I 7 secondi
Oscar Wilde affermava che “non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.
Il neuromarketing rincara la dose dicendoci che questa prima impressione si crea in circa 7 secondi.
Due respiri, quattro battiti di ciglia, il tempo di dire “Ciao, mi chiamo Letitia, piacere di conoscerti” e dall’altra parte dei piccoli neuroni irrequieti hanno già decretato se sei affidabile, simpatico, intelligente, oppure no.
Le neuroscienze addirittura descrivono un processo valutativo rapidissimo e inconscio di circa 40 millisecondi, capitanato dalla amigdala, che gestisce le emozioni e il pericolo. Categorizziamo il prossimo attraverso un effetto primacy, un bias cognitivo che porta a dare un maggiore peso alle prime informazioni elaborate, influenzando la nostra valutazione. Non c’è il tempo né per fingere né per dimostrare qualcosa. I veri giudici sono le emozioni.
Eppure quanto temiamo questa prima valutazione in un colloquio di lavoro, quando conosciamo un superiore, o un collega, o quando ci inseriamo in un nuovo contesto sociale?
Ebbene, nulla di ciò che possiamo costruire e pianificare è davvero rilevante, a quanto pare, non per il nostro esordio.

La difficoltà, se mai, sarà dopo, nel rafforzare, o ancora di più nello smentire l’idea che l’altro ha di noi. Vorrei rassicurare le persone che sono particolarmente preoccupate per questi giudizi: gli altri vi avranno etichettato prima che voi abbiate modo di dimostrare chi siete e soprattutto gran parte della responsabilità ricadrà sulle loro emozioni, il loro vissuto, i loro ricordi e le associazioni che ne conseguono. In quel frangente c’è ben poco di voi. Ma da lì in poi, invece, è tutto da costruire. Per metterci in contatto con gli altri è necessario un moto verso l’esterno della sfera del proprio “io”.
Quando ci presentiamo, per esempio, spesso siamo così concentrati su di noi, sulla stretta di mano, come pronunciamo il nostro nome, se sorridiamo, troppo o troppo poco, che non riusciamo nemmeno a percepire l’espressione dell’altro, né a recepire il suo nome il più delle volte.
Questo si può prolungare anche in un arco temporale più lungo: quante persone avete conosciuto che hanno passato tutto il tempo a parlare di sé, tanto da farvi domandare se si siano accorti che ci siete anche voi. Nell’incontro con gli altri, quello che ci rimane davvero è come ci abbiano fatto sentire, quali emozioni e quale energia si sono create. È importate stabilire una connessione ed uno scambio.

Roman Jakobson, semiologo e linguista russo, ideò un modello comunicativo per spiegare le dinamiche della trasmissione di messaggi, da un mittente ad un destinatario, attraverso un canale, nel quale hanno un ruolo fondamentale gli attori con tutte le loro istanze, il codice linguistico, il contesto e le circostanze. Per Jakobson il linguaggio ha 6 funzioni: espressiva/emotiva, fàtica, conativa, poetica, metalinguistica e referenziale. Tutto molto bello, ma Jakobson si focalizza soprattutto sul mittente (come la persona di prima che ci parla ininterrottamente ignorando che le prestiamo o meno attenzione) rendendo il ricevente passivo e non concentrandosi sufficientemente sul feedback dell’interlocutore.
Beh, voi non fatelo a casa! Se volete comunicare in maniera efficace con il vostro interlocutore connettetevi con lui e le sue emozioni.
Le cose si complicano quando dobbiamo metterci in gioco su più livelli, quando il nostro esordio non si limita alla presentazione di noi stessi, ma prevede un’apertura maggiore della nostra sfera intima e vulnerabile: quando dobbiamo creare qualcosa, forgiarla, e darla in pasto ai giudizi, nostri in primis, e poi dagli altri.

Che si tratti di una pagina bianca da riempire, di poesia o di codici, di una tela, una presentazione in powerpoint, un oggetto, una foto, un film, un progetto, o quello che volete.
La sfida è quando dobbiamo riempire un vuoto con una parte di noi, quando quello che sappiamo fare deve dare agli altri la misura di chi siamo. L’entusiasmo e il timore, il coraggio di credere nel potenziale che sentiamo di avere, la volontà di esternarlo, quella tensione positiva che ci spinge a dare il meglio, ma che può essere anche una paura paralizzante. La volontà e la necessità di farlo stimare agli altri è un’esposizione al fallimento, come un ponte tibetano: sei ancorato al giudizio degli altri, ma con la determinazione di voler procedere nonostante tutto.
Può essere un percorso lungo e faticoso o un tuffo nell’ignoto, ma certo è un passaggio necessario, l’inizio di tutto.