più smesso. Dico a te una cosa che non ho mai detto a nessuno. Famiglia a parte, ovviamente. Claudio mi ha salvato la vita. Non in senso letterale, ma in un senso non meno importante. Mi ha riportato a quella musica dalla quale ero stato costretto a tenermi lontano, quando mio papà non aveva voluto iscrivermi al Conservatorio. Un aneddoto che colpì Claudio al punto che volle citarlo in un breve passaggio del suo romanzo. Restituendomi la musica, mi ha restituito la vita. Esiste dono più grande?

Hai raccontato l’orrore di un neo-nazismo non troppo lontano dalla realtà del nostro tempo in “31 aprile”. Un romanzo che guarda con occhio spietato all’evoluzione di queste dinamiche. Come è nato?

Da un sogno. Un incubo, a dire la verità. Ero un giornalista d’inchiesta, inviato dal settimanale per il quale lavorava a verificare delle strane voci che giravano circa una certa villa nel cuore di Berlino, che – durante la Seconda Guerra Mondiale – aveva ospitato un lager urbano, nel quale venivano torturati, uccisi e cremati gli oppositori del Reich. A detta di alcuni, in quella villa trasformata in museo, sparivano delle persone. E, così, mi ero confuso a un gruppo di turisti di una delle molte visite guidate e, all’ora di chiusura, mi ero nascosto nei sotterranei, per vedere se le voci avessero o no fondamento. Purtroppo, l’avevano eccome. Di notte, il museo tornava un lager e torture, omicidi e cremazioni riprendevano, nell’inconsapevolezza generale. Qualcuno dei torturatori, però, si era accorto di me. Se mi avessero preso, avrei fatto la stessa orrenda fine di tutte le altre vittime della Villa. E, così, comincio a scappare agli aguzzini e ai loro cani. Riesco ad attraversare l’immenso parco che separa la villa dalla strada ma, ad un tratto, mi accorgo che l’unico modo per uscirne è attraversare un’enorme siepe di rovi spinosi. Aguzzini e cani mi hanno quasi raggiunto. Non ho alternative: devo provare a superare la siepe. E, così, mi butto a capofitto tra i rovi e, non so come, lacero e sanguinante, riesco a venirne fuori e mi ritrovo nel cuore della notte, sul marciapiedi di un grande viale alberato del centro di Berlino. Mi sveglio, mentre sto facendo cenni disperati all’unica auto di passaggio, perché si fermi e mi porti in salvo, prima che i miei inseguitori mi riprendano e mi trascinino di nuovo nella villa. Tutto è nato da qui. Anche se di questo incubo, nel romanzo, rimane soltanto lo spunto tematico. La vicenda narrata è molto più dura e infinitamente più complicata di così.

“Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancora di più, la tua voce” è un titolo che sembra già poesia. Racconta un periodo reale della tua vita, un momento molto intimo, un evento luttuoso. Faccio un po’ fatica ad addentrarmi in questa parte di intervista. Mi sembra di entrare davvero nella tua sfera più privata. Che, paradossalmente, hai raccontato con dovizia di particolari nel volume. Ma raccontando di te hai raccontato di tutti, riuscendo a rendere il particolare universale. Quanto contano i ricordi e la memoria in questa tua nuova opera e come li hai trasformati in narrazione?

Hai detto bene: è il racconto autobiografico di un’esperienza personale ma, al tempo stesso, universale: l’incontro con la morte. L’unico appuntamento al quale siamo tutti chiamati e che nessuno di noi può declinare. Non dico che sia bello. Non sono mica pazzo. Né dico che non dovremmo averne paura. Non sono nemmeno un santo. Dico che far finta di niente è stupido. La vita è piena di morti, non solo fisiche. Muore l’amore, muore l’amicizia, muoiono le giornate, le stagioni, le vacanze; muoiono i bei film, i bei libri, le belle canzoni, il buon vino, le serate con gli amici “a parlar del futuro”… Tutto ciò che nasce, prima o poi, muore. La domanda che dovremmo porci non è perché. Nei casi più importanti, infatti, quel perché è introvabile. La domanda che dovremmo porci è: cosa ci insegnano tutte queste morti? Non so se Dio gioca a dadi o no. Una cosa, però, è certa: ogni esperienza insegna qualcosa. E, più quell’esperienza è “grande”, più grande è il suo insegnamento.

C’è un altro lutto nel libro. Non vissuto nel presente, ma riacciuffato tra i ricordi da bambino. Anche io, come te, ho conosciuto la morte in tenera età. E ciò mi ha segnato profondamente. Cosa ricordi di quel periodo, ma soprattutto come lo rileggi con lo sguardo di un adulto? Cosa direbbe il Giuseppe adulto a quello bambino?

Parto dal fondo: il Giuseppe adulto non direbbe nulla al Giuseppe bambino. Lo avvolgerebbe, il più amorevolmente possibile, in un interminabile abbraccio silenzioso. La morte è silenzio. Silenzio che chiede e merita silenzio. Noi, invece, non facciamo altro che violare la sua natura e la sua volontà. Non smettiamo un istante di parlare. La copriamo di migliaia di parole, nell’illusione che un po’ di trucco e un abito elegante possano rendere vivo ciò che vivo non è più. E non ci rendiamo nemmeno conto del fatto che, di fronte alla morte, le parole – persino le più belle e ispirate – suonano vuote, prive di forza e di senso. Volgari e offensive, talvolta. Davanti alla morte, l’unica cosa che non delude – a parte la musica: quella veramente grande, però – è il silenzio. Mio papà diceva che la poesia è “la scrittura del silenzio”. Definizione straordinaria. Ecco, io credo che, almeno di fronte alla morte, dovremmo tacere, ascoltare il silenzio e cercare di farne poesia per la nostra anima. Solo così, forse, potremmo sentirci meno vuoti e un po’ meno soli. 

Perché hai sentito l’esigenza di raccontare un segmento importante della storia della tua famiglia?

Per due ragioni. La prima è per “chiudere il cerchio”. Erano pagine che portavo dentro di me da quasi cinquant’anni (anche se non in questa forma, ovviamente) e sentivo che era giunto il momento di metterle “vero su bianco”. La seconda è quella che ho accennato prima: cercare di sconfiggere il tabù della morte. Non dico che ci si debba preparare a morire. Nessuno è mai arrivato né arriverà mai pronto a un momento del genere. Non scherziamo. Dico che faremmo bene a chiederci che senso abbia un passo come quello. E, ammesso che non ne abbia uno, dovremmo cercare di dargliene uno noi. Personalmente, credo che la morte sia come la notte: per contrasto, ci mostra il valore del giorno – vale a dire del tempo – e, dunque, della vita. Non mi sembra poco.

La musica è sempre presente nelle tue opere. Nell’ultimo romanzo citi “Blackbird” dei Beatles e “Noi no” di Baglioni. Nel 2005 è uscito anche un CD che ti vede in veste di musicista (Songbook 1980-1985” di Fabio Bianchini e Giuseppe Cesaro). Raccontaci di questo rapporto, forte e solido, con la musica.

La musica è dentro di me. Da sempre. Non so chi ce l’abbia messa: a casa dei miei non c’era nemmeno un giradischi. Tutto quello che so è che, un bel giorno l’ho incontrata e, da allora, non ci siamo più separati.

Due anni fa hai scritto “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”. Come scegli i titoli delle tue opere? Arrivano prima o dopo la scrittura? 

I titoli vengono da soli. Qualche volta – come nel caso di “Indifesa” – suggeriti dalle anime più vicine. Non c’è un momento preciso. Né un’idea di partenza. So che, a un certo punto – di solito quando sto pensando a tutt’altro – il titolo arriva. Come tutte le altre parole. E, quando accade, devo fare in modo di non farmelo sfuggire.

Scrivi di getto o disegni un’architettura totale e ben definita prima di iniziare un libro? 

Scrivo di getto. Senza un’architettura né totale né parziale. Parto da un’idea. Un frammento: la prima frase che mi viene in mente (che non è affatto detto che rimarrà anche la prima frase del racconto o del romanzo, anzi) e butto giù tutto quello che viene, così come viene. Fino a quando mi rendo conto che l’ispirazione (che – udite, udite! – esiste davvero) si sta esaurendo. A quel punto, mi fermo e metto a riposare quella manciata di pagine: di solito, non più di due o tre. A questo punto, smetto di scrivere. Di scrivere: non di lavorare. Apro uno dei file che avevo messo a “riposare” qualche giorno prima, e vedo se è da buttare o c’è qualcosa che vale la pena salvare. Se c’è, comincio a riscriverla, cercando di darle la forma migliore che posso. Poi, rimetto di nuovo il file a riposare. Diciamo che il lavoro si articola in tre fasi: “costruzione”: la prima scrittura; “distruzione”: l’eliminazione di tutto il superfluo; “ricostruzione”: una riscrittura, che parte da quel poco di buono che è sopravvissuto alla distruzione. Questo procedere va avanti per ogni frase, ogni paragrafo e ogni capitolo, fino a quando non mi sembra che il testo abbia una sua dignità. Poi, chiudo tutto in un cassetto per due o tre mesi e, alla fine, riprendo in mano tutto per la prima stesura completa. Non so se sia il metodo migliore ma è quello che mi sono cucito addosso in questi quasi trent’anni di scrittura. Se non altro, mi aiuta a evitare gli errori più marchiani. Segovia – citato spesso da De Andrè – diceva che la chitarra è uno strumento che passi metà della vita ad accordare e l’altra metà a suonare scordato. Credo che la scrittura le somigli molto: ogni volta, hai la sensazione di dover “riaccordare” tutto.

Qual è la parte più complessa del processo creativo per te? 

Direi che la parte più complessa è proprio la riscrittura. Non ho mai sofferto del “blocco dello scrittore”: la cosiddetta “sindrome del foglio bianco”. Semmai ho il problema contrario: i miei fogli sono fin troppo pieni di segni. Il problema è fare in modo che tutto quel “nero” non finisca col cancellare tutto il “bianco”. Se occupo tutto lo spazio io, come fa il lettore a trovare il suo? Un libro – come la musica e qualunque altra opera d’arte – si fa in due: l’autore e il lettore. Se l’autore non lascia al lettore il suo spazio creativo, la possibilità di far vivere il libro dentro di sé, il lettore chiude il libro e il libro muore lì. La cosa più importante e più difficile, dunque, è lasciare uno spazio creativo e ri-creativo a chi legge. Ciò che scriviamo deve uscire da noi ed entrare nell’altro. Se questo passaggio non avviene, il libro è sterile e non dà frutto. Un libro inutile. E, quindi, dannoso. Perché ruba tempo e spazio a libri in grado di aiutare sensibilità e coscienze a fare il loro vitale mestiere.

Ti capita mai di rileggere i tuoi libri dopo la pubblicazione? 

Quasi mai. Cerco di evitare di rimanere sopraffatto dalla tentazione di riscrivere tutto da capo. Un po’ come accade a certi artisti che non uscirebbero mai dallo studio di registrazione, per quella febbre che li spinge a cercare la perfezione. Non so se ne conosci qualcuno… E non importa sapere che la perfezione è una condizione preclusa a noi umani. Noi, ostinati, non smettiamo mai di inseguirla.

Il feedback dei lettori quanto ti influenza?

Mi piace e mi emoziona ma non mi influenza. Scrivo perché non ne posso fare a meno. L’ho fatto quando non pubblicavo e non mi leggeva nessuno. E lo faccio adesso che pubblico, anche se mi leggono in pochi. Un giorno, potrò anche smettere di pubblicare ma credo che non smetterò mai di scrivere, perché scrivere è una delle tre cose che mi tiene vivo.

Sui social spesso esprimi riflessioni, pensieri, giudizi sulle vicende sociali, civili e politiche che ci riguardano. In che momento è, adesso, il nostro paese. E cosa possiamo augurarci per il futuro?

Non esprimo giudizi: cerco, semplicemente, di stimolare delle riflessioni. Viviamo in superficie e superficialmente. Crediamo di conoscere il mare semplicemente osservandolo dalla riva. Ma la verità è che non lo conosciamo affatto. Dovremmo navigarlo, tuffarci, immergerci, esplorarlo, nuotare fino a non avere più fiato e solo allora cominceremo appena a conoscerlo. La vita è come il mare: non immergersi, significa vegetare, non vivere. E credo sia questo il peccato più grande di tutti. Se davvero Dio esiste, credo che l’unica cosa di cui ci chiederà conto è: “Cosa ne hai fatto della tua vita?”. Dubito che sarebbe contento di sentirci rispondere: “L’ho guardata da riva”. E noi? Saremmo contenti di essere costretti a rispondergli così?

Hai ragione, noi siamo “una barca che anela il mare eppure lo teme”, come scriveva Edgar Lee Master. Dobbiamo cercare la profondità e non la superficie. Grazie per la tua emozionante testimonianza e per la ricchezza dei tuoi insegnamenti.

A cura di Anna Rita Cardarelli

Ninì Materia nasce a Barcellona Pozzo di Gotto il 7 marzo 1985. Sin da piccolo comincia a disegnare, poi, giunto alle scuole medie, una professoressa, purtroppo, mortifica la sua passione e da lì decide di accantare in un ripostiglio sogni, desideri, speranze.

Dal 2018 vive al Circeo con sua moglie e suo figlio. 

Nel 2019, durante la pandemia Covid, riprende a disegnare, e da quel momento si apre per lui un mondo pieno di colori, pennelli, matite, gomme e tele… con un elemento particolare che è sopra di tutto… l’amore per la sua terra, la Sicilia!

Salve Ninì, grazie per questo caffè veloce! È un piacere poter parlare con lei del Suo mondo artistico. Partiamo dall’inizio: come è nato il Suo amore per la pittura?

Salve! Il mio amore per la pittura nasce per passatempo durante il Covid. Dove ho scoperto di avere questa passione nascosta. O forse, sarebbe più corretto dire, “riscoperto…”.

I suoi dipinti colpiscono subito per l’uso audace del colore. Cosa rappresentano per lei questi colori così forti e accesi?

I colori accesi mi riportano a quelli della mia terra natia. La mia amata Sicilia. Dove anche i tramonti assumono colori vivaci e unici.

I suoi quadri spesso raffigurano volti astratti, a volte spezzati o incompleti, alternando figure maschili e femminili. C’è un significato particolare dietro questa scelta?

Si, mi piace raffigurare le teste di moro che nascondono dietro loro una leggenda di amore e tradimento!

Abbiamo scoperto che la Sicilia è protagonista delle Sue opere, ma la racconta in modo molto personale. Quali elementi della sua terra sente più vicini alla Sua arte? Quanto la tradizione siciliana influisce sul Suo modo di dipingere? Si ispira a qualche artista del passato?

Nei miei dipinti cerco sempre di inserire elementi che mi portano alla mia terra, ovvero il mare, il sole i suoni, rapportati in colore.

La tradizione siciliana conta molto per me, perché basta nominare “Sicilia” e li si racchiude tutto il bello e il meraviglioso che per me possa esistere.

Essendo autodidatta, mi ispiro ad artisti della mia generazione.

Il cactus è un soggetto ricorrente nelle Sue opere. Che valore simbolico ha per lei?

Beh, il fico d’India è uno dei tanti simboli della mia terra e nei miei quadri non può mancare.

Oltre alla pittura, ci sono altre forme d’arte o esperienze che influenzano il Suo lavoro?

No, mi fermo alla pittura, perché solo nella pittura riesco ad essere Ninì Materia!

Letizia Meuti è “quasi” una scrittrice esordiente e la ospitiamo molto volentieri nel nostro numero, dedicato a questa bellissima parola che è “Esordio”.

Esordisce – è il caso di dirlo – come articolista per diverse testate giornalistiche on-line, e nel 2021, decide di fondare un quotidiano indipendente come “Roma-News” della quale è sia editrice che direttrice. 

Ma è stata anche creatrice e curatrice di Appunti di viaggio, un social-travel blog, segretaria caporedattrice a Radio Audax e nel 2024 scrive il suo primo libro. 

Da pochi giorni è stato dato alle stampe anche il suo secondo.

Una vita decisamente piena di interessi la sua, piena di reportage sulla vita che affronta e i “pezzi di mondo” che ha visto – anzi direi più propriamente – che ha vissuto.

Che relazione ha con il concetto di “Esordio”? In effetti, penso, ogni viaggio è un piccolo esordio, normalmente ci si trova ad affrontare per la prima volta qualche imprevisto, qualche nuova esperienza. Sicuramente non una vita “monotona” la sua.

Beh diciamo che la mia, più che una vita da mediana è stata una vita da esordiente, a questo punto, citando il buon vecchio Ligabue, che tra l’altro è uno dei miei cantautori contemporanei preferiti. Sicuramente all’ esordio o meglio agli esordi, ai mei esordi, devo molto, sennò non sarei neanche qui oggi, in vostra compagnia. Quindi, per me gli esordi, hanno rappresentato tanto, vissuti alle volte, anche con una certa ansia ma con la consapevolezza che dietro l’angolo ci sarebbe stato sempre qualcosa di nuovo e interessante ad aspettarmi.

C’è una frase molto bella, che cito ogni tanto, nelle mie dediche fatte, a chi ha acquistato il mio primo libro: “Un Cinese Napoletano”, di Umar Khayyam che dice: ” La vita è un viaggio e chi viaggia vive due volte”, penso che racchiuda pienamente, il mio concetto di vedere questa determinata situazione.

Il suo primo libro viene pubblicato nel 2024 e si intitola “Un cinese napoletano”. Come mai ha deciso di dare proprio questa connotazione, questo taglio a quello che è stato l’anno horribilis di intere generazioni?

Mah, proprio perché è stato un periodo che nel bene e nel male ha toccato un po’ tutti noi, da vicino e non. C’è chi ha perso magari un proprio caro, chi ha dovuto rinunciare a qualcosa che aveva in serbo, chi, come me, ha dovuto fare i conti con il ri-inventarsi soprattutto lavorativamente parlando, l’abbiamo sentito tutti, e credo ci sia rimasto un po’ dentro, come se fosse un punto di svolta. Per me, è stata la molla che ha fatto scattare il voler tornare a raccontare cosa vivevo e abbiamo vissuto in prima persona, come quasi a rendere eterni certi momenti e situazioni. Una sorta di: per non dimenticare, ecco.

Dopo un anno dal primo esce il suo secondo libro: “Tutta la vita”. Se vogliamo un inno alla vita, vista con gli occhi di giovani donne e di giovani uomini che si affacciano a quello che è il concetto del futuro. 

Si, esattamente, il 14 Marzo 2025, è uscito questo mio nuovo libro, sempre di narrativa contemporanea, ambientato nei nostri giorni, infatti la storia si svolge nel 2024, il primo giorno del solstizio d’estate, nella bellissima Toscana, più precisamente tra Pisa, Lucca e la provincia di Bientina. Senza spoilerare troppo: racconto le vicissitudini di un gruppo di ragazzi, pressoché ventenni, che dividono insieme un appartamento e le loro vite e sfide quotidiane, divisi tra il mondo del lavoro, la ricerca e l’affermazione di sé stessi e i piccoli problemi di cuore, che sembrano non mancare mai, a qualsiasi età alla fine. Anche in questo, come nel primo, ho voluto continuare a parlare di tematiche importanti come l’integrazione e l’inclusione, difatti due dei personaggi principali, appartengono uno, ad un’etnia diversa dalla nostra e l’altro al mondo lgbt. Questa non è la sola cosa che accomuna il secondo romanzo al primo, ci sono sempre i soliti riferimenti al mondo dell’arte, più precisamente legati alla sfera musicale e cinematografica, che hanno accompagnato finora tutta la mia scrittura. Ogni capitolo infatti, viene aperto con dei segmenti di testi cantautoriali dei maggior esponenti musicali di quella regione (la Toscana), e poi, come nel primo, ho voluto incentrare uno dei personaggi non principali, questa volta, ma che si rivelerà cruciale ad un certo punto della storia, ad una figura cinematografica di mio riferimento, che è il grandissimo amato e compianto Francesco Nuti, nel mio intento di continuare a portare avanti il suo ricordo.

Questi due libri sono – idealmente – l’uno l’evoluzione dell’altro a livello storico: se “Un cinese napoletano” racconta la vita completamente disorientata e il sopravvivere a diverse difficoltà, “Tutta la vita” è un lancio di proiezione. Ma quali sono le similitudini, le cose che le accomuna?

Sicuramente il fil rouge che lega queste due opere è il parlare dell’ evoluzione e la crescita dell’ essere umano, che parte, come ne “Un cinese napoletano”, dalla famiglia/figli ai giovani adulti, quindi i ragazzi, i figli che diventano grandi, nel caso di “Tutta la vita” della loro maturazione, proprio come se fossero dei frutti, fino poi ad arrivare alla vera e propria maturità, l’età adulta quindi, che (attenzione a questa anticipazione, perché è una chicca che vi sto per snocciolare) ne parlerò in seguito nel mio terzo romanzo, di prossima uscita… Questa è un’esclusiva solo per voi, perciò, fatene buon uso, mi raccomando!

Ma grazie davvero allora! Abbiamo parlato di esordi, ma quali sono i suoi progetti per il futuro?

Come suddetto, ho in cantiere un mio terzo libro, che spero di poter pubblicare nel 2026, prima no, perché vorrei concludere la promozione dell’attuale, che sarà la fine di questa specie di triologia che mi ha accompagnato e spero accompagnerà anche i miei lettori, in questo cammino evolutivo di questo strano essere chiamato: essere umano, in cui mi ci metto anch’io. Quest’ ultimo libro, lo dico già, sarà un po’ più profondo e introspettivo dei precedenti ma sempre accompagnato dai miei riferimenti di base, che in questo caso saranno puramente musicali, perciò un’ode al mondo della musica e spero, un richiamo per tutti i suoi appassionati.

Vi ringrazio per questa bellissima intervista e per l’opportunità che mi avete dato, di raccontare un po’ di me, nel vostro giornale.

Grazie di cuore. A presto e che la forza sia con voi, sempre! Hasta la fuerza!

Oscar Wilde affermava che “non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

Il neuromarketing rincara la dose dicendoci che questa prima impressione si crea in circa 7 secondi.

Due respiri, quattro battiti di ciglia, il tempo di dire “Ciao, mi chiamo Letitia, piacere di conoscerti” e dall’altra parte dei piccoli neuroni irrequieti hanno già decretato se sei affidabile, simpatico, intelligente, oppure no.

Le neuroscienze addirittura descrivono un processo valutativo rapidissimo e inconscio di circa 40 millisecondi, capitanato dalla amigdala, che gestisce le emozioni e il pericolo. Categorizziamo il prossimo attraverso un effetto primacy, un bias cognitivo che porta a dare un maggiore peso alle prime informazioni elaborate, influenzando la nostra valutazione. Non c’è il tempo né per fingere né per dimostrare qualcosa. I veri giudici sono le emozioni.

Eppure quanto temiamo questa prima valutazione in un colloquio di lavoro, quando conosciamo un superiore, o un collega, o quando ci inseriamo in un nuovo contesto sociale?

Ebbene, nulla di ciò che possiamo costruire e pianificare è davvero rilevante, a quanto pare, non per il nostro esordio.

La difficoltà, se mai, sarà dopo, nel rafforzare, o ancora di più nello smentire l’idea che l’altro ha di noi. Vorrei rassicurare le persone che sono particolarmente preoccupate per questi giudizi: gli altri vi avranno etichettato prima che voi abbiate modo di dimostrare chi siete e soprattutto gran parte della responsabilità ricadrà sulle loro emozioni, il loro vissuto, i loro ricordi e le associazioni che ne conseguono. In quel frangente c’è ben poco di voi. Ma da lì in poi, invece, è tutto da costruire. Per metterci in contatto con gli altri è necessario un moto verso l’esterno della sfera del proprio “io”.

Quando ci presentiamo, per esempio, spesso siamo così concentrati su di noi, sulla stretta di mano, come pronunciamo il nostro nome, se sorridiamo, troppo o troppo poco, che non riusciamo nemmeno a percepire l’espressione dell’altro, né a recepire il suo nome il più delle volte.

Questo si può prolungare anche in un arco temporale più lungo: quante persone avete conosciuto che hanno passato tutto il tempo a parlare di sé, tanto da farvi domandare se si siano accorti che ci siete anche voi. Nell’incontro con gli altri, quello che ci rimane davvero è come ci abbiano fatto sentire, quali emozioni e quale energia si sono create. È importate stabilire una connessione ed uno scambio.

Roman Jakobson, semiologo e linguista russo, ideò un modello comunicativo per spiegare le dinamiche della trasmissione di messaggi, da un mittente ad un destinatario, attraverso un canale, nel quale hanno un ruolo fondamentale gli attori con tutte le loro istanze, il codice linguistico, il contesto e le circostanze. Per Jakobson il linguaggio ha 6 funzioni: espressiva/emotiva, fàtica, conativa, poetica, metalinguistica e referenziale. Tutto molto bello, ma Jakobson si focalizza soprattutto sul mittente (come la persona di prima che ci parla ininterrottamente ignorando che le prestiamo o meno attenzione) rendendo il ricevente passivo e non concentrandosi sufficientemente sul feedback dell’interlocutore.

Beh, voi non fatelo a casa! Se volete comunicare in maniera efficace con il vostro interlocutore connettetevi con lui e le sue emozioni.

Le cose si complicano quando dobbiamo metterci in gioco su più livelli, quando il nostro esordio non si limita alla presentazione di noi stessi, ma prevede un’apertura maggiore della nostra sfera intima e vulnerabile: quando dobbiamo creare qualcosa, forgiarla, e darla in pasto ai giudizi, nostri in primis, e poi dagli altri.

Che si tratti di una pagina bianca da riempire, di poesia o di codici, di una tela, una presentazione in powerpoint, un oggetto, una foto, un film, un progetto, o quello che volete.

La sfida è quando dobbiamo riempire un vuoto con una parte di noi, quando quello che sappiamo fare deve dare agli altri la misura di chi siamo. L’entusiasmo e il timore, il coraggio di credere nel potenziale che sentiamo di avere, la volontà di esternarlo, quella tensione positiva che ci spinge a dare il meglio, ma che può essere anche una paura paralizzante. La volontà e la necessità di farlo stimare agli altri è un’esposizione al fallimento, come un ponte tibetano: sei ancorato al giudizio degli altri, ma con la determinazione di voler procedere nonostante tutto.

Può essere un percorso lungo e faticoso o un tuffo nell’ignoto, ma certo è un passaggio necessario, l’inizio di tutto.

Ci sono istanti che non sembrano grandi al momento, eppure aprono crepe nella storia. In quelle crepe si insinuano la voce nuova, l’energia grezza, il genio puro di chi esordisce. Non c’è nulla come il primo atto, il primo disco, il primo film, la prima volta su un palco. 

Pensando agli esordi, mi vengono in mente 10 episodi che non ho vissuto "in diretta" per questioni anagrafiche che poi però ho potuto apprezzare vedendole sullo schermo nero - che è una potentissima macchina del tempo.

1. Jimi Hendrix – Monterey Pop Festival, 18 giugno 1967
Buio. L'attacco.
Sono le prime note del primo concerto che Jimi fa nel "nuovo mondo".
La chitarra si incendia, stride, da tutto quello che può dare e poi viene bruciata, distrutta, con il fuoco con Jimi inginocchiato davanti a questo sacrificio sacrilego. Il pubblico ammutolì. Non era solo rock: era un rito, un atto sciamanico.
Quello è il vero debutto di quello che era "Are You Experienced" forse uno dei dischi più psichedelici della storia del Rock.
Non si può spiegare a parole...
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2. Carlo Verdone – "Un sacco bello" (1980)
Nell’Italia ancora in fermento dopo gli anni Settanta, un giovane regista-attore porta sullo schermo sei personaggi, tutti interpretati da lui, tutti fragili, ingenui, veri. Verdone porta la periferia, le mamme apprensive, i sogni naïf, i tic e le tenerezze. L’Italia ci si riconosce, e ride, e si commuove. Un piccolo miracolo comico e umano.



3. Orson Welles – "Citizen Kane" (1941)
Aveva 25 anni e nessuna esperienza sul set. Eppure fece il film che ancora oggi molti considerano il migliore della storia del cinema. Welles inventò un nuovo linguaggio: profondità di campo, flashback destrutturati, narrazione non lineare. “Citizen Kane” fu uno schiaffo al vecchio cinema e un inno al futuro. E tutto questo fu… solo il suo esordio.



5. "I 400 colpi" – François Truffaut (1959)
Primo film e già manifesto della Nouvelle Vague. La fuga del piccolo Antoine Doinel è anche la fuga del regista da ogni regola precostituita. Truffaut nasce libero.



6. "Eraserhead" – David Lynch (1977)
Un incubo in bianco e nero. Visionario, disturbante, ermetico. Questo film ha gettato le fondamenta dell’estetica lynchiana, che non ha mai davvero cercato di essere compresa.
Esordio del regista nel lungometraggio, Eraserhead - La mente che cancella ad oggi è considerato un capolavoro del cinema mondiale, nonché fonte d’ispirazione per altri registi: Stanley Kubrick dichiarò che Eraserhead era il suo film preferito e, durante le riprese di Shining, lo mostrò più volte al cast come esempio.



6. Massimo Troisi – "Ricomincio da tre" (1981)

Un film che è un abbraccio. Un ragazzo con gli occhi bassi e l’anima alta racconta di partenze e ritorni, di Napoli e Firenze, di parole leggere che dicono cose enormi. Troisi esordisce con una delicatezza disarmante, il suo umorismo malinconico è poesia quotidiana. Nessun artificio: solo sincerità. E da quel momento, il cinema italiano non fu più lo stesso.

7. "The Piper at the Gates of Dawn" – Pink Floyd (1967)
Syd Barrett guida la nave psichedelica con un disco che è pura immaginazione sonora. Ancora oggi, è la definizione del Pink Floyd primordiale.
Before they became one of the biggest bands on the planet with prog-leaning epics like 'The Dark Side of the Moon' and 'The Wall,' Pink Floyd were an unstructured, but no less ambitious, psych-rock group with songs about depressed scarecrows and wine-sipping gnomes. 'The Piper at the Gates of Dawn' was the only full album they made with original leader Syd Barrett before he was forced out due to increasingly erratic behavior. The 10-minute "Interstellar Overdrive" is a genre highlight, but the entire LP is a psych-rock milestone.



8. "Please Please Me" – The Beatles (1963)
Registrato in un solo giorno. Conteneva “Love Me Do”, “I Saw Her Standing There” e “Twist and Shout”. Era l’inizio di tutto: la Beatlemania nasce qui.


9. "Accattone" – Pier Paolo Pasolini (1961)
Esordio totale: Pasolini reinventa il cinema partendo dai margini. Volti veri, poesia e sacralità nella disperazione. Il profilo dell’intellettuale "eretico" si delinea subito.


10."Un'Avventura" – Lucio Battisti (1969)
Un'avventura è un brano musicale composto da Lucio Battisti con testo di Mogol. Inizia con questo brano, quella grande avventura fatta dal due che ha segnato la musica pop degli anni '70 e poi a seguire, per varie generazioni.
Ma in quel 1969 Battisti esordì come interprete, in coppia con Wilson Pickett, per quella che fu la sua prima e unica apparizione al Festival di Sanremo. La canzone - per la cronaca - si classificò al 9º posto.



Bonus. "?!" non è il primo disco di Michele Salvemini, ma è il primo LP di Caparezza dopo il cambio d’identità: da Mikimix (pop leggero) a Caparezza (rap ironico e impegnato).
Inizia un percorso musicale che è provocatorio, colto, impegnato e leggero, che lo colloca tra i grandi cantautori italiani.

C’è un momento, nella vita di ogni essere umano, in cui il silenzio si rompe.

È l’istante in cui ciò che era rimasto dentro — pensiero, desiderio, timore, visione — trova la forza di mostrarsi. L’esordio è esattamente questo: il gesto iniziale, il passo fuori dalla zona protetta dell’anonimato, il primo fiato pronunciato in pubblico, l’irruzione dell’“io” nel mondo.

Ma esordire, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è un atto naturale. È un atto di coraggio.

Cominciare è già essere a metà dell’opera”, scriveva Orazio. E per cominciare bisogna affrontare l’abisso dell’ignoto. Quando un autore scrive la prima riga del suo romanzo, sa che tutto può crollare. Quando un artista presenta la sua prima mostra, si espone a uno sguardo che può ferire. Quando un giovane debutta nel suo primo colloquio di lavoro, porta con sé non solo il curriculum, ma anche la paura di non essere abbastanza.

L’esordio è un rischio. E come tutti i rischi, può attrarre o paralizzare.

Il filosofo Søren Kierkegaard definiva il “salto della fede” come l’atto di chi, pur senza garanzie, si butta. In quel salto c’è il cuore dell’esordio: un momento carico di tensione, perché il futuro è incerto e il passato non offre rifugio. Esordire significa scegliere di essere visibili, vulnerabili, giudicabili.

È un atto di nudità. Ma è anche il primo vero atto di libertà.

Viviamo in una cultura che celebra la perfezione.

I social ci mostrano esordi già riusciti: il romanzo best seller dell’esordiente, l’attore alla sua prima interpretazione magistrale, l’imprenditore che diventa milionario a venticinque anni. Ma questi sono miti, montaggi, eccezioni raccontate come regole.

La verità è che quasi nessun esordio è brillante. Molti sono stentati, goffi, incerti. Eppure, è proprio nell’imperfezione che risiede l’autenticità dell’inizio.

Il poeta Rainer Maria Rilke, in una lettera a un giovane scrittore, scriveva: “Devi dare tempo a ogni impressione e a ogni seme della tua anima di crescere.” Non si tratta di fare bene subito, ma di avere il coraggio di cominciare, sapendo che il primo tentativo sarà forse insufficiente, ma indispensabile.

Ogni grande opera ha avuto un piccolo inizio. Ogni maestro è stato apprendista. Ogni voce sicura ha tremato la prima volta.

Elogio degli esordi

C’è una bellezza unica negli esordi. Una bellezza che nasce dalla tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Ogni esordio è una dichiarazione di fiducia nel futuro. È una scintilla che illumina una possibilità. Anche se fragile, anche se breve.

Il primo quadro di Van Gogh, ritenuto mediocre all’epoca, porta già dentro la forza del suo sguardo. Il primo discorso pubblico di Nelson Mandela, timido e formale, contiene già la dignità del leader che sarà. Il primo film di una regista indipendente può essere tecnicamente imperfetto, ma se ha dentro una visione, ha già vinto.

Il vero valore di un esordio non è nel risultato, ma nell’intenzione.

In un mondo che giudica subito, che esige performance, che riduce tutto a numeri, l’esordio è un atto ribelle. Perché implica pazienza, vulnerabilità, imperfezione. Eppure, è anche l’unico modo per trasformarsi.

Esordire significa dire al mondo: “Eccomi.” Non sono ancora perfetto, ma sono vero. Non sono ancora esperto, ma sono presente. Ho una voce, e oggi scelgo di usarla.

È per questo che ogni esordio, piccolo o grande, pubblico o privato, merita rispetto. Perché dietro ogni primo passo c’è un essere umano che ha vinto la paura del giudizio. Un essere umano che ha scelto di esserci.

Come scriveva Fernando Pessoa:

Vale più l’imperfezione dell’atto che la perfezione dell’intenzione rimasta nell’ombra.”

Forse dovremmo tornare ad amare gli esordi. Non solo i nostri, ma anche quelli degli altri. Accogliere chi prova, chi osa, chi inizia. Perché esordire è sempre un atto generoso: verso sé stessi e verso il mondo.

E, in fondo, non è forse vero che ogni giorno è, in qualche modo, un nuovo esordio?

In un momento storico in cui i disturbi del comportamento alimentare (DCA) rappresentano una delle emergenze sanitarie più silenziose ma pervasive tra adolescenti e adulti, Corabea, la prima piattaforma online in Italia specializzata nella cura dei DCA attraverso un approccio integrato, organizza un evento pubblico per accendere i riflettori su questo tema ancora troppo invisibile.

L’evento, intitolato “RIFLESSI”, si terrà sabato 3 maggio a partire dalle ore 15:00 presso il Barton Park di Perugia.

Sarà una giornata interamente dedicata alla sensibilizzazione, alla riflessione condivisa e al superamento dello stigma che spesso
circonda i disturbi alimentari.

UN’ESPERIENZA IMMERSIVA APERTA A TUTTI
RIFLESSI” è molto più di un convegno: è un evento esperienziale, aperto gratuitamente a tutta la cittadinanza, pensato per coinvolgere le persone attraverso attività, workshop, momenti di ascolto e confronto.
Tra gli ospiti della giornata, Michele Mezzanotte, psicoterapeuta, che terrà un talk aperto per offrire uno sguardo professionale ma umano su queste tematiche, spesso vissute in solitudine. L’evento sarà anche un’occasione per vivere momenti collettivi e che inviteranno i partecipanti a riflettere sul concetto di identità, immagine corporea, e accettazione di sé.

IL MESSAGGIO DI CORABEA: “OLTRE LO SPECCHIO, OLTRE LO STIGMA
Corabea nasce proprio da un’esperienza personale, quella di Giorgia Bellini, fondatrice della piattaforma e autrice del libro “Nata due volte”, che da anni si impegna per costruire un’alternativa concreta e accessibile per chi lotta con il proprio rapporto col cibo.

La piattaforma mette a disposizione percorsi personalizzati che combinano supporto psicologico e consulenza nutrizionale, grazie a un team multidisciplinare e a una web app che facilita il contatto con i professionisti, il monitoraggio dei progressi e la motivazione nel percorso di guarigione.
Nel tempo, Corabea ha attratto l’interesse e il sostegno di chi condivide la sua missione. Anche Andrea Ranocchia, ex calciatore e oggi investitore, ha deciso di sostenere il progetto Corabea, riconoscendone il valore umano e sociale. Ranocchia ha scelto di affiancare il team credendo profondamente nella possibilità di offrire un aiuto concreto a chi sta attraversando un momento difficile e ha bisogno di strumenti reali per ripartire.
RIFLESSI” rappresenta a pieno lo spirito con cui è nata Corabea: guardare oltre, accogliere, comprendere e restituire uno spazio di cura autentico a chi troppo spesso si sente invisibile.

PERCHÉ PARTECIPARE
Per ascoltare storie vere e professionisti qualificati
Per abbattere pregiudizi e stereotipi
Per sentirsi meno soli
Per contribuire a creare una cultura della cura e dell’ascolto

INFORMAZIONI PRATICHE
📍 Luogo: Barton Park, Perugia
📆 Data: Sabato 3 maggio 2025
⏰ Orario: Dalle ore 15:00
🎟 Ingresso: Libero e gratuito

Doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo di Nozzi

Da un’idea e per la cura di Roberto Gramiccia

Dal 15 marzo al 4 aprile 2025 

Numeri & Carezze è il titolo della doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi, che è stata inaugurata sabato 15 marzo 2025 presso l’Associazione Culturale Lavatoio Contumaciale di Roma.

Ideata e curata da Roberto Gramiccia, l’esposizione si colloca all’interno di una location suggestiva, sede dell’Associazione culturale fondata nel 1974 da Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna), in collaborazione con Filiberto Menna celebre critico d’arte, e oggi diretta da Grazia Menna.

La ragione del titolo, solo apparentemente bizzarro, risiede nel desiderio del curatore di portare a sintesi in due parole l’universo di senso entro il quale si colloca e da cui trae linfa l’immaginario creativo di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi. 

Scrive Gramiccia: «Numeri, infatti, è lemma che individua i territori sconfinati della certezza matematica, quella che nella nostra tradizione greca viene fatta risalire ad Archimede ma che ha origini ancora più antiche e provenienza molto più a Oriente rispetto all’area del Mediterraneo e della Magna Grecia. Quello dei numeri è il mondo che fa riferimento a quella razionalità calcolante che informa di sé, oggi più che mai, il pensiero unico, prono di fronte alle logiche di un universo fatto di fredde cifre, di mercato e di tecnologia. 

Carezze invece è parola che allude a una polarità opposta. Quella che si riconduce alle province dell’incertezza amorosa, dell’eros, del sentimento, del coraggio e della tenerezza che reca conforto a quella debolezza che trae origine dalla fragilità umana rassegnata. La carezza richiama alla mente il gesto della madre verso il bambino o dell’amante verso l’amata. Simbolo in entrambi i casi di energie primordiali. Ma sciocco sarebbe pensare che nel pensiero razionale il “cuore” non abbia cittadinanza, come insegnano le attuali neuroscienze».

Le pareti dell’Ex Lavatoio diventano così il teatro di una scena armoniosa, simbolicamente in bilico tra i lavori bidimensionali di Caterina Ciuffetelli e le tre dimensioni spaziali delle opere di Paolo Di Nozzi. 

La visione d’insieme restituisce il senso di una compenetrazione di anime e visioni, con la “geometria sentimentale” di Ciuffetelli che dialoga con il “poverismo barocco” di Di Nozzi, nel solco di un percorso all’insegna di una verità misconosciuta: materia e spirito, come razionalità e sentimento, non sono realtà in competizione tra loro ma facce di un’unica medaglia. 

Ufficio stampa della mostra

Ginevra Amadio (392 5315976) –  ginevraamadio@yahoo.it / ginevraamadio@gmail.com

Ingresso gratuito

Dal Martedì al Giovedì solo per appuntamento telefonando al 335.1364569; 

La verità è morta: lunga vita alla certezza! Recita così il manifesto di questo nostro tempo sempre più folle. Ed è forte il rischio che ne diventi anche l’epitaffio. Un incubo che, a quanto pare, non spaventa nessuno. Per quattro ragioni tra tutte.

Verità e certezza non sono sinonimi

La prima è che siamo tutti convinti che verità e certezza siano sinonimi. Non è così. Dire che una cosa è certa, non significa affatto dire che è vera. Un esempio? Il più clamoroso di tutti: per millenni, l’umanità intera è stata assolutamente certa del fatto che fosse il Sole a girare intorno alla Terra, salvo poi scoprire che le cose non stavano affatto così. Tutti erano fermamente convinti di qualcosa di totalmente falso. Senza contare che è molto più facile essere certi di una bugia che di una verità.

Il sonno della ragione libera i mostri

La seconda è che, spazzando via i dubbi, le false certezze ci rassicurano, tacitando le nostre (fin troppo paurose) coscienze e facendoci dormire sonni tranquilli

Una tranquillità indotta e pericolosa, come quella procurata da un’anestesia. Mentre noi dormiamo, infatti, il mondo intorno a noi è libero di fare quello che vuole. E, come la Storia dimostra, è estremamente difficile – per non dire impossibile – che non approfitti del nostro “sonno” per imporci la sua volontà e renderci complici, sudditi, servi o schiavi.

Il “sonno della ragione”, dunque, più che generare mostri, li libera e permette loro di saccheggiare, indisturbati, tutto ciò che incontrano

Il dubbio: la bussola che guida alla verità 

Al contrario di ciò che pensiamo, il dubbio non è affatto l’antitesi della verità. Esso è per la verità ciò che la bussola è per il viaggiatore: una guida indispensabile. Senza il dubbio, infatti, perderemmo orientamento e direzione e non riusciremo nemmeno ad avvicinarci alla verità.

Un popolo di analfabeti

La terza ragione – la più grave – è che non abbiamo più né gli strumenti intellettivi né le conoscenze per poter distinguere il falso dal vero

Già nel 2014, Tullio De Mauro – linguista di fama internazionale – scriveva: «Solo un po’ meno di un terzo della popolazione italiana ha i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna». 

Due anni dopo, De Mauro, rilanciava il suo allarme, dichiarando che la percentuale degli italiani che comprende i discorsi politici o che capisce come funziona la politica italiana «è certamente inferiore al 30%». Una persona su tre: può una società sopravvivere con un simile livello di ignoranza?

Non solo. Un mese dopo la morte di De Mauro – siamo nel febbraio 2017 -ben 600 tra rettori, docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, costituzionalisti, sociologi, linguisti, matematici, economisti, neuropsichiatri… scrivono una lettera al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Istruzione e al Parlamento per chiedere “interventi urgenti” per rimediare alle carenze degli studenti. Non sei, non sessanta, non cento: 600!

«Alla fine del percorso scolastico – si legge nella lettera – troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente». «Da tempo – si legge ancora – i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare». La situazione è così grave che «nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». 

Errori appena tollerabili in terza elementare e corsi di recupero della lingua italiana, all’Università? E ci stupiamo di come stiano andando le cose nel nostro Paese e nel mondo?

Immersi in un oceano di falsità

Risultato? Viviamo immersi in un oceano di falsità, convinti di nuotare nella verità, mentre, in realtà, stiamo affogando. La tempesta perfetta: dal momento che non ci rendiamo nemmeno conto di esserci finiti in mezzo, infatti, non sentiamo alcun bisogno di provare a uscirne e metterci in salvo.

Tra i primi a lanciare l’allarme era stato, vent’anni fa, Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia a Princeton, con un piccolo saggio dal titolo inequivocabile – “Stronzate” (Rizzoli, 2005) – che aveva fatto il giro del mondo.

«Uno dei tratti salienti della nostra cultura – scriveva Frankfurt – è la quantità di stronzate in circolazione […]. Tendiamo – spiegava – a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone, confida nella propria capacità di riconoscere le stronzate ed evitare di farsi fregare. […]. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, né del perché ce ne siano così tante in giro».

La parte più interessante dell’analisi di Frankfurt è quando spiega perché le stronzate sono «un nemico della verità più pericoloso delle menzogne». 

Paragonando le stronzate alle bugie, Frankfurt sottolinea una differenza cruciale: per dire una bugia, bisogna conoscere la verità. Per dire una stronzata, no. Chi dice una bugia, dunque, conosce la verità (fatto tutt’altro che irrilevante); chi dice una stronzata, no. E, cosa ancora più importante, non gliene frega niente di conoscerla. 

Ed è questo il cuore della questione, perché, quando diciamo una bugia, decidiamo deliberatamente di omettere o negare una verità. E questo è già grave. Quando diciamo una stronzata, invece, diciamo, a noi stessi e a tutto il mondo, che della verità non ce ne frega assolutamente niente. E questo è molto più grave. Le stronzate, quindi, ci abituano a fare a meno della verità.

L’importanza della verità

Fatto estremamente grave perché, come spiega lo stesso Frankfurt nel suo pamphlet “Verità” (Rizzoli, 2007), la verità ha un valore essenziale per la vita umana, in quanto requisito fondamentale per la nostra esistenza quotidiana (chi si affiderebbe a un medico, un avvocato, un giudice, un architetto o un amministratore che se ne frega della verità?) e per il funzionamento della società. L’indifferenza verso la verità è pericolosa, poiché porta a un mondo basato su illusioni, rendendo impossibili cooperazione e progresso. La verità – che è oggettiva e indipendente dalle nostre opinioni – è necessaria per la razionalità e la libertà. Per prendere decisioni informate e razionali, abbiamo bisogno di accedere a informazioni vere. La verità, quindi, è un prerequisito per la libertà individuale e collettiva, indispensabile per la fiducia e la cooperazione sociale. Una società basata su bugie, disinformazione o “stronzate” è destinata a collassare, perché la cooperazione umana dipende dalla capacità di fidarsi degli altri e di condividere una base di conoscenza affidabile.

La verità è introvabile

La quarta e ultima ragione – che dipende solo in parte dalla terza – è che, anche ammesso che fossimo in grado di riconoscere bugie e stronzate, non saremmo comunque in grado di trovare la verità. Essa è stata nascosta dietro una coltre così spessa e densa di fumo nero che è praticamente impossibile scovarla. Bisognerebbe disboscare l’impenetrabile giungla delle “narrazioni” da migliaia e migliaia di bugie e stronzate, a colpi di fact-checking incrociati, risalendo alla fonte originale di ogni notizia, verificarne l’attendibilità e ristabilire la verità per qualunque tema: politica interna, politica estera, economia, difesa, sanità, lavoro, istruzione, ricerca scientifica, welfare, aborto, fine vita, ecc. ecc. Un lavoro da professionisti dell’informazione che nessun semplice cittadino sarebbe in grado di fare, nemmeno se decidesse di dedicare l’intera giornata al fact-checking, sacrificando famiglia, affetti, lavoro, tempo libero, amicizie. Ed è esattamente su questo che contano gli imboscatori di verità e i costruttori e spacciatori di stronzate.

Allontanare dalla verità non è mai stato così facile

Non solo: allontanare dalla verità non è mai stato così facile. In questo caso, però, la natura umana non c’entra. Non è solo la nostra paura del dolore a tenerci lontani dalla verità. Ciò che ci allontana dalla verità è il fatto è che, per la prima volta nella Storia, i nemici della verità dispongono di armi potentissime. Le più potenti che siano mai state concepite e prodotte: sofisticatissimi strumenti di manipolazione della realtà – basati su strabilianti algoritmi di intelligenza artificiale – e la capacità di penetrazione dei social media. Capacità senza precedenti che, in poche ore, permette di raggiungere e catechizzare quasi 5 miliardi di persone: più della metà della popolazione del pianeta.

Manipolare le coscienze è un attimo. liberarle, quasi impossibile

L’aspetto più drammatico di questo stato di cose è dato da una forbice devastante: da un lato, manipolare le coscienze è infinitamente più facile e veloce di quanto non sia mai stato (la propaganda è sempre esistita), dall’altro, smontare le falsità spacciate per verità assolute da quello che potremmo definire il “Deep State” globale – sovranazionale e a-democratico – che decide le sorti del pianeta è praticamente impossibile.

L’arma più letale? la parola

Anche perché le armi più pericolose e letali adoperate da questo “sistema globale di ingegneria del consenso” non sono atomiche o droni e nemmeno cyber-weapon. Sono le armi più antiche ed efficaci di tutte: le parole. Tra le più distruttive, anche perché subdole. Le crediamo innocue, perché cominciamo a usarle sin da bambini e siamo convinti di conoscerle troppo bene perché possano sorprenderci, colpirci alle spalle e farci male. Innocue, però, non sono affatto. Tutt’altro.

Il linguaggio non è un semplice mezzo di comunicazione

Al contrario di ciò che pensiamo, infatti, il linguaggio non è soltanto un semplice mezzo di comunicazione, che ci consente di relazionarci con gli altri. È molto di più. È qualcosa che influenza il nostro modo di vedere il mondo e, quindi, di rapportarci ad esso

Derrida: non esiste una realtà indipendente dal linguaggio

Secondo alcuni grandi pensatori – filosofi, antropologi, linguisti – è addirittura il linguaggio a creare la realtà. Per Jacques Derrida – ad esempio – non esiste una realtà oggettiva indipendente dal linguaggio, ma è il linguaggio che influenza profondamente il modo nel quale percepiamo e comprendiamo il mondo. 

Sapir & Whorf: il linguaggio influenza/determina la realtà

Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf si sono spinti anche oltre, sostenendo che la lingua che parliamo non influenza soltanto la nostra percezione del mondo ma anche il nostro modo di pensare. Sono due le ipotesi legate ai loro nomi: il cosiddetto “determinismo linguistico”, secondo il quale è la lingua a determinare il pensiero e a definire ciò che possiamo concepire, e la “relatività linguistica”: la lingua influenza il pensiero, ma non lo determina in modo assoluto. Mentre il determinismo linguistico è stato criticato e, in parte, confutato da autorevoli studiosi, la relatività linguistica è ancora oggetto di studio e discussione, con ricerche che dimostrano come la lingua influenzi, ad esempio, il modo in cui percepiamo lo spazio, le azioni e perfino i colori. Un’influenza tutt’altro che trascurabile, come possiamo facilmente intuire.

Neologismi, eufemismi e solecismi: armi di manipolazione di massa

Le parole, dunque, sono infinitamente più importanti di quello che crediamo. Per questo crearne alcune ad hoc (neologismi) o modificare, proditoriamente, il significato di parole esistenti (eufemismi & solecismi) è una strategia di manipolazione in grado di dare risultati inimmaginabili. 

Anche perché colpisce parole semplici che tutti noi usiamo continuamente e che, una volta “infettate”, contribuiscono a dar vita a quella “realtà irreale” nella quale il “Deep State” – quel “sistema globale di ingegneria del consenso” del quale parlavo prima – vuole farci vivere.

Gli esempi sono innumerevoli. Ecco alcuni tra i più significativi. Partirei da “Seconda Repubblica”. È dal tempo di Tangentopoli che siamo tutti convinti di vivere nella “Seconda Repubblica”, mentre la Repubblica è sempre la stessa. Con questa formula, però, sembra che la vecchia e corrotta Repubblica della “partitocrazia” (termine a suo tempo coniato per convincere l’opinione pubblica a liberarsi dei partiti e trasformare la democrazia del parlamento – cioè del popolo – in democrazia dell’esecutivo, cioè delle élite) sia stata sconfitta, che i partiti non ci siano più (davvero?) e che la corruzione sia, finalmente, debellata (è così?); “lacci e lacciuoli”, il mantra di chi non sopporta che la Legge si metta tra lui e i suoi affari; “premier”: per il momento, in Italia, non esiste alcun “Premier” nel senso proprio del termine. Il Presidente del Consiglio italiano, infatti: non ha una legittimazione diretta o semi-diretta (viene nominato dal Presidente della Repubblica e, per governare, ha bisogno della fiducia del Parlamento), deve ottenere e mantenere la fiducia del Parlamento (a differenza di alcuni premierati, il Parlamento italiano può sfiduciarlo con una mozione di sfiducia semplice), non nomina né revoca autonomamente i ministri (i ministri vengono nominati dal Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio), non può sciogliere il Parlamento né indire nuove elezioni (poteri che spettano, esclusivamente, al Presidente della Repubblica), non ha il controllo assoluto del Consiglio dei Ministri e della politica generale (deve mediare con la maggioranza parlamentare), non può dirigere direttamente alcuni ministeri chiave (Interni, Esteri, Difesa) senza delega (nei veri premierati, il capo del governo può assumere direttamente ministeri strategici), non è Comandante in capo delle Forze Armate (ruolo del Presidente della Repubblica). Dato, però, che il progetto è quello di trasformare la democrazia parlamentare in un premierato, da anni ormai, si parla di “premier”. E, così, quando il passo si compirà, sembrerà a tutti un passo normale: un’evoluzione positiva in chiave di governabilità e stabilità (vedi sotto) e non la fine della democrazia parlamentare, così come voluta dalla Costituzione.

Governabilità”, per non dire che si sta lavorando per rendere sempre più “docile” il Paese, il quale deve abituarsi a lasciarsi governare dal capo di turno, senza “disturbare il conDUCEnte”; “stabilità”, per non dire “inamovibilità” del governo di turno, il quale, una volta ottenuto il potere, fa di tutto per non perderlo; “sicurezza nazionale”, per non parlare di “Stato di polizia/repressione”, e mantenere l’opinione pubblica in una permanente condizione di paura, convincendola che c’è bisogno di più polizia, più controlli, più sorveglianza, con buona pace della privacy; “invasione”, di migranti, ovviamente: quando tutti gli studi seri e documentati in materia dicono che i migranti internazionali sono solo il 3,3% (!) della popolazione globale e convincere, così, la “balena-Paese” ad aver paura del “pesce rosso-migrante”; “spending review”, per evitare che l’opinione pubblica si allarmi per i “tagli alla spesa pubblica”, vale a dire a sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale, ricerca scientifica…; “downsizing”, che è molto meno inquietante di “licenziamenti” (così come, durante il Covid, si era parlato di “lockdown” invece che di “confinamento); “lavoro flessibile” per non dire “precariato”, “ottimizzazione del costo del lavoro”, per non parlare di riduzione degli stipendi; “cambiamento climatico”, per non ammettere la “catastrofe ambientale”; “eventi meteorologici eccezionali per scaricare sulla natura le responsabilità delle classi dirigenti nel “dissesto idrogeologico”; “riforme strutturali”, per non parlare di politiche di austerità”; “valorizzazione del patrimonio pubblico”, per non parlare del fatto che, con le privatizzazioni”, lo Stato regala i gioielli di famiglia agli amici; “cartolarizzazioni”, per non dire che si svendono debiti o beni pubblici (come il patrimonio immobiliare dello Stato) a speculatori; “operazioni militari speciali” o “peacekeeping” per non parlare di guerra”. Devo continuare?

Le 200 parole cancellate da Trump

E non è tutto. Il 7 marzo scorso, il New York Times ha rivelato che l’amministrazione Trump ha bandito quasi 200 parole ed espressioni dai documenti e dai siti web governativi. Parole ritenute troppo “woke” – per i progressisti, sinonimo di consapevolezza delle ingiustizie e impegno per una società più equa; per i conservatori, emblema di un’ideologia che impone il politicamente corretto e limita la libertà di espressione – o politicamente sgradite all’amministrazione Trump. In pratica, in molti casi è stato ordinato di rimuovere tali termini dai siti web pubblici delle agenzie o da altri materiali ufficiali, mentre in altri casi se ne sconsigliava fortemente l’uso.

Le parole finite nella lista nera riguardano soprattutto temi di diversità, diritti civili, genere e ambiente – concetti che il governo Trump considera parte della “cultura woke” – come “diversità”, “inclusione”, “uguaglianza”, “esclusione”, “diseguaglianze”, “ingiustizia”, “giustizia sociale” e, addirittura, parole comuni come “femmina” e “donna”. Molti vocaboli riguardano l’identità di genere e la comunità LGBTQ+: “transgender”, i pronomi neutri “they” e “them” (essi, loro), “non-binario”, “cure per l’affermazione di genere”, “LGBTQ+”, ridotto a LGB nelle comunicazioni ufficiali; altre parole proibite si riferiscono a discriminazione razziale e giustizia sociale: “etnia”, “nero”, “minoranza ispanica”, “immigrati”, “razzismo”, “antirazzismo”, “discorso d’odio”, “privilegio”, “pregiudizio”, “oppressione”, “discriminazione”, “segregazione”, “femminismo”, “disparità”, “disabilità”, “salute mentale”, “equità sanitaria”; termini legati al cambiamento climatico e all’ambiente: “crisi climatica”, “energia pulita”, “qualità ambientale” e persino riferimenti geografici come “Golfo del Messico”. A questo proposito, l’amministrazione Trump si è spinta fino a limitare l’accesso dei giornalisti dell’Associated Press (una delle più autorevoli, affidabili e seguite agenzie di stampa del mondo, vincitrice di oltre 50 premi Pultizer) a eventi come briefing nell’Ufficio Ovale e voli sull’Air Force One, a causa dell’uso continuato del termine “Golfo del Messico” invece di “Golfo d’America”. Il presidente Trump aveva emesso un ordine esecutivo per rinominare il Golfo del Messico in “Golfo d’America” e si aspettava che i media adottassero questa nuova denominazione. 

Che dite? Possiamo ancora considerarla la più grande democrazia del mondo?

Aut-aut ovvero: divide et impera

A tutto questo, si aggiunge il fatto che siamo stati tutti infettati dal virus manicheo dell’aut-aut. Ogni cosa – sia nel pubblico che nel privato – dev’essere solo bianca o nera. Nessun altro colore è contemplato. E nemmeno la minima sfumatura. 

Una logica avvelenata e pericolosissima, che mira a rendere qualunque temaguerra, pace, armi, violenza, politica, economia, ambiente, energia, nucleare, aborto, fine-vita, farmaci, vaccini, immigrazione, razzismo, femminismo, patriarcato, parità di genere, sovranismo, globalismo, Europa, euro, BCE, NATO, Trump, Putin, pubblico, privato, lavoro, salario, tasse, welfare, sussidi, alimentazione e bla-bla-bla, fratelliconflittuale. Risultato: ci si divide su tutto

United we stand, divided we fall

Si esaspera ciò che ci divide; si “banna” ciò che unisce o potrebbe unire. A nessuno è venuto il sospetto che questa polarizzazione così esasperata, che radicalizza tutto e tutti non sia alimentata ad arte? Abbiamo mai considerato la possibilità che la parola d’ordine sia: “Mettiamo questi imbecilli gli uni contro gli altri e, mentre loro – fessi – si fanno la guerra tra loro, noi siamo liberi di farci gli affari nostri”?

Abbiamo dimenticato cosa dicevano i latini? “Divide et impera”. Vale a dire: “Dividi (gli altri) e dominerai”. Non è evidente che – se, per dominare, bisogna dividere – per non farsi dominare non bisogna dividersi?

Possibile che, all’alba del terzo millennio, abbiamo dimenticato una verità fondamentale nota già più di duemila anni fa – “Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non può reggersi” (Marco, 3:24-25) – e ripresa, più di 250 anni fa, dal patriota americano John Dickinson, in un verso-manifesto della “Liberty Song” (“Canto della libertà”): “United we stand, divided we fall”: “Uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Vogliamo continuare a dividerci e a fare il gioco del “Deep State” o è arrivato il momento di provare a cambiare strategia?

Salvador Gaudenti è un artista italo-argentino nato a Buenos Aires nell’aprile del 1958 da genitori italiani originari della Calabria, che si erano trasferiti in Argentina dopo la Seconda Guerra Mondiale.  La sua duplice eredità culturale ha influenzato profondamente la sua arte, combinando elementi delle sue radici italiane con l’esperienza vissuta in Argentina. Oltre alla pittura, Gaudenti ha esplorato altre forme d’arte, tra cui la scultura, e ha dedicato parte del suo lavoro a figure iconiche come Diego Armando Maradona.

Ringraziamo fortemente Alessandro Dramisino, manager dell’artista, per la preziosa collaborazione.

Maestro Salvador Gaudenti, come descriverebbe il Suo stile artistico e quali tecniche predilige nelle sue opere?

Non è molto semplice descrivere il mio stile artistico. Credo che non sia catalogabile facilmente, penso che la mia arte sia molto urbana, da strada, questo è per quanto riguarda lo stile. Per quanto riguarda invece la tecnica utilizzo qualsiasi cosa per rendere piacevole, entusiasmante, arrapante quello che ho in testa! (Sorride).

Quali artisti o correnti artistiche hanno influenzato maggiormente il Suo lavoro?

Credo sia stato Toulouse-Lautrec con le sue locandine i suoi manifesti ad influenzarmi maggiormente. I suoi lavori ricreavano un’atmosfera molto urbana, molto particolare, avvolgente, passionale… Poi Modigliani, Picasso, Andy Warhol la Pop Art… Credo che poi in fin fine la mia arte coinvolga tutti questi grandi artisti…

Può raccontarci del Suo percorso? Come è iniziata la sua carriera e quali esperienze l’hanno maggiormente formata?

Il mio percorso artistico inizia da giovane in Argentina, frequentando l’accademia a Buenos Aires, che poi ho dovuto lasciare per motivi di ribellione… Volevo giocare a calcio, che amavo troppo… Sono stato influenzato molto dall’immigrazione italiana e da quella spagnola, che hanno fatto sì che il Tango diventasse uno dei miei cavalli di battaglia, dei miei più grandi successi a livello internazionale. Ho collaborato con l’ambasciata Argentina per tanti anni, promuovendo il Tango Argentino nel mondo, e fu questa la prima fase che mi ha formato definitivamente.

Cosa La ispira nella creazione delle sue opere? Ci sono temi ricorrenti o messaggi che desidera trasmettere attraverso la Sua arte? 

L’ispirazione che porta alla creazione delle mie opere credo venga soprattutto dalla strada; Sono certo che sia uno dei migliori palcoscenici per potersi esibire… Il messaggio che voglio esprimere ed esternare è paragonabile al racconto del viaggio di chi osserva le mie opere, che spero gli rimangano impresse per sempre…come quando senti il profumo dell’erba che brucia in estate, come quando la primavera fiorisce, come una bella canzone che te la porti per sempre, anche se passano gli anni ce l’hai sempre dentro di te! 

Come nasce una Sua opera, dal concepimento dell’idea alla realizzazione finale?

Un’opera nasce, almeno nel mio caso, attraverso la curiosità… Tutto quello che mi circonda, che gira intorno a me, è fonte d’ispirazione… quindi colori, muri, mattoni, un pezzo di strada, la natura, qualunque cosa mi possa ispirare che poi naturalmente io la rielaboro e la realizzo e la definisco a modo mio.

Diego Armando Maradona occupa un posto speciale nella Sua produzione artistica. Cosa rappresenta per Lei Maradona e cosa l’ha spinta a dedicargli diverse opere?

Prima ancora di artista, io nasco calciatore… Ho incontrato Diego e l’ho affrontato quando ero ragazzo e giocavo nel River Plate e Diego negli Argentinos Junior. Mi innamorai subito del suo modo di giocare delle sue follie… e quando in me entra in gioco “l’artista Diego” lui diventa il mio punto di forza della mia carriera, considerando che Maradona è il Dio del calcio, e una delle pop star più amate e conosciute del pianeta… il che significa che se io dipingo Diego a modo mio, uscirà e entrerà in tutto il mondo per il suo essere planetario…

Può parlarci della mostra “Maradona è mille culure” e di come è nata l’idea di questo omaggio?

La mostra di “Maradona è mille culure” nasce attraverso una mia visione. Io, oltre ad essere un artista, sono anche imprenditore di me stesso… Ho la visione di come un artista dovrebbe essere amato, promozionato, cavalcato, coccolato e debbo tanto al mio unico Manager Alessandro Dramisino, il quale ha saputo interpretare le mie idee e visioni e trasformarle in realtà. Con lui abbiamo fatto passi da gigante, le mie opere sono esposte nel Museo Cammarota a Nola, nel Museo Vignati ai Quartieri Spagnoli. Posseggono le mie opere Nino D’Angelo, Bruno Giordano, Beppe Bruscolotti, Jolanda De Rienzo,Criscitiello, El Pampa Sosa, Francini, Carrannante, Ciro Novellino, Mario Artiaco, Nicola ed Enzo Raccuglia (Creatori e Proprietari del grande Marchio Ennerre),Daniel Arcucci (Il Biografo di Diego), Nazareno Casero (Attore protagonista della Serie su Diego “Sogno Benedetto”),Pedro Pasculli (Campione del Mondo México ’86, nonché amico fraterno di Diego); lo stesso Pedro sarà il Testimonial della mia nuova Opera “D10S”, insieme a tantissimi altri. La mostra fu fatta al club Napoli di Castrovillari e fu un grande successo. Trovai grande sostegno tra tutti. Voglio citare Luca Donadio, grande tifoso di Diego, avvocato di mestiere: insieme a lui siamo riusciti a conquistare questo pezzo di Calabria!

Ha realizzato sculture dedicate al campione argentino, come “Maradona Dejà Vu”. Qual è il significato di quest’opera e come è stata accolta dal pubblico?

Il “Deja vu”, che è a Largo Maradona, credo sia un’opera incredibile, se non altro perché è concepita con uno stile molto moderno e contemporaneo. In realtà, oserei dire che è antico e moderno allo stesso tempo… È qualcosa che non puoi catalogare, classificare. È un’immagine che si triplica, che si fa in “3” con le maglie che lui ha veramente amato: il Boca Junior, il Napoli e l’Argentina. Ha avuto ed ha a tutt’oggi un grande successo, quel posto è ritenuto un luogo di culto calcistico, un punto di riferimento per il mondo intero. Passano e ammirano la mia statua milioni di persone all’anno…

Quali sono le principali sfide che ha affrontato nel mondo dell’arte e quali le soddisfazioni più grandi della Sua carriera?

Le sfide nel mondo dell’arte sono veramente tante, è un mondo particolare, cavernicolo… nel vero senso del termine. Un mondo di caverne dove è difficile trovare la luce. Credo che oggi il mondo dell’arte non sia rivolto solo verso le cose incredibili, affascinanti, ma rivolga la sua attenzione soprattutto verso una conoscenza di tipo “Sistema” … o sei dentro a quel sistema o non esisti… Per quanto riguarda le sfide, sono costantemente sotto sfida… Quella che ora a me sta portando tanto entusiasmo direi che sia quella che sto affrontando adesso… “D10S”, la statua più grande al mondo dedicata a Diego, che misura ben 6,20 metri e che verrà sistemata sempre a Napoli a Largo Maradona, nei Quartieri Spagnoli. Io ed Alessandro Dramisino ci stiamo lavorando ormai da mesi… Quindi credo sia questa la sfida che mi porta oggi ad esclamare… “Wow!

(Alessandro Dramisino, manager dell’artista)

Come vede evolvere la Sua arte nei prossimi anni e ci sono nuovi temi o soggetti che desidera esplorare?

Non ho una grande consapevolezza del futuro. Sono molto più radicato sul presente. Quando con la mente costruisco i miei viaggi, penso solo che mi piacerebbe esserci… immagino le mie opere girare in tutto il mondo, raggiungere quei luoghi dove sarebbe bello ed importante esserci… la presenza di un’arte come quella mia… quella molto fuori mano, scomoda, non di sistema… Un’arte che ti fa l’occhiolino… Credo sia questo il viaggio nel futuro che vorrei farmi… In fondo, quando io dipingo, immagino di esserci già nel futuro. Quando io realizzo dei lavori, credo che loro continueranno ad esserci, che proseguiranno ad essere visti tra 70/80 anni ancora come contemporanei… ecco ciò che mi piace immaginare!

I colori hanno un impatto profondo sulle nostre emozioni e sul nostro comportamento, spesso in modi che non percepiamo consciamente. Studi sulla psicologia del colore dimostrano che le tonalità che ci circondano possono influenzare il nostro umore, le decisioni che prendiamo e persino il nostro stato fisico.

Questa relazione tra colore ed emozione è stata studiata da diversi esperti, tra cui Johann Wolfgang von Goethe, che nel suo Teoria dei colori (1810) esplorò come le diverse tonalità suscitino risposte emotive specifiche. Jung, fondatore della psicologia analitica, studiò a fondo i colori non solo dal punto di vista psicologico ma dal più ampio di vista culturale e archetipico. Più tardi, ci si spostò più verso gli aspetti psicologici anche in funzione “comunicativa”, come Max Luscher che inventò un test per relazionare scelte e colori, o il professor Faber Birren, autore di Color Psychology and Color Therapy (1950), che approfondì il legame tra colore, percezione e comportamento umano. Fino ad arrivare alle teorie delle attuali neuroscienze che hanno aperto il campo al neuromarketing basato sui colori.

Ma come funziona questo fenomeno? E quali sono i significati e gli effetti principali dei colori?

La psicologia del colore: perché i colori ci influenzano

La nostra percezione dei colori è influenzata da fattori biologici e culturali. A livello biologico, il colore è elaborato dal nostro cervello attraverso il sistema visivo e può attivare risposte fisiologiche. Ad esempio, studi condotti da Andrew J. Elliot e Markus A. Maier (Color Psychology: Effects on Emotion and Attention, 2014) hanno dimostrato che il rosso può aumentare il battito cardiaco e stimolare l’attenzione.

A livello culturale, invece, ogni società attribuisce significati simbolici ai colori. Ad esempio, mentre nel mondo occidentale il bianco è spesso simbolo di purezza e matrimonio, in alcune culture orientali è associato al lutto e alla morte.

Il significato e gli effetti psicologici dei principali colori

Ecco alcuni dei colori più comuni e i loro effetti psicologici, secondo studi accademici e ricerche nel campo del marketing e della psicologia:

• Rosso – È il colore dell’energia, della passione e dell’azione. Può aumentare la pressione sanguigna e stimolare l’adrenalina (Elliot & Maier, 2014).

• Blu – Simbolo di calma e tranquillità, ha un effetto rilassante ed è usato in ambienti lavorativi per favorire la concentrazione (Kwallek et al., 1996).

• Giallo – Stimola la creatività e il buon umore, ma se troppo intenso può causare ansia (O’Connor, 2011).

• Verde – Il colore della natura e dell’equilibrio. È rilassante per gli occhi e viene spesso utilizzato per ridurre lo stress (Kurt & Osueke, 2014).

• Viola – Tradizionalmente legato alla spiritualità e alla creatività, può evocare sensazioni di mistero e lusso.

• Ara

ncione – Un colore energico e stimolante, spesso associato alla socialità e all’entusiasmo.

• Nero – Simbolo di eleganza e autorità, ma anche di mistero e lutto. (Sliburyte, 2009).

• Bianco – Rappresenta purezza, semplicità e minimalismo. Spesso usato per trasmettere pulizia e ordine.

Come i colori influenzano la nostra vita quotidiana

I colori vengono ampiamente utilizzati nel marketing, nel design e persino nella medicina per influenzare il comportamento umano. Ad esempio:

• Nei ristoranti si usano spesso il rosso e il giallo perché stimolano l’appetito (Singh, 2006).

• Negli ospedali si preferiscono tonalità di verde e blu per creare un ambiente rilassante (Dalke et al., 2006).

• Nella pubblicità, il nero e l’oro vengono utilizzati per comunicare lusso ed esclusività.

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La psicologia del colore è uno strumento potente che influenza le nostre percezioni e decisioni quotidiane. Essere consapevoli dell’effetto dei colori può aiutarci a creare ambienti più armoniosi e a comunicare meglio attraverso il design e la moda.

Il colore non è solo una questione estetica o artistica; esso è profondamente radicato nelle dinamiche sociali e culturali, influenzando la nostra percezione, il comportamento e le interazioni con gli altri. In molte società, i colori sono utilizzati per trasmettere messaggi di status, identità, emozioni e appartenenza. Ogni colore può evocare una serie di risposte psicologiche che, a loro volta, influenzano il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e come veniamo percepiti dalla collettività. In questo articolo esploreremo come i colori influenzano la percezione sociale, concentrandoci su come essi possono modellare il nostro comportamento, le nostre scelte e le nostre interazioni in diversi contesti.

Il ruolo del colore nella psicologia sociale

Il colore ha un impatto diretto sulle emozioni e sulla psiche umana. Studi di psicologia sociale hanno dimostrato che i colori possono influenzare non solo l’umore e le percezioni individuali, ma anche le interazioni e i comportamenti sociali. Ad esempio, l’uso del colore nelle uniformi, nel marketing, nelle politiche aziendali e nelle politiche di inclusività può inviare messaggi potenti e condizionare le dinamiche sociali.

Colori e identità sociale

Ogni colore porta con sé connotazioni e simbolismi che variano a seconda della cultura e del contesto. Le persone tendono ad associare determinati colori con specifici gruppi sociali, valori e comportamenti. Un esempio evidente di come i colori possano essere usati per costruire l’identità sociale è l’uso del rosso in ambito politico. Il rosso, a seconda del contesto, può simboleggiare sia l’ideologia comunista che l’energia e l’entusiasmo in altri settori, come lo sport o l’industria della moda.

Anche in ambito professionale, i colori sono un indicatore di status e ruolo. Per esempio, i blu scuri e i grigi sono frequentemente utilizzati nei contesti aziendali per esprimere autorità e professionalità. D’altra parte, il rosa e il lavanda sono stati talvolta associati a ruoli più “tradizionali” di cura e ospitalità, influenzando la percezione sociale di chi li indossa.

Colori e discriminazione sociale

I colori, purtroppo, sono anche usati per giustificare e perpetuare forme di discriminazione e pregiudizio. Questo accade soprattutto con i colori della pelle e nelle concezioni razziali che le società si sono formate nel corso della storia. Il fenomeno della discriminazione razziale è spesso legato a percezioni sociali negative, che si radicano nelle differenze fisiche, tra cui il colore della pelle. La percezione sociale delle persone può essere influenzata dalla tonalità della loro pelle, con conseguenze che vanno dall’accesso a risorse economiche e opportunità professionali, fino alle relazioni interpersonali quotidiane.

Il colore e le percezioni di genere

Un altro ambito in cui il colore gioca un ruolo significativo è quello della percezione di genere. Storicamente, il rosa è stato associato al femminile e il blu al maschile, ma questa dicotomia di genere nei colori non è sempre stata così marcata. In passato, il rosa era considerato un colore più “forte”, adatto anche agli uomini, mentre il blu era visto come un colore delicato e appropriato per le donne. Nel tempo, tuttavia, le convenzioni culturali hanno invertito questi significati, consolidando il rosa come colore della femminilità e il blu come simbolo di virilità.

La moda e l’industria del marketing hanno contribuito in modo determinante a perpetuare queste associazioni di genere, creando campagne pubblicitarie e prodotti che suggeriscono che determinati colori siano “naturali” per uomini o donne. La pubblicità gioca un ruolo cruciale nel plasmare il comportamento e l’autopercezione, utilizzando il colore per veicolare stereotipi di genere.

Il significato del colore nel contesto del marketing e della pubblicità

Nel marketing, il colore è una delle leve principali utilizzate per influenzare le scelte dei consumatori e manipolare la loro percezione di un prodotto o di un marchio. Ogni colore ha un effetto psicologico che può stimolare emozioni specifiche, condizionando in modo invisibile il nostro comportamento di acquisto.

• Rosso: stimola l’eccitazione, l’urgenza e la passione. Viene spesso utilizzato nelle vendite e nelle promozioni per attirare attenzione immediata e motivare l’acquisto.

• Blu: evoca fiducia, serenità e professionalità. Le aziende che vogliono dare una sensazione di sicurezza e competenza spesso scelgono il blu per i loro loghi.

• Verde: simbolo di natura e benessere, viene utilizzato in contesti che promuovono uno stile di vita sano o prodotti ecologici.

• Giallo: rappresenta la gioia e l’energia, ma può anche trasmettere allarme se utilizzato in modo eccessivo. È un colore che attira attenzione, ma che va utilizzato con cautela.

L’uso strategico dei colori nella pubblicità non è casuale: il colore può indurre il consumatore a sentirsi attratto dal prodotto, motivato all’azione o impressionato dalla qualità percepita del marchio.

Colori e emozioni nella percezione sociale

I colori sono anche potenti veicoli di emozioni e sentimenti nelle interazioni sociali. Un’area di ricerca rilevante è quella che studia come i colori influenzano le relazioni interpersonali, dalle dinamiche romantiche alle comunicazioni professionali.

Rosso

Il rosso è un colore che tradizionalmente stimola passione e aggressività. È stato studiato per il suo impatto nelle dinamiche romantiche, dove il rosso è visto come il colore dell’attrazione e del desiderio. Tuttavia, il rosso può anche scatenare competizione e conflitto, in particolare in contesti dove l’intensità e la determinazione sono ricercate.

Blu

Il blu, al contrario, è associato alla tranquillità, fiducia e serenità. Nelle interazioni sociali, il blu è spesso utilizzato in ambienti dove la collaborazione e la comunicazione aperta sono cruciali, come nei contesti professionali e diplomatici. È un colore che favorisce il senso di solidarietà e sicurezza.

Nero

Il nero è spesso associato a eleganza, autorità e mistero. Tuttavia, nella percezione sociale, il nero può anche evocare tristezza, separazione o oppressione, come nel caso del lutto. In situazioni professionali o formali, il nero è un colore che denota serietà e raffinatezza, ma, se indossato in modo eccessivo o inappropriato, può apparire troppo distante o freddo.

Giallo e Arancione

Il giallo e l’arancione sono colori legati alla gioia e all’ottimismo, ma il loro uso esagerato può portare a una percezione di aggressività o superficialità. Questi colori, pur suscitando emozioni positive, possono creare un effetto contrario se non dosati correttamente.

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Il colore è un potente strumento di comunicazione sociale che va ben oltre la sua funzione decorativa. Influenza la nostra percezione di identità, genere, emozioni e persino le relazioni interpersonali. I colori hanno il potere di formare e riflettere i valori di una società, sia che si tratti di simboli culturali, sia che si tratti di messaggi subliminali veicolati da marketing e pubblicità. Comprendere l’impatto sociale e psicologico del colore ci permette di interpretare meglio le dinamiche delle nostre interazioni quotidiane e le forze che modellano la nostra visione del mondo.

Il mondo che ci circonda è un incredibile concentrato di oggetti, materiali con i propri colori, ma ci sono anche un incredibile quantità di suoni, di profumi…passeggiando in un bosco ce ne accorgiamo in modo immediato: la natura prende il sopravvento su di noi dandoci tantissime cose.

L’uomo riesce a cogliere tutti questi messaggi dall’esterno grazie ai propri sensi. 

5, i sensi sono cinque, mi sono subito detto mentre cercavo di affrontare questo tema. Ma questi 5 sensi non sono tutti i sensi possibili nel mondo animale e a volte non ci sono solo questi anche nell’uomo, ci possono essere situazioni diverse. Così cerco di affrontare quali siano “i limiti” e “i confini” di questi sensi.

Sappiamo tutti che l’uomo può percepire il mondo con la vista (la percezione della luce, dei colori e delle forme attraverso gli occhi), l’udito (la percezione dei suoni e dei rumori attraverso le orecchie), il gusto (la percezione dei sapori attraverso le papille gustative), il tatto (la percezione del contatto fisico tramite la pelle che ci permette di sentire calore o ruvidezza o liscezza degli oggetti) e l’olfatto (la percezione degli odori attraverso il naso). A questi alcuni studiosi ne aggiungono un sesto (anche se non tutti gli studiosi sono concordi) che è la cinestesia, la propriocezione che è la capacità di percepire la posizione e il movimento del proprio corpo nello spazio. Tutti gli animali, compresi gli esseri umani, possiedono questo senso che consente di “vedersi” nello spazio senza l’uso della vista, “sentendo” le proprie articolazioni, i propri muscoli e il come si stanno usando per eseguire dei movimenti.

Ma se consideriamo tutto il regno animale, ci sono altri sensi donati loro dall’evoluzione e dalla selezione naturale.Così alcuni mammiferi particolari hanno sviluppato l’ecolocalizzazione che permette di “vedere” attraverso i suoni acuti che emettono e dei quali analizzano i ritorni in modo da determinare la distanza, la forma e la posizione degli oggetti intorno a loro. E’ con questo senso che i pipistrelli che volano di notte riescono a cacciare le zanzare ed è con questo senso che i cetacei, come i delfini, riescono a muoversi nelle acque torbide.

Lo Squalo, alcune rane e i Pesci Gatto sono in grado di rilevare i campi elettrici prodotti da altri organismi. Con questa Elettrosensibilità riescono a percepire i movimenti dei muscoli degli animali che predano.

E’ dimostrato che gli uccelli, le tartarughe marine e le api, possiedono la Magnetorecezione che è in grado di rilevare i campi magnetici terrestri e così di orientarsi nello spazio anche nelle loro migrazioni lunghissime, anche in ambienti completamente sconosciuti. Tanto per dare una misura, le Sterne Artiche migrano ogni anno, dalla Gran Bretagna al Polo Sud e ritorno per un totale di 96.000 km.

La Termorecezione è una Sensibilità al calore che permette ai Serpenti, come i pitoni e le vipere, di percepire variazioni di temperatura nell’ambiente circostante, permettendo loro di rilevare quei piccoli animali a sangue caldo che sono le prede, anche nel buio totale. Non c’è scampo per i topolini.

Ma i topi, così come i gatti e le foche, ad esempio, hanno un altro senso a loro disposizione: le vibrisse, quei baffi più lunghi e duri che sono sensori tattili estremamente sensibili e che li aiutano a percepire la distanza e la forma degli oggetti vicini, anche in ambienti scarsamente illuminati.

La Rilevazione dei feromoni, non è olfatto, ed è un senso che alcuni animali, come insetti ma anche mammiferi come i cani, hanno sviluppato per percepire i feromoni, segnali chimici emessi con scopo sociale da altri animali della stessa specie. Anche gli esseri umani dovrebbero avere questo senso, ma è talmente poco sensibile da non essere inserito nell’elenco.

Ma affrontando “i limiti” e “i confini” ci possono anche essere “combinazioni”, “confusioni”, “contaminazioni” tra i sensi. 

Così per i poeti esiste “Il suono dolce della tua voce” o “una melodia vellutata che accarezza l’aria” o ancora “un colore caldo come un abbraccio” dove si uniscono e si fondono udito e gusto, udito e tatto, vista e tatto.

Si chiama Sinestesia, è una figura retorica, ma è anche un fenomeno neurologico. E di questo fenomeno esiste una forma “blanda” e una forma “pura”. 

La Sinestesia si manifesta quando al percepire uno stimolo – supponiamo un suono – viene provocata una reazione netta di un altro senso – ipotizziamo la vista. Il fenomeno è involontario e nella sua forma più pura, è il manifestarsi di un fenomeno percettivo vero e proprio e non cognitivo. Ma una maggiore attenzione prestata può renderlo più consapevole e più netto. 

Vasilij Vasil’evič Kandinskij ha descritto la sua Sinestesia nel libro “Lo spirituale nell’arte” e la “utilizzava” per le sue opere, i suoi quadri che sono esplorazioni dei colori, delle forme e delle geometrie esistenti nel nostro mondo, esaltando questo sua particolare condizione.

Mi sono soffermato su un’opera in particolare. Si intitola “Impressione III” ed è stata dipinta da Kandinskij dopo aver assistito al concerto di capodanno del 1911 del compositore viennese Arnold Schönberg, tenutosi a Monaco di Baviera. 

Nel quadro si possono riconoscere nella grande macchia nera la forma del pianoforte a coda che si trova sul palco e ai suoi piedi i numerosi spettatori, di diversi colori. In lontananza si nota un albero arancio e alla destra dell’albero uno stagno blu. Materializzazioni di quello che percepiva il pittore, il tutto avvolto da un giallo denso e pastoso, quello che era il colore del suono di quel concerto.

Se lo guardiamo profondamente, un po’ ci sembra di essere lì. Proviamo ad ascoltare il Quartetto per archi op.10 e i Klavierstücke op.11 che vennero suonate in quel Primo Gennaio del 1911.

La Sinestesia, dicevo, può avere anche una forma più blanda e questa può essere presente in molti individui. Infatti i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri nell’ambiente che ci circonda. 

Così voglio esortare me stesso e anche voi ad allenare questo “nuovo senso” per vedere la musica che è attorno a noi, percepirne i colori, percepirne la liscezza o sentire il profumo del verde e del giallo che in questi giorni di inizio primavera si fanno sempre più esplosivi.

Il colore è stato uno degli elementi fondamentali nell’arte fin dai suoi inizi. Ha avuto un ruolo cruciale nell’espressione visiva e nel trasmettere emozioni, concetti e simbolismi. Le scelte cromatiche degli artisti non sono mai casuali, ma si basano su una profonda comprensione teorica, psicologica e anche sociale. La storia del colore nell’arte è lunga e complessa, con molteplici evoluzioni attraverso le epoche.

Le origini del colore nell’arte: dalla pittura rupestre all’Antichità

Nel corso dei millenni, l’uso del colore in arte ha subito trasformazioni significative. Nelle pitture rupestri preistoriche, i colori erano ottenuti da terre naturali e minerali, come ocra rossa, gialla e carbone. Questi colori venivano utilizzati per rappresentare il mondo circostante, in un contesto spirituale o rituale. Le prime forme di pittura erano essenzialmente simboliche, piuttosto che realistiche.

Con l’arrivo delle civiltà antiche, come quella egizia, greca e romana, il colore divenne anche un mezzo per esprimere status e potere. Gli Egizi, per esempio, usavano il colore per rappresentare divinità, gerarchie sociali e emozioni. Ogni colore aveva un significato preciso: il blu rappresentava l’infinito e il divino, mentre il rosso simboleggiava la forza vitale e l’energia.

Il Rinascimento e la ricerca del realismo

Con l’avvento del Rinascimento (XIV-XVI secolo), gli artisti iniziarono a esplorare più intensamente le possibilità del colore. La tecnica della pittura a olio, sviluppata in questo periodo, consentì di ottenere sfumature più sottili e realistiche. Artisti come Leonardo da Vinci, Raffaello e Michelangelo usavano il colore per modellare la luce e creare tridimensionalità. Il chiaroscuro (l’uso di forti contrasti tra luce e ombra) divenne una tecnica fondamentale per dare profondità e volume alle figure.

In questo periodo, l’uso del colore non era solo tecnico, ma anche simbolico. Ad esempio, Veronese e Tintoretto utilizzavano colori vivaci e saturi per evocare il sacro o l’opulenza.

Il colore nell’arte moderna: sperimentazione e astrazione

Nel XX secolo, l’approccio al colore subì una radicale trasformazione con i movimenti artistici come l’Impressionismo, il Cubismo e l’Espressionismo. Artisti come Claude Monet e Vincent van Gogh cercarono di catturare la percezione del colore, non più solo come rappresentazione della realtà, ma come esperienza emotiva.

Monet, per esempio, usava il colore per suggerire cambiamenti atmosferici e percezioni sensoriali, in un modo che sfidava la pittura tradizionale. Le sue tele erano dominate da tonalità di blu, rosa e giallo, creando effetti di luce che sembravano fluttuare. D’altra parte, Van Gogh usava colori vividi, come il giallo e il blu, per esprimere emozioni intense, come nella sua celebre opera Notte stellata.

La teoria dei colori formulata da Johannes Itten alla Bauhaus, una scuola di arte e design, fu determinante per la comprensione moderna del colore nell’arte. Itten stabilì le nozioni di colori primari e secondari, e la sua idea di armonia cromatica influenzò artisti come Wassily Kandinsky, che utilizzava il colore come un linguaggio visivo astratto. Per Kandinsky, ogni colore evocava un’emozione specifica: il giallo era visto come un colore che stimola e provoca ansia, mentre il blu trasmetteva serenità e calma.

Il colore nell’arte contemporanea

Oggi, il colore è utilizzato in modo ancora più libero e sperimentale nell’arte contemporanea. Artisti come Mark Rothko e Joseph Albers hanno esplorato il colore come mezzo per comunicare sensazioni e stati d’animo profondi. Le opere di Rothko, in particolare, sono caratterizzate da ampie superfici di colore puro che invitano l’osservatore a un’esperienza emotiva diretta.

Anche nel design contemporaneo, il colore è cruciale. I designer utilizzano la psicologia del colore per evocare risposte emotive specifiche e guidare l’esperienza visiva dell’utente.

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L’uso del colore nell’arte è evoluto in modo significativo nel corso dei secoli. Da uno strumento per rappresentare la realtà e il simbolismo, a un mezzo per evocare emozioni e pensieri astratti, il colore ha sempre avuto un ruolo centrale nell’espressione artistica. Le teorie cromatiche sviluppate nel corso della storia continuano a influenzare il modo in cui gli artisti e i designer utilizzano il colore oggi, facendo sì che ogni scelta cromatica porti con sé un significato profondo e universale.