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Il colore non è semplicemente una proprietà fisica degli oggetti, ma un fenomeno complesso che nasce dall’interazione tra la luce, l’oggetto che riflette o assorbe la luce e la percezione visiva dell’occhio umano. La scienza del colore è un campo che esplora come vediamo e interpretiamo i colori, le loro proprietà fisiche e come il nostro cervello li elabora. In questo articolo, esploreremo i fondamenti scientifici del colore, dalla teoria della luce alla percezione visiva.

La luce e la teoria del colore

Alla base della percezione del colore c’è la luce. La luce bianca, che percepiamo come una miscela di tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico visibile, può essere separata in una gamma di colori attraverso un prisma. Questo fenomeno fu studiato da Isaac Newton, che nel 1666 dimostrò che la luce bianca è composta da una serie di colori, visibili quando la luce passa attraverso un prisma. Questi colori corrispondono a lunghezze d’onda specifiche della luce, che vanno dal rosso (lunghezza d’onda più lunga) al violetto (lunghezza d’onda più corta).

Secondo la teoria di Newton, i colori primari che costituiscono lo spettro sono rosso, verde e blu, che combinati in varie proporzioni possono produrre una vasta gamma di colori. Questo principio alla base della sintesi additiva è essenziale per la produzione dei colori sui display elettronici, come quelli dei televisori o degli schermi dei computer.

La percezione del colore nell’occhio umano

Quando la luce colpisce un oggetto, esso assorbe alcune lunghezze d’onda e ne riflette altre, che arrivano ai nostri occhi. La percezione del colore è quindi il risultato di come la luce riflessa viene interpretata dal nostro sistema visivo. Gli esseri umani possiedono tre tipi di coni, cellule sensoriali specializzate nell’elaborazione della luce, ognuna sensibile a un range di lunghezze d’onda specifiche:

• Coni sensibili al rosso (L-coni)

• Coni sensibili al verde (M-coni)

• Coni sensibili al blu (S-coni)

Questi tre tipi di coni permettono la visione tricromatica, che è alla base della nostra capacità di percepire una vasta gamma di colori. L’informazione proveniente da questi coni viene inviata al cervello, che interpreta le differenze nelle lunghezze d’onda come colori diversi.

La teoria dei colori: sintesi additiva e sottrattiva

La sintesi additiva riguarda la creazione di nuovi colori unendo diverse lunghezze d’onda di luce. È il processo utilizzato nei display elettronici e nelle luci a LED. I tre colori primari della sintesi additiva sono rosso, verde e blu (RGB). Quando questi colori vengono combinati in diverse proporzioni, si ottengono altri colori, come il bianco quando tutti e tre i colori primari sono mescolati in eguale misura.

Al contrario, la sintesi sottrattiva riguarda il mescolare pigmenti o coloranti, come nel caso delle pitture. In questo caso, i colori primari sono ciano, magenta e giallo (CMY). Quando i pigmenti vengono mescolati, assorbono (o sottraggono) diverse lunghezze d’onda della luce, producendo vari colori. La sintesi sottrattiva viene utilizzata nella stampa a colori, dove si combinano ciano, magenta e giallo per creare altri colori, mentre l’aggiunta del nero (CMYK) consente di ottenere tonalità più scure.

Il colore nel mondo naturale: pigmenti e riflessione della luce

Nel mondo naturale, i colori che vediamo sugli oggetti sono dovuti a come i materiali riflettono, rifrangono e assorbono la luce. Ad esempio, le piante sono verdi perché la clorofilla, il pigmento principale nella fotosintesi, assorbe la luce rossa e blu, riflettendo la luce verde. Il cielo appare blu per un fenomeno chiamato scattering Rayleigh: quando la luce solare interagisce con le molecole nell’atmosfera, la luce blu viene diffusa più di quella rossa, dando al cielo il suo colore caratteristico.

Colore e visione dei colori: dal daltonismo alla tetrachromia

La percezione del colore non è universale tra gli esseri umani. Una delle condizioni più conosciute è il daltonismo, un difetto visivo che rende difficile distinguere tra alcuni colori, in particolare il rosso e il verde. Il daltonismo è dovuto a una mutazione genetica che impedisce il corretto funzionamento di uno o più dei coni nell’occhio. Si stima che circa il 8% degli uomini e l’1% delle donne soffrano di questa condizione.

Al contrario, alcune persone hanno una condizione chiamata tetrachromia, che consente di percepire un quarto colore. Questa condizione è rara e avviene quando una persona ha quattro tipi di coni sensoriali invece dei consueti tre. Le tetraplogie sono in grado di distinguere sfumature di colore che sono impercettibili per la maggior parte degli altri esseri umani.

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La scienza del colore è un campo affascinante che abbraccia la fisica della luce, la biologia della percezione visiva e le leggi della sintesi dei colori. La comprensione dei meccanismi alla base del colore ci consente di apprezzare meglio la sua importanza in tutte le sfere della vita, dall’arte alla tecnologia, fino alle applicazioni quotidiane come il design e la pubblicità. La percezione del colore è, infatti, un processo complesso e ancora in evoluzione, che continua a stupirci ogni giorno.

Ivan Fedele, è attore (tra i protagonisti del programma televisivo “Made in Sud nel duo “Ivan e Cristiano”), autore, docente e formatore teatrale. In televisione ha lavorato, oltre a “Made in Sud” (Rai2), “Domenica in” (Rai1), “Fatti Unici” (Rai2), “Serata Felicità” (Sky1), ed altri programmi.

Al cinema ha partecipato ai film “Colpi di fortuna”, “Tramite amicizia”, “Succede anche nelle migliori famiglie” e “Benvenuti in casa Esposito”. È in radio con “Il Fattappost” e “Disconnesso”. A teatro con “Troppo Napoletano” e “Sala d’attesa”. 

 Ha pubblicato i romanzi “Non avrai altro dio all’infuori di Claudio”, “Mal comune e in mezzo Claudio” e “A tutto Claudio” con la Homo Scrivens, ha partecipato ai saggi musicali “Trent’anni di Oltre” e “Cinquant’anni di Questo piccolo grande amore” editi dalla Santelli. Autore del volume di didattica “Giochiamo al teatro” pubblicato dalla Editrice Mea con la quale ha pubblicato anche la fiaba per bambini “Pallina, la farfalla blu che non sorrideva” dedicata al l’autismo. Per la Readaction ha pubblicato “Le canzoni di Claudio Baglioni spiegate a mia figlia” a lungo primo nelle classifiche dei digital store e ora questo “Per cento e mille strade” che celebra il quarantennale dell’album “La vita è adesso” di Claudio Baglioni.

Ivan, il tuo percorso artistico e culturale è estremamente variegato. Sei attore, scrittore e formatore teatrale. Da dove nasce e come ti spieghi questa tua versatilità e ricerca?

A volte, scherzando ma non troppo, dico che faccio tanti lavori (l’attore, l’autore, lo speaker, il docente, il formatore teatrale, lo scrittore) solo perché a Napoli, la città dove vivo, con un solo lavoro non si campa! In realtà non c’è un vero motivo, se non una curiositas sempre viva. Una voglia di conoscere, di capire, di sapere che mi porta a esplorare vari campi alla ricerca di qualcosa che mi assomigli o che possa assomigliare a una sfumatura della mia anima. 

Il teatro è stato il tuo punto di partenza, la tua prima suggestione. Cosa rappresentano per te i profumi e i sapori del palcoscenico?

Il teatro è il più bel gioco del mondo. È il gioco ancestrale. È il “facciamo finta che io ero” con cui giochiamo da bambini. Il teatro è quindi il grande gioco in cui si può restare bambini. E poi è un luogo magico: lo studio del copione, le prove, l’emozione del debutto, un’opera che cresce replica dopo replica sperimentandosi insieme al pubblico. Il teatro è davvero una delle forme artistiche più soddisfacenti. E vive in qualsiasi luogo si attui: un palcoscenico, la strada, una casa… ed è come un rito. Una volta io e Cristiano Di Maio eravamo in cartellone in un teatro con una nostra opera intitolata “Sala d’attesa”. Una sera vennero a vederci solo due spettatori: una coppia belga. Eravamo imbarazzatissimi, ma il rito non poteva non attuarsi. E così quella sera recitammo solo per quelle due persone. Ricordo che i saluti finali li facemmo scendendo in platea per ringraziarli con un bacio. Però poi, inavvertitamente, ci mandarono tutti i belgi appartenenti al loro gruppo (frequentavano una scuola italiana per belgi). Ed erano tantissimi. Mi sono sempre chiesto che cavolo abbiano capito di quella nostra commedia. 

Come è avvenuto e quali effetti ha portato nella tua vita il passaggio alla televisione? 

Il passaggio alla tv è arrivato in maniera naturale. Qualcosina io e Cristiano già l’avevamo fatta, come qualcosa su delle emittenti regionali e sul nazionale qualche puntata di “Domenica in”. Poi nel 2006-07 iniziammo a partecipare al laboratorio comico del Teatro Tam di Napoli. Il laboratorio si chiamava “Sipariando” ed era diretto da Nando Mormone. Attraverso quel laboratorio, che andava in scena ogni domenica, si formò una nuova generazione di comici che fu protagonista del programma televisivo “Made in Sud”, dapprima in onda sul canale regionale Tele Napoli Canale 34, poi sul canale Comedy Central di Sky e infine dal 2012 su RAIDUE, prima in seconda serata e poi, in diretta, in prima serata per un bel po’ di anni. Un successone grande che ci portò a girare l’Italia in tournée con gli spettacoli live.

Hai scritto diversi libri, tra cui alcuni dedicati a Claudio Baglioni, di cui parleremo nel dettaglio più avanti. In questi lavori emerge un legame molto forte tra la musica e la narrazione. Qual è stato il motivo che ti ha spinto a scrivere di questo grande cantautore? È stato un impulso emotivo, una scelta più ragionata, una necessità?

Si inizia sempre parlando di ciò che si conosce bene. Avevo giù scritto due dei tre romanzi e avevo già partecipato alla scrittura dei libri su “Oltre” e su “Questo piccolo grande amore”. Un giorno mi contattò Michele Caccamo, poeta ed editore. Mi disse di aver letto alcune mie cose su Baglioni e di esserne rimasto colpito. Mi invitava ad analizzare le sue canzoni e a pubblicare con lui un libro. La proposta era estremamente stuzzicante, anche se non semplice. Mi rimboccai le mani e presi a scrivere questo volume analizzando e raccontando tutti i testi del cantautore romano dal 1967 a oggi. Il titolo è “Le canzoni di Claudio Baglioni spiegate a mia figlia” per due motivi. Il primo è che mi ero dato come compito di raccontarle in maniera semplice, quasi come se le stessi spiegando a un bambino. E poi perché mia figlia è nata il 16 maggio, proprio nel giorno del compleanno di Claudio Baglioni. E io e mia moglie ci conoscemmo proprio facendo la fila per comprare i biglietti per il concerto di Claudio. Quindi una sorta di fil rouge che attraversa le nostre vite e lega musica, narrazione, biografia. Per il quarantennale del disco “La vita è adesso”, Michele mi chiese di scrivere qualcosa. Nacque l’idea di “Per cento e mille strade” che inizialmente doveva contenere solo un mio racconto sul 1985, l’analisi dei brani, un’intervista a Celso Valli, produttore e arrangiatore del disco e la rassegna stampa dell’epoca. Poi Andrea Aloisi, un violinista, mi chiese di mettere il suo scritto nel libro. La stessa cosa fece Gerlando Fabio Sorrentino col suo saggio. Da qui divenne una sorta di festa con tanti amici a parteciparvi.

Nella trilogia “Non avrai altro Dio all’infuori di Claudio”, “Mal comune e in mezzo Claudio” e “A tutto Claudio”, scritti con tua moglie Rosa Alvino, la musica di Baglioni diventa quasi un filo conduttore nelle vite dei protagonisti. Quanto di autobiografico c’è in questa storia? Hai attinto a esperienze personali o hai costruito il racconto basandoti sulle testimonianze dei fan? 

I volumi sono stati pubblicati dalla Homo Scrivens di Aldo Putignano, un galantuomo che ringrazio sempre, perché è stato il primo a credere in me, il primo a pubblicare un mio libro. Sono tre romanzi romantici, ma molto ironici.

I protagonisti sono Sara, donna pragmatica e razionale, e Luca, sfegatato fan di Claudio Baglioni che vive di dischi, concerti, viaggi al seguito del suo idolo e compagnie esclusivamente baglioniane. Luca e Sara sono due opposti e le loro dinamiche scateneranno situazioni esilaranti. E sì, sono romanzi autobiografici. C’è tantissimo della nostra storia d’amore e anche di tutti i nostri amici baglioniani. Anche se è molto romanzato restano “atti privati in luogo pubblico”. È tutto vero. Anche i personaggi. Ad esempio Paolone, un personaggio dei romanzi, ha un nome e un cognome nella realtà: Giuseppe Hasson. 

Il tuo libro “Le canzoni di Claudio Baglioni spiegate a mia figlia” analizza i testi delle sue canzoni dal 1967 a oggi. Cosa hai scoperto, rileggendoli in profondità? C’è qualche brano che ha rivelato un significato nuovo, magari inaspettato, rispetto a quello che avevi percepito ascoltandolo negli anni?

E’ uno studio che ho iniziato dagli anni ’90 sul news group it.fan.musica.baglioni. Lì provavamo ad analizzare e studiare, con criteri oggettivi, i testi di Claudio Baglioni. Il che vuol dire non esprimere un concetto soggettivo (“Questa frase mi dà la sensazione…”), ma cercare di ricostruire attraverso le fonti (libri, interviste, frasi dette ai concerti) il significato oggettivo di un testo. E per alcuni testi, soprattutto quelli della cosiddetta trilogia, ovvero gli album usciti negli anni ’90, non è stato affatto facile. Per scrivere il libro ho approfondito tante cose. Mi ha raccontato, ad esempio, Pasquale Minieri (il braccio destro di Claudio nella preparazione del disco) di come la parte musicale di “Stelle di stelle” fu registrata completamente al buio affinché i tre musicisti, non avendo punti di riferimento visivi, esprimessero un sound più abbozzato e meno definito. Oppure che la parte musicale di “Mille giorni di te e di me” nacque nel 1978 come mi ha raccontato Walter Savelli, storico tastierista di Baglioni. O, ancora, che il finale de “Le donne sono” è ispirato a un vecchio film con Nino Manfredi. Ho avuto la fortuna di poter raccontare di questo libro in un convegno a Palmi (CS), proprio insieme a Claudio Baglioni. Un’esperienza indimenticabile.

“Per cento e mille strade”, invece, come esprime il sottotitolo del libro, racconta la straordinaria storia de “La vita è adesso”, ed è uscito lo scorso 13 marzo. È uno dei dischi di Baglioni che maggiormente evoca e racconta immagini e storie. Raccontaci di questo viaggio… 

Poter mettere il naso nel dietro le quinte di un capolavoro come “La vita è adesso” è stato il più grande regalo che Michele Caccamo e la sua Readaction potessero farmi. Un lavoro pazzesco che ha fatto la storia. E’ stato incredibile venire a conoscenza che “Uomini persi” aveva ritornello e strofa invertite, che inizialmente “E adesso la pubblicità” aveva un “vestito” rock, che Baglioni incideva anche da steso e che “La vita è adesso” stava per avere un altro inciso fino a poche ore prima della registrazione. Mi chiedi di raccontarti di questo viaggio. Ebbene per me è stato un viaggio nel tempo, come se fossi tornato per alcune settimane nel 1985. 

Ma il tuo lavoro di scrittore non si ferma alla musica. Hai pubblicato anche “Giochiamo al teatro”. Cosa ti ha spinto a scriverlo?

Dal 1999 lavoro come formatore teatrale. In questo volume (edito dalle Edizioni MEA di Antonio Esposito, Gertrude Vollaro, Franco Simeri e Tonino Scala) ho voluto raccogliere il mio metodo. Nel libro c’è tutto il necessario per approntare un laboratorio teatrale “fai da te” per Infanzia e Primaria. Ci sono giochi, esercizi, metodi e perfino tre copioni teatrali. Ho portato i miei laboratori teatrali in centinaia di scuole. Adesso riesco a farlo un po’ di meno, ma ho sempre i miei corsi di teatro a Napoli. Sempre col mio metodo “Giochiamo al teatro”. La stessa MEA, sempre attenta al sociale, ha pubblicato anche “Pallina, la farfalla blu che non sorrideva”, una mia favola per bambini che ha per tema l’autismo. 

Oltre al teatro, alla televisione e alla scrittura, ti occupi anche di progetti innovativi, come la rubrica “DISCOnnessi” su SocialTalkWeb. Ci racconti di questa esperienza?

“Disconnessi” è un mio format che si concreta nel parlare di un disco in ogni puntata. E’ un talk dove si racconta un album musicale. Sperimentato sul Web, nelle radio, dal vico. Ci sono state puntate su “Persone silenziose” di Luca Carboni, “Strada facendo” di Claudio Baglioni, “Parsifal” dei Pooh, “Liberi liberi” di Vasco Rossi. E poi Zucchero, Franco Battiato, Pino Daniele, Samuele Bersani, Carmen Consoli, Niccolò Fabi, Francesco Guccini, Lucio Dalla, ecc. Conversando con amici, addetti ai lavori o addirittura con chi, in quei dischi, ci aveva suonato.

Guardando al futuro, c’è un progetto artistico che sogni di realizzare?

Mi piacerebbe poter scrivere sempre più, occuparmi sempre più di musica. Il sogno sarebbe poter fare lunghe interviste ai cantanti la cui musica amo. Ma capisco che è un sogno grosso e difficilmente realizzabile. Sono stato folgorato dai libri intervista (le famose “Conversazioni con…”) del grande, inarrivabile e compianto Massimo Cotto.

Cosa significa per te essere un “artista” oggi?

Poter creare cose che assomiglino alla propria anima.

Per concludere, il tema di questo numero è dedicato ai colori, cercando di cogliere almeno alcune delle infinite sfumature e percezioni. Cosa rappresentano per te? 

I colori sono la vita nelle sue varie sfumature. Oggi vengono usati anche per contraddistinguere e differenziare l’emozioni. Il mio colore preferito è il blu. Quando ero bambino era il verde. Mi danno serenità il rosa e l’azzurro. Temo un po’ il rosso. Non so perché. Ad ogni modo sogno una vita sempre a colori. E non, come canta Baglioni in una sua canzone, “Storie in bianco e nero dove abbiamo solo un ruolo fisso da comparsa”.

Il colore è uno degli strumenti più potenti del cinema, in grado di trasmettere emozioni, significati nascosti e messaggi subliminali. Alcuni film ne fanno un uso particolarmente marcato, sia nella palette visiva che nella trama stessa.

Ecco dieci pellicole nelle quali il colore gioca un ruolo fondamentale.

1. Rosso come il cielo (2006)

Questo film italiano di Cristiano Bortone racconta la storia di Mirco, un bambino che perde la vista e scopre un nuovo modo di percepire il mondo attraverso i suoni. Il rosso, nel titolo e nella simbologia del film, rappresenta la passione, la creatività e il desiderio di superare i limiti imposti dalla vita.

2. Tre colori: Blu, Bianco, Rosso (1993-1994)

La trilogia di Krzysztof Kieślowski è interamente costruita attorno ai colori della bandiera francese, ognuno dei quali simboleggia un ideale rivoluzionario:

  • Blu per la libertà e la solitudine (“Tre colori: Blu”).
  • Bianco per l’uguaglianza e il fallimento (“Tre colori: Bianco”).
  • Rosso per la fraternità e il destino (“Tre colori: Rosso”).

3. Il colore viola (1985)

Steven Spielberg adatta il romanzo di Alice Walker, raccontando la difficile esistenza di una donna afroamericana nei primi decenni del ‘900. Il viola è un simbolo di dolore, resistenza e speranza, un colore che accompagna la protagonista nel suo viaggio verso l’emancipazione.

4. Her (2013)

Il film di Spike Jonze utilizza una dominante cromatica calda, con il rosso e l’arancione che avvolgono il protagonista in un’atmosfera malinconica e intima. Il colore non è solo un dettaglio estetico, ma un mezzo per esprimere il senso di solitudine e connessione della storia d’amore tra un uomo e un’intelligenza artificiale.

5. The Neon Demon (2016)

Diretto da Nicolas Winding Refn, questo film fa un uso intenso dei colori, specialmente il neon e il rosso sangue, per raccontare il mondo ossessivo e spietato della moda. I colori vibranti diventano una metafora dell’illusione, del pericolo e della decadenza.

6. Il favoloso mondo di Amélie (2001)

Jean-Pierre Jeunet utilizza una palette cromatica dominata da verdi, rossi e gialli saturi, creando un’atmosfera fiabesca e nostalgica. I colori riflettono la visione ottimista e sognante della protagonista, rendendo il film un’esperienza visiva unica.

7. Sin City (2005)

Basato sulla graphic novel di Frank Miller, “Sin City” adotta un’estetica noir in bianco e nero, interrotta da dettagli di colore che enfatizzano elementi chiave della storia, come il rosso del rossetto o il giallo della pelle di un personaggio. Questo contrasto visivo esalta il tono dark e iper-stilizzato del film.

8. Joker (2019)

Il colore accompagna l’evoluzione del personaggio di Arthur Fleck. La palette iniziale è desaturata e cupa, riflettendo la sua condizione di emarginato. Man mano che abbraccia la sua nuova identità di Joker, i colori diventano più accesi, con verdi e rossi vibranti che segnano la sua trasformazione definitiva.

9. The Grand Budapest Hotel (2014)

Wes Anderson è noto per il suo uso distintivo del colore, e “The Grand Budapest Hotel” ne è un esempio straordinario. Con palette pastello e accostamenti cromatici armoniosi, il film utilizza il colore per rafforzare il tono surreale e nostalgico della narrazione.

10. Enter the Void (2009)

Gaspar Noé utilizza una palette di colori psichedelici per immergere lo spettatore in un viaggio allucinatorio. Il neon, il viola, il rosso e il giallo pulsante diventano strumenti visivi che riflettono la mente alterata del protagonista e l’atmosfera surreale del film.

Il colore non è solo un fenomeno fisico o psicologico, ma ha anche un’importante valenza culturale. Ogni società, civiltà e religione attribuisce significati diversi ai colori, utilizzandoli per esprimere valori, emozioni e tradizioni. Il colore può essere visto come un linguaggio visivo universale, ma i suoi significati possono variare notevolmente da una cultura all’altra. In questo articolo esploreremo come il colore venga percepito e utilizzato in differenti contesti culturali, storici e religiosi.

Il simbolismo del colore nelle diverse culture

Il rosso

Il rosso è uno dei colori più potenti in molte culture. In Occidente, è spesso associato all’amore, alla passione, ma anche al pericolo e alla violenza. Nella cultura cinese, invece, il rosso è simbolo di felicità, prosperità e buona fortuna. Per questo motivo, il rosso è un colore dominante durante il Capodanno cinese e in altre celebrazioni tradizionali. Nel mondo islamico, il rosso è spesso legato all’idea di sacralità e forza.

Il blu

Il blu, in molte culture occidentali, è considerato il colore della tranquillità, della serenità e dell’armonia. Tuttavia, nella cultura indiana, il blu è associato al dio Krishna ed è simbolo di divinità e potere. In Giappone, il blu rappresenta la natura e il cielo, e viene utilizzato anche per evocare una sensazione di pace e distensione. In contrasto, nel Medio Oriente, il blu può essere visto come un colore di protezione e viene spesso utilizzato per allontanare gli spiriti maligni.

Il giallo

Il giallo ha diverse connotazioni a seconda della cultura. In molti paesi occidentali, è visto come un colore di ottimismo, energia e gioia. Tuttavia, in alcune culture asiatiche, il giallo è un colore associato alla saggezza e alla ricchezza. In India, il giallo è il colore di Vishnu, una delle principali divinità induiste. In alcuni contesti europei, il giallo è anche legato al tradimento e all’inganno, come nel caso delle stelle gialle indossate dagli ebrei durante l’occupazione nazista.

Il verde

Il verde è il colore della natura e della rinascita. È associato alla vita e alla fertilità in molte culture del mondo. Nella cultura islamica, il verde è particolarmente sacro ed è spesso usato nei luoghi di culto. In alcune culture occidentali, il verde è il simbolo della speranza, ma può anche essere legato all’invidia o alla gelosia (come nel detto “essere verdi di rabbia”). In altre tradizioni, come quella celtica, il verde rappresenta il legame con la terra e la magia.

Il bianco

In molte culture occidentali, il bianco è simbolo di purezza, innocenza e novità. È il colore tradizionale dei matrimoni in molte società occidentali, ma ha anche una forte associazione con il lutto in molte culture orientali, come in Cina e in Giappone, dove il bianco è il colore della morte e della sepoltura. Nella cultura cristiana, il bianco rappresenta la luce divina e la purezza dell’anima, ma in molte religioni africane e in alcune tradizioni asiatiche, il bianco è considerato un colore di sospetto o disgrazia.

Il nero

Il nero è tradizionalmente legato al lutto e alla morte, ma anche all’eleganza e al potere in molte culture. In Occidente, il nero è il colore dei funerali, ma è anche simbolo di raffinatezza nella moda, come nel caso dei classici “piccoli abiti neri” creati da Coco Chanel. Nella cultura africana, il nero è un colore che rappresenta la terra madre, l’origine della vita e la forza spirituale. Nella cultura giapponese, invece, il nero è legato alla nobiltà e all’onore.

I colori nelle religioni e nelle tradizioni spirituali

In molte religioni, il colore gioca un ruolo fondamentale nei rituali, nei vestiti liturgici e nelle opere d’arte. Ad esempio, nel cristianesimo, il porpora è il colore associato alla penitenza e alla preghiera durante la Quaresima, mentre il bianco è usato per celebrare la Pasqua e altre festività cristiane.

Nel Buddhismo, il colore arancione è sacro, simbolizzando la illuminazione e la rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per rappresentare la loro dedizione al cammino spirituale. In Hinduismo, il safran è un colore di grande valore spirituale e viene utilizzato per rappresentare la purezza e la devozione.

Il colore nel design e nella moda culturale

Nel design moderno, i colori vengono scelti con cura per evocare determinati messaggi e per rispecchiare le tradizioni culturali. Ad esempio, il rosso è spesso usato nel design cinese per evocare prosperità, mentre il blu in contesti europei ed americani è simbolo di fiducia e serietà. La moda, poi, è strettamente legata alla cultura e ai colori che vengono scelti per rappresentare particolari identità sociali o etniche.

In molte culture africane, i colori e i motivi delle stoffe hanno un significato profondo. I colori delle stoffe Kente, ad esempio, variano a seconda della tribù e della storia personale di chi le indossa, mentre in India il sari è tradizionalmente indossato in vari colori che segnalano il periodo della vita della donna (ad esempio, il rosso per il matrimonio, il bianco per il lutto).

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Il colore è un linguaggio visivo universale che, però, assume significati unici e variegati a seconda del contesto culturale. Dai simbolismi religiosi alle tradizioni popolari, passando per il design e la moda, il colore è un potente strumento per comunicare valori, emozioni e identità culturale. È fondamentale comprendere il significato dei colori in differenti contesti per apprezzare appieno la loro profondità e la loro bellezza nelle diverse tradizioni e culture.

L’universo è davvero così nero come sembra? O forse è il Christian Grey del colore, e noi siamo troppo timidi per vedere le sue mille sfumature? In effetti, l’universo è una sorta di “trip cosmico” di colori, ma purtroppo i nostri occhi non sono equipaggiati per percepirne tutta la magnificenza.

Ma niente paura, come in una storia d’amore complicata, ci pensano gli astronomi a rivelarci ciò che non vediamo con i loro telescopi superpotenti. Pensiamo alla luce come onde che viaggiano nello spazio. A seconda della lunghezza di queste onde, vediamo diversi tipi di luce. Il nostro occhio è limitato allo spettro visibile, cioè a quella piccola fetta di luce che va dal viola al rosso. Ma ci sono lunghezze d’onda più corte (raggi X, ultravioletto) e più lunghe (infrarossi, onde radio) che possiamo solo “intendere”, ma non percepire.

Ecco dove entrano in gioco i telescopi, che possiamo considerare come occhi super-dotati. Questi strumenti riescono a vedere qualcosa che noi non possiamo, come nebulose, stelle in formazione, buchi neri e galassie lontane. Ma attenzione: quando guardiamo le immagini che ci arrivano dallo spazio, non stiamo vedendo “fotografie” reali. La prima impressione che otteniamo è sempre in bianco e nero, e sono gli astronomi che, con un po’ di “magia” tecnologica, assegnano colori alle lunghezze d’onda che i nostri occhi non possono catturare. E sì, quelle immagini spettacolari che vediamo sono spesso “falsi colori”, creati per renderci visibili le sfumature di radiazione non percepibili.

Ma, attenzione, non tutti i colori che vediamo sono inventati. Alcuni sono reali, o quasi. Quando osserviamo un corpo celeste che emette radiazioni che possiamo vedere, come una stella che brilla nel nostro spettro, vediamo colori “veri”, o almeno che rispecchiano abbastanza da vicino ciò che sarebbe percepibile. Ma se il corpo celeste emette radiazioni in una parte dello spettro che non vediamo (come i raggi X o gli infrarossi), allora entrano in scena i “colori falsi”. E qui la cosa si fa interessante.

Il colore non è solo estetica. Ogni colore ci racconta una storia. Marte è rosso perché la sua superficie è piena di ossidi, mentre le stelle blu sono giovani e quelle rosse più vecchie. Un corpo che si avvicina a noi potrebbe apparire più “azzurro”, mentre uno che si allontana si farà più “rosso”. E quando vediamo una nebulosa, i colori sono come le etichette di una mappa spaziale: l’idrogeno brilla di rosso, l’ossigeno si tinge di blu e lo zolfo… beh, lo zolfo è verde, perché… perché sì, l’universo ha senso dell’umorismo, e l’alternativo non è mai fuori posto.

I buchi neri, quelli misteriosi e affascinanti, vengono rappresentati in una palette di arancioni e gialli. Ma non lasciatevi ingannare: i buchi neri non sono colorati come un tramonto, ma queste “sfumature” ci parlano della radiazione che emettono, di come la materia si comporta intorno ad essi.

Quindi sì, che siano colori reali o creati artificialmente, l’universo è un’opera d’arte in continua evoluzione. È un grande
party cosmico, dove ci sono luci naturali (stelle e pianeti) e altre che gli astronomi “accendono” per farci vedere quei dettagli che altrimenti ci sfuggirebbero (come nebulose, buchi neri e galassie lontane).

In conclusione, gli astronomi non inventano i colori, li traducono per noi. Perché, alla fine, la domanda è: chi è il vero Christian Grey dell’universo? Gli astri o chi ci aiuta a vederli in tutta la loro, meravigliosa, complessità? Ma, come in tutte le storie complicate, la risposta è… dipende dai gusti. Preferite l’intrigo del genio creativo o l’abilità di chi riesce a fare
brillare ogni dettaglio?

Tra espiazione dei peccati e avvicinamento all’ignoto

Quest’anno il periodo della Quaresima cristiana coincide con il Ramadan, nono mese del calendario lunare dell’Islam, in cui i credenti digiunano dall’alba al tramonto. Quello del digiuno è un rituale che accomuna culture e religioni molto differenti, fin dalla notte dei tempi. Si digiunava nell’antica Grecia prima di consultare gli oracoli, si astengono dal cibo i monaci buddisti per la meditazione e anche le tre grandi religioni monoteiste – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – largamente diffuse nel Mediterraneo, prevedono periodi di digiuno. La privazione volontaria del cibo, secondo le tre religioni monoteiste nate in quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, rappresenta uno strumento per i fedeli per coltivare la loro spiritualità, e si affianca talvolta ad altre limitazioni e privazioni per una purificazione non solo fisica, ma anche mentale. Una comunanza di rituali religiosi ma anche culturali dei Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum che testimonia un sostrato comune, talvolta dimenticato o non utile all’agenda degli estremismi. 

Nella tradizione cristiana, il digiuno inizia all’indomani del Carnevale e dura 40 giorni, fino alla Pasqua. I 40 giorni della Quaresima ricordano le settimane trascorse da Gesù nel deserto, senza cibo e né acqua, per resistere alle tentazioni del demonio. Si tratta di un periodo di ascesi e di ricerca di Dio, durante il quale il credente sceglie se privarsi di cibo o compiere fioretti e buone azioni. Durante la Quaresima, i cristiani non mangiano la carne il venerdì e digiunano il mercoledì delle Ceneri, ovvero il giorno dopo Carnevale, e il venerdì santo, due giorni prima di Pasqua.

Nell’Ebraismo, il digiuno (ta’anit) ha una valenza penitenziale ed espiatoria. Il giorno per eccellenza del digiuno per gli ebrei è lo Yom Kippur (Giorno dell’espiazione), in cui si espiano i peccati commessi durante l’anno. Lo Yom Kippur cade dieci giorni dopo il Capodanno (Rosh Ha-shanah), normalmente tra settembre e ottobre del calendario gregoriano. I credenti digiunano dal tramonto al calar del sole del giorno seguente, durante il quale non assumono cibo e bevande, acqua inclusa, non hanno rapporti sessuali e seguono le restrizioni abituali dello Shabbat (il giorno di festa che cade dal tramonto del venerdì fino al tramonto del sabato).

Nell’Islam, il digiuno (sawm) coincide con il nono mese lunare del calendario, Ramadan, e rappresenta il periodo in cui, secondo il Corano, il profeta Maometto avrebbe ricevuto la rivelazione del testo sacro da Allah tramite l’arcangelo Gabriele. Il digiuno è uno dei cinque pilastri dell’Islam, ovvero precetti obbligatori per un buon musulmano. Durante il Ramadan, i credenti adulti e in salute digiunano dall’alba al tramonto per tutto il mese. Sono previste esenzioni, in caso di malattia o impossibilità, ma con obbligo di recupero appena si torni in condizioni di normalità. Durante il digiugno non si possono assumere cibi né bevande di alcun genere, sono proibiti anche rapporti sessuali e fumo. Nell’Islam non vi sono propositi espiatori o di pentimento, ma di autocontrollo su desideri fisici ed emozioni.

I colori, con la loro potente simbologia, svolgono un ruolo fondamentale nelle tradizioni religiose e culturali di tutto il mondo. Ogni religione e cultura attribuisce significati profondi a determinati colori, che spesso sono legati a valori spirituali, credenze e pratiche rituali. L’uso dei colori non solo aiuta a creare un’atmosfera sacra, ma serve anche come strumento per comunicare concetti astratti come la divinità, la moralità, la purificazione e la protezione. In questo articolo esploreremo come i colori vengono interpretati nelle religioni principali del mondo e come sono stati utilizzati nei riti e nelle tradizioni.

Il significato dei colori nel Cristianesimo

Nel Cristianesimo, i colori svolgono un ruolo simbolico profondo, soprattutto nelle liturgie, nell’arte sacra e nei vestiti liturgici. Ogni colore ha un significato specifico, legato a particolari periodi dell’anno liturgico e a eventi religiosi significativi.

Bianco

Il bianco è il colore della purezza e della luce divina. È utilizzato nelle celebrazioni liturgiche più gioiose, come il Natale, la Pasqua e i matrimoni. Il bianco rappresenta la risurrezione, la gloria e la gioia.

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, simbolo di sacrificio e passione. Viene utilizzato durante Pentecoste, la Settimana Santa e nelle celebrazioni dei martiri. Esso simboleggia anche la forza spirituale e l’amore divino.

Verde

Il verde è il colore della speranza, della vita eterna e della rinascita spirituale. È il colore della crescita e viene usato durante il periodo ordinario dell’anno liturgico, simboleggiando la crescita e la fede quotidiana.

Viola

Il viola è simbolo di penitenza, preghiera e umiltà. Viene utilizzato durante il periodo di Avvento e la Quaresima, rappresentando il tempo di preparazione spirituale e riflessione prima delle festività principali.

Giallo

Il giallo, come simbolo di luce, è associato al sole e alla gloria di Dio. Sebbene non venga usato frequentemente nelle liturgie, è comunque presente in molte rappresentazioni artistiche, come nell’iconografia dei santi.

Il significato dei colori nell’Induismo

Nell’Induismo, il colore ha un’importanza profonda, essendo legato alla spiritualità e alle divinità. Ogni colore è spesso associato a uno degli dei principali, a uno stato di coscienza o a uno stadio del ciclo karmico.

Arancione

Il colore arancione è strettamente legato alla divinità e alla spiritualità, ed è il colore tradizionale dei sacerdoti e dei monaci. È associato al dio Vishnu, alla conoscenza e alla realizzazione spirituale. Inoltre, l’arancione è un colore che simboleggia la saggezza e la rinuncia.

Rosso

Il rosso è il colore della fertilità, della passione e della prosperità. In molte cerimonie religiose, specialmente nei matrimoni, il rosso rappresenta la vita e la procreazione. È anche un colore sacro che simboleggia la protezione e viene spesso usato nei rituali di benedizione.

Bianco

Il bianco rappresenta la purezza, la pace e la trasparenza. In alcune pratiche religiose, il bianco è indossato durante i riti di purificazione e nei momenti di meditazione per rappresentare la purezza del cuore e della mente.

Verde

Il verde è simbolo di vita e fertilità. È associato al dio Krishna, ed è utilizzato nei templi per simboleggiare l’armonia con la natura e la divinità.

Il significato dei colori nel Buddhismo

Nel Buddhismo, i colori sono spesso utilizzati per rappresentare i vari aspetti della pratica spirituale e della via verso l’illuminazione. Ogni colore è legato a specifici insegnamenti e valori.

Arancione

Come nell’Induismo, l’arancione è un colore sacro anche nel Buddhismo, associato alla purezza mentale e alla rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per simboleggiare la loro dedicazione alla spiritualità.

Giallo

Il giallo rappresenta la conoscenza, la saggezza e l’illuminazione. È il colore che i monaci tibetani usano durante i rituali e simboleggia la ricerca della verità e la riconciliazione con il mondo.

Bianco

Il bianco nel Buddhismo è il simbolo di pace e purificazione. È il colore della consapevolezza e della serenità che si raggiungono attraverso la meditazione.

Blu

Il blu è associato al Buddha Amitabha e simboleggia l’infinito e l’immortalità. È anche un colore che rappresenta la profondità della meditazione e la calma interiore.

Il significato dei colori nell’Islam

Nel Islam, i colori hanno un’importanza simbolica che si lega alla spiritualità e alla bellezza divina. Mentre non vi è una codifica rigorosa dei colori, alcune tradizioni li associano a concetti fondamentali.

Verde

Il verde è considerato il colore più sacro nell’Islam, spesso associato al profeta Maometto. È simbolo di paradiso, protezione divina e benedizioni. È un colore che evoca pace e armonia ed è comunemente utilizzato nelle moschee e nelle bandiere dei paesi musulmani.

Bianco

Il bianco rappresenta la purezza e l’innocenza. È il colore che viene indossato durante il pellegrinaggio a La Mecca (Hajj), dove i pellegrini indossano il “ihram”, un semplice abito bianco per simboleggiare l’uguaglianza davanti a Dio.

Nero

Il nero ha un significato importante, specialmente nella Kaaba a La Mecca, che è ricoperta da un drappo nero chiamato Kiswah. Il nero è associato alla potenza divina e alla misteriosità di Allah.

Il significato dei colori nel Judaísmo

Nel Judaismo, i colori hanno un’importanza simbolica legata principalmente alla spiritualità e alla purificazione. Alcuni colori hanno un forte legame con i riti religiosi e i simboli ebraici.

Blu

Il blu è uno dei colori più sacri nel giudaismo e si trova nel “tzitzit”, le frange rituali che gli ebrei indossano. Esso rappresenta la presenza divina e il legame con Dio. È anche il colore che simboleggia l’infinito e l’eternità.

Bianco

Il bianco è il colore della purezza e della santità. Viene indossato durante Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, e durante le celebrazioni più solenne come il Shabbat.

***

I colori hanno un significato profondo e variegato nelle diverse religioni e tradizioni spirituali. Ogni colore, con le sue sfumature e il suo simbolismo, è un mezzo per comunicare idee spirituali universali, dai valori di purezza e amore alla protezione divina e all’illuminazione. Comprendere il significato dei colori nelle tradizioni religiose aiuta a apprezzare il loro potere spirituale e il ruolo che svolgono nel nostro rapporto con la divinità e l’universo.

Parlando di colori si potrebbe affrontare la tematica da diverse prospettive, la natura, l’arte, l’estetica, la fisica, la moda, solo per citarne alcune, ma i colori sono il mondo. Come riportato nella Creazione, (Genesi I,3), Dio disse «Sia la luce!». E la luce fu. E il mondo fu a colori.

Per chi ha vissuto l’epoca della televisione in bianco e nero che, ad un certo punto ha portato in casa il mondo a “colori”, il tema è particolarmente affascinante. Negli stessi anni Ottanta veniva firmata anche la campagna di Oliviero Toscani, il grande fotografo scomparso recentemente, “tutti i colori del mondo”, che trasformava il noto marchio in United Colors of Benetton.

Il mondo diventava sempre più globalizzato e contestualmente sempre più a colori. Con nuove e originali modalità di comunicazione, i colori tingevano in un grande affresco irenico, diversità e contrasti, avvolgendo tutto in un ideale arcobaleno. 

Eravamo ovviamente in un contesto nazionale ed internazionale di espansione consumistica e di edonismo, molto diverso da quello odierno che assomiglia più a un ritorno al bianco e nero, che crea un senso di sospensione, segno dei tempi che stiamo vivendo.

Il drappo con i colori dell’arcobaleno è la più nota tra le bandiere della pace, usata durante la prima edizione della marcia per la Pace Perugia-Assisi del 1961 da Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento. Fu ispirata da simboli simili utilizzati in manifestazioni del mondo anglo-americano, dove ebbe come sponsor, tra gli altri, il filosofo, matematico e attivista Bertrand Russell.

La psicologia dei colori è un’altra interessante prospettiva, sia perché questi possono stimolare la mente sia perché possono avere capacità curative, come nella medicina alternativa della cromoterapia. 

I colori vengono sempre più sfruttati in modo sofisticato anche dalle tecniche di neuromarketing, per creare “ambienti” e sensazioni favorevoli, in grado di incidere sulle nostre emozioni e sulle nostre scelte.

Jung, fondatore della psicologia analitica, studiò a fondo i colori ma, più in generale diede grande importanza all’immaginale come funzione di mediazione tra conscio e inconscio. Studiò a lungo i mandala, introducendoli anche in campo terapeutico, scrivendo diversi saggi e disegnando le immagini interiori che scaturivano dal suo inconscio (dèi, demoni, mostri, donne) nel Libro Rosso (il Liber Novus), a cui lavorò per diversi anni dal 1913 al 1930, periodo in cui cercò di risolvere la sua crisi esistenziale e ritrovare il contatto con sé stesso. 

Nell’opera Psicologia e Alchimia, pubblicata nel 1944, dopo svariati anni di studio di testi alchemici, Jung affronta l’analisi del concetto alchimistico d’immaginazione. Il significato esoterico dell’alchimia non è infatti quello della trasformazione della materia, attraverso la ricerca della pietra filosofale, ma è metaforicamente la trasformazione del Sé e lo sviluppo spirituale che per Jung è il principio di individuazione. Se si percorre il processo di individuazione a tappe di Jung, in analogia al processo alchemico, possiamo identificare i seguenti passaggi associabili ai colori:

la prima tappa, corrispondente alla Nigredo (Putrefazione) degli alchimisti, caratterizzata dall’archetipo dell’Ombra e dal colore nero che indica ansia, angoscia, depressione ma che coincide con l’inizio della trasformazione interiore;

la seconda tappa, corrispondente all’Albedo (Purificazione) alchemica, è caratterizzata dall’incontro con l’archetipo dell’Anima per il maschio e l’Animus per la donna e dal colore bianco che simboleggia il risveglio, la rinascita;

la terza tappa, corrispondente alla fase alchemica intermedia detta Citrinitas (Illuminazione), è caratterizzata dall’incontro con il Vecchio Saggio, corrispettivo maschile della figura Grande Madre e rappresentata dal colore giallo, stante a simboleggiare la saggezza e la serenità d’animo;

la quarta tappa, la Rubedo in alchimia, è caratterizzata dall’incontro con l’archetipo del Sé quale summa del percorso di individuazione (unione di conscio e inconscio), rappresentata dal colore rosso, come gioia e pienezza.

Secondo le teorie di Jung, esistono immagini primordiali, denominate archetipi, che hanno a che vedere con una sedimentazione naturale e storica di processi energetici che l’uomo si ritrova ad operare anche in modo involontario tra cui, oltre le immagini, anche i simboli e i colori, che evocano aspetti universali della psiche umana. Dai suoi vari scritti, emergono le seguenti corrispondenze:

il bianco assegna uno speciale requisito di «somiglianza divina» tanto che l’albino viene considerato sacro in molte comunità primitive;

il nero, legato alla morte e al lutto, ma anche alla rinascita e al rinnovamento. Il nero, come ombra, può rappresentare la fine di un periodo così come la possibilità di una trasformazione interiore;

Il rosso, simbolo del sentimento e della passione può essere associato all’energia vitale o alla violenza;

Il blu, indica spesso la funzione del pensiero, e può simboleggiare la tranquillità, la spiritualità o la ricerca di verità;

Il verde, indica la potenziale tendenza all’azione positiva vitale, è spesso legato alla crescita, alla natura e alla speranza.

Molte religioni e filosofie orientali e più in generale diverse culture, associano ai colori, emozioni specifiche. 

Queste proprietà sono suffragate in modo più completo ed approfondito anche dagli studi più moderni delle neuroscienze, che mettono in luce le relazioni tra percezioni sensoriali, emozioni e cognizioni.

La prospettiva che lega colori ed emozioni è particolarmente interessante, perché i colori posso influenzare le nostre tonalità emotive e aiutare a riequilibrare i nostri stati d’animo, migliorando il benessere psico-fisico. 

Associare emozioni ai colori non è un gioco, ma un metodo utile per il benessere, la crescita personale e la trasformazione del Sé, entrando in risonanza con il mondo stesso, un mondo a colori.

Come spesso mi accade, qualche giorno fa vengo colto da un improvviso senso di evasione, voglia di abbandonare per un paio d’ore le mura che circondano il mio lavoro, i miei progetti, i miei studi.
Me ne vado in centro, a gustarmi la mia città, la sua storia, i suoi vicoli, riassaporando l’aria della sua profondità nascosta… Mi fermo a contemplare i fori imperiali, dall’alto della Rupe Tarpea.
Si sta facendo sera, si accendono le luci, Roma antica si illumina con le luci che Roma contemporanea le offre… e sembra che da un momento all’altro spuntino fuori due antichi innamorati che passeggiano mano nella mano, uno studioso preso dalle pagine latine di un libro, un mendicante in cerca di un sesterzio… 

In realtà… qualcuno sotto i miei occhi si muove davvero… è un vecchio gatto randagio. Solo e silenzioso, ma anche un po’ minaccioso, gira zoppicando tra i ruderi del suo territorio, e sembra che sia lì da duemila anni, che sappia tutto di tutti… L’espressione del suo muso è quella di un micio saggio, che dal piccolo della sua altezza ne ha viste tante… tra corteggiamenti amorosi e sfide all’ultimo graffio….

Si sta facendo tardi, devo finire l’editoriale da inviare a Condi-Visioni. I miei passi riprendono la via di casa. Mi avvicino verso la metropolitana, quando all’improvviso un rumore… no… un suono familiare mi sorprende… Mi volto sapendo cosa avrei rivisto… È un vecchio autobus. E i miei pensieri diventano ricordi… il suono che accompagnava i miei primi giorni di scuola, quando con mamma andavo a raggiungere lo 01 dal lungomare di Ostia…
A bordo c’è solo l’autista, e il vecchio autobus cammina lento, è stanco, costringe le automobili alle sue spalle a mettersi in coda…. ad andare piano, senza fretta. Sembra che un po’ si diverti ad indispettire le sue giovani colleghe… e un po’ sembra che se ne rammarichi.

In quel momento ho immaginato quante strade abbia percorso, quanto catrame calpestato, a quanti appuntamenti avrà accompagnato… quante ansie, speranze, segreti, paure, pensieri, ricordi, passioni, sogni, dubbi, sguardi, parole, saluti veloci, insulti gratuiti, gesti prepotenti… ha trasportato!

In quel vecchio autobus… quanti frammenti di vita, quanta memoria!

Arriva la metro, mi dirigo verso l’ultimo vagone per evitare l’affollamento e con la speranza di trovare un posticino libero… Che fortuna! Mi siedo… accanto a me c’è una persona. Sembra stanca. Nel suo viso i solchi di mille strade che ha scelto, di mille strade che si è trovato davanti… nelle sue mani rugose il suo lavoro, nei suoi occhi umidi vi sono tutte le cose che ha visto, che ha sentito… gli amori, gli amici, i nemici che ha incontrato… 

Mi guarda, sorride, scambiamo due parole, poi si confida, pregandomi di non scambiarlo per un matto: “mi sono innamorato…”, e mi racconta di una bellissima signora che ha incontrato in una biblioteca. È una gioia ascoltarlo, avvertire la tenerezza del suo cuore, quello di un adolescente che per la prima volta incontra l’amore.

Purtroppo arriva il momento della sua fermata. I suoi occhi sembrano commuoversi. Mi regala un ultimo sorriso e mi dice: “grazie”

Con il cuore gonfio di gioia e malinconia riesco a malapena a rispondergli “Grazie a lei…”. Spero avranno parlato per me molto di più i miei occhi, e che gli avranno espresso la mia felicità di questo bellissimo incontro.

Il mio bagaglio, e quello di molti di noi, è ancora piccolo. Le valigie che ci trasciniamo giorno dopo giorno sono ancora leggere. Ma piano piano si riempiranno, e si colmeranno anche i nostri sguardi, il nostro viso, la nostra pelle, la nostra memoria.
Nutriamoci sempre e dovunque di chi fino ad ora ha trasportato vita e valigie pesanti, immergiamoci nei loro occhi, come se stessimo leggendo il libro più bello che sia mai stato scritto.
E che “vecchio” non sia mai un’offesa, una vita inutile, un tramonto senza senso. 
Per nessuno: per una persona, per un gatto, o per un povero vecchio autobus.

***

Grazie a tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero dedicato al tema della memoria, scandagliato nel profondo dei suoi molteplici aspetti ed effetti.
Grazie a chi continua a credere nei nostri buoni intenti, nel nostro desiderio di ricerca e di bellezza.
Grazie a chi ci chiede di andare avanti, ben sapendo tutte le difficoltà del nostro viaggio. 
Ma, evidentemente, nonostante tutto, è un viaggio che non smette di stupire.

E noi, di questo, ne avremo memoria…

Il Potere (non questo o quel potere, ma la volontà di dominare la realtà e gli altri e piegarli al proprio volere) è, per sua natura, totalizzante. E, in quanto tale, non ammette di essere condizionato e/o limitato in alcun modo, da chicchessia.

Solo poteri “concorrenti”, infatti, potrebbero riuscire a limitarlo e condizionarlo. Ammettere la possibilità di condizionamenti o limiti, significherebbe, da un lato, riconoscere, implicitamente, esistenza e legittimità a tali poteri, dall’altro, negare, di fatto, la natura assoluta del proprio primato. Entrambe evenienze inammissibili per il Potere.

Il Potere non tollera poteri e coscienze

Il Potere vuole potere tutto. Punto. Per questa ragione, non tollera nessun altro potere, quale che sia la forma nella quale esso si incarni: diritto, giustizia, politica, economia… E, non ammettendo nulla di tutto ciò che potrebbe condurre alla formazione di una qualche coscienza critica – l’unico antidoto efficace al suo veleno mortale – non tollera nemmeno libera informazione, istruzione non ideologica, cultura, arte.

Ecco perché, impedire la formazione delle coscienze e annichilire quelle già formate è una mission alla quale il Potere dedica tutte le sue energie migliori. Non a caso, propaganda martellante, controllo totale dell’informazione, censura, indottrinamento giovanile, rieducazione forzata, repressione del dissenso, terrore, riscrittura della Storia, sono strumenti comuni a qualunque forma di totalitarismo.

Siamo utero e incubatrice del Potere

Il Potere, però, non è qualcosa di esterno né di estraneo all’uomo. Non nasce, cioè, al di fuori di noi e non ci costringe, dal di fuori, ad agire contro la nostra volontà. Qualunque cosa sia – istinto, bisogno, energia, volontà o l’insieme di tutte queste cose – è connaturato a noi. 

Siamo noi esseri umani l’utero nel quale il germe-Potere nasce; l’incubatrice nella quale cresce e si sviluppa. Senza di noi, quindi, il Potere non esisterebbe

Potere: figlio che si fa padrone

Il germe-Potere abita le più oscure profondità dell’animo umano e rappresenta, in assoluto, l’elemento più difficile da governare della nostra natura. Un germe maligno – Potere è sinonimo di Male – che è, allo stesso tempo, nostro figlio e nostro padrone. Ed è proprio grazie a questa sua doppia natura che riesce ad avere la meglio su di noi con tanta facilità. 

In quanto figlio, infatti, ci illudiamo di conoscerlo, educarlo, controllarlo e servirci di lui. In quanto padrone, invece – un padrone sommamente intelligente, subdolo, seducente e potente – è lui a renderci schiavi e a servirsi di noi.

Solo un uomo ha detto “No!”

A quanto risulta a coscienza e immaginario della Storia, solo un uomo è riuscito a resistere alle tentazioni del Potere. Tentazioni contenute in quelle tre domande nelle quali, secondo il Dostoevskij de “I Fratelli Karamazov”, “è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] In quelle tre domande tutto era stato a tal segno divinato e predetto e che tutto si è a tal segno avverato, che non è più possibile aggiungervi o toglierne alcunché”.

Verità o mito senso e valore non cambiano

Solo Cristo, dunque, ha risposto no. Per ben tre volte. E, per farlo, ha dovuto dominare la sua natura umana. Non importa stabilire qui se il fatto di cui parliamo sia vero, storicamente accertato o mito, leggenda, invenzione, fantasia, suggestione o speranza. Senso e valore di quei “no”, infatti, non cambiano. Così come non cambiano senso e valore degli illuminanti esempi morali frutto della fantasia di Omero, Dante, Shakespeare, Leopardi o Dostoevskij, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente.

Potere forza sovrumana

Qual è questo senso? Il fatto che la forza seduttiva del Potere è sovrumana. Letteralmente. Vale a dire: trascende la natura umana, le possibilità e i limiti dell’umano. È a causa della fragilità della natura umana, dunque, che quel germe-Potere che noi stessi generiamo, da nostro figlio diventa nostro padrone e ci rende schiavi. Per vincere questa forza sovrumana, quindi, abbiamo un’unica possibilità: superare la natura umana. Andare, cioè, oltre l’uomo. 

Dire “No!” si può

Non si tratta di diventare super-uomini ma di riuscire a superare i limiti della nostra natura. Cristo (la mia è una riflessione meramente logica e non teologica: non ne ho le competenze) non è un super-uomo. È un uomo come tutti gli altri. E, in quanto tale, patisce fame, sete, freddo, fatica, sofferenza, solitudine, umiliazioni, tradimenti, dolore e paura della morte. Superando, però, i limiti della natura umana, riesce a rifiutare l’offerta di Satana che, mostrandogli in un istante tutti i regni della Terra, gli dice «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». (Luca, 4,6). 

Storia o mito che sia, il triplice rifiuto dell’uomo-Cristo dimostra che, sebbene la forza seduttiva del Potere sia sovrumana, superare la fragilità della natura umana e rifiutare i doni del Male si può. Una dimostrazione tutt’altro che priva di significato.

Potere e gloria sono nelle mani del Male

Semmai, sarebbe interessante capire chi, perché e per quanto tempo ha messo nelle mani di Satana potere e gloria di tutti i regni del mondo ma, l’ho detto: non ho la preparazione teologica per affrontare un tema di questa portata né per provare ad abbozzare una risposta. 

Una cosa, però, è del tutto evidente: Potere e gloria sono nella disponibilità del Male, il quale li dà a chi vuole. E, dato che un uomo autenticamente “buono” non accetterebbe doni dal Male, ne consegue che chi accetta tali doni “buono” non è. Ognuno faccia le proprie riflessioni e tragga le proprie conclusioni.

Siamo ossigeno per il fuoco del Potere

L’ho detto: il germe-Potere nasce nel nostro animo e, senza di noi, il Potere non esisterebbe. Il che significa che gli esseri umani sono ossigeno per il fuoco del Potere il quale, come ogni fuoco, in assenza di ossigeno, si spegnerebbe. La ragione per la quale, da sempre, il Potere “arde” ovunque (bruciando tutto e tutti) è che brama/illusione di potenza, da un lato, opportunismo, servilismo e paura, dall’altro, fanno sì che alle fiamme del Potere non manchi mai l’ossigeno. Non stupiamoci, dunque, se, a cento anni dalla nascita di alcuni tra i totalitarismi più devastanti che il mondo abbia conosciuto, sono così tanti i “piromani” che fanno di tutto per riportare indietro l’orologio della Storia. 

Cerchiamo i colpevoli?

Se ci chiediamo di chi sia la colpa del fatto che l’Occidente ha tutta questa fretta di tornare a quel “secolo breve” nel quale, ben 13 regimi hanno privato l’Europa da Est a Ovest di libertà, pace, diritti umani e giustizia per un totale di ben 413 anni e 11 mesi:

(Portogallo: 44 anni 7 mesi; Polonia: 42 anni 4 mesi; Cecoslovacchia: 41 anni 8 mesi; Germania Est: 41 anni 1 mese; Albania: 39 anni 2 mesi; Spagna: 39 anni 1 mese; Bulgaria: 35 anni 7 mesi; Jugoslavia: 34 anni 4 mesi; Ungheria: 31 anni 5 mesi; Romania: 24 anni 8 mesi; Italia: 20 anni 7 mesi; Germania: 12 anni 3 mesi; Grecia: 7 anni 2 mesi)

non dobbiamo cercare lontano: dobbiamo soltanto trovare il coraggio e la decenza di guardarci allo specchio. Lui sa ciò che noi fingiamo di non sapere: siamo noi i più incendiari del reame.

C’è un detto che suona più o meno così: “Il tempo cura tutte le ferite“.
Ma cosa succede quando, invece di guarire, continuiamo a graffiare il ricordo di quelle ferite?
È un paradosso universale: quanto più cerchiamo di dimenticare qualcosa, tanto più questa cosa sembra fissarsi nella nostra mente. Un loop mentale che può essere tanto doloroso quanto frustrante. Non penso certamente alle cose tant dolorose da esser rimosse dalla memoria dal nostro Io, ma alle esperienze negative che abbiamo vissuto.
Il risveglio il giorno dell’esame di maturità.

La memoria umana, tanto straordinaria quanto misteriosa, non è solo un archivio passivo di eventi passati. È un sistema attivo, capace di rielaborare e reinterpretare le informazioni, talvolta aggiungendo un tocco drammatico ai ricordi. Freud definiva questo fenomeno come “compulsione alla ripetizione“, un meccanismo inconscio che ci spinge a rivivere eventi traumatici per cercare, paradossalmente, di risolverli o integrarli. Ma spesso questo si traduce in una continua riapertura di vecchie ferite.

Il nostro cervello sembra cablato per prestare maggiore attenzione alle esperienze negative.
Una spiegazione scientifica viene dalla teoria del “negativity bias“: la tendenza innata a dare maggiore peso ai ricordi spiacevoli rispetto a quelli positivi. Questo bias ha radici evolutive: ricordare il pericolo e il dolore era essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati.
Dimenticare un pericolo poteva significare la morte; ricordarlo, invece, aumentava le probabilità di sopravvivenza.

Quando viviamo un evento doloroso, il cervello rilascia sostanze chimiche che intensificano la memoria, rendendola più vivida e difficile da dimenticare.

Ogni situazione è neutra: non sono gli eventi a turbare gli uomini, ma il modo in cui li interpretano“, diceva il filosofo Epitteto.
Questo significa che non è tanto il ricordo in sé a perseguitarci, quanto il significato che gli attribuiamo. Un insulto, ad esempio, può essere archiviato come un episodio insignificante o trasformarsi in un’ossessione, a seconda del valore emotivo che gli diamo.

“Non pensare a un elefante rosa”. La frase ti ha fatto immaginare proprio un elefante rosa, vero? Questo fenomeno, noto come “effetto del rimbalzo” o “ironia mentale”, è stato studiato dallo psicologo Daniel Wegner. Cercare di sopprimere un pensiero, infatti, spesso lo rende più persistente. Lo stesso accade con i ricordi: più cerchiamo di dimenticare un evento doloroso, più questo si radica nella nostra mente.

Allora, come possiamo liberarci dal peso dei ricordi spiacevoli? Una strategia è accettare il ricordo invece di combatterlo. Secondo le teorie della mindfulness, osservare il pensiero senza giudizio può aiutare a ridurne l’intensità emotiva. Inoltre, parlare con qualcuno di fiducia o scrivere i propri pensieri può rivelarsi catartico. Non si tratta di cancellare il passato, ma di riconoscerlo per ciò che è: una parte della nostra storia, non la nostra intera identità.

In definitiva, i ricordi dolorosi possono insegnarci lezioni preziose, ma solo se siamo disposti a guardarli con occhi nuovi. Come scriveva Oscar Wilde: “L’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori”. Forse, accettando questa prospettiva, possiamo trasformare i nostri ricordi più pesanti in strumenti di crescita e consapevolezza.

Quest’anno si è celebrato l’80° Anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz–Birkenau, il più grande campo di sterminio, istituito dal Terzo Reich di Hitler per eseguire l’eliminazione degli ebrei attraverso la “soluzione finale”, il più grande e terribile Olocausto di tutti i tempi, attuato nel Novecento dalla folle ideologia nazi-fascista.
Il Giorno della Memoria, che ricorre il 27 gennaio di ogni anno, designato a livello internazionale dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 per ricordare la Shoah (in Italia è stato istituito con la legge 211 del 20 luglio 2000), ha assunto quest’anno un significato particolare, alla luce delle varie guerre in atto. Come ha ricordato Papa Francesco “siamo in presenza di una terza guerra mondiale a pezzi”.

Monumento all’Olocausto a Berlino. Foto genomen 30/10/2005 door Pim Zeekoers.

Senza voler operare confronti o paragoni impropri, vogliamo solo accennare ad alcune delle atrocità passate e presenti, attuate nei confronti di popolazioni inermi e di minoranze civile, etniche e religiose.
Per restare nel Novecento, oltre al genocidio degli ebrei che resta sicuramente l’Olocausto più terribile a perenne memoria, va ricordato quello degli armeni, dei tutsie, dei cambogiani da parte dei Khmer rossi ma anche lo sterminio dei popoli nomadi (Rom e Sinti), le stragi politiche nell’URSS di Stalin, le pulizie etniche in Serbia e lo sterminio dei curdi, un popolo senza diritti e senza patria, tuttora perseguitato.

Va ricordato che in Italia è stato istituito anche il Giorno del Ricordo, celebrato il 10 febbraio di ogni anno per commemorare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata.

Questa rassegna degli orrori non è certamente esaustiva se pensiamo alle tante minoranze oppresse, più o meno consistenti o più o meno conosciute ma, tuttora perseguitate nelle varie parti del mondo.
L’attualità ci richiama ai conflitti Russo-Ucraino e Israelo-palestinese, tra i più gravi dopo la II guerra mondiale, per le implicazioni geo-politiche ed economiche con conseguenze drammatiche per la sicurezza, la pace e l’ordine mondiale, anche perché si stanno innestando in nuovi scenari di governo con derive “etnocratiche” in tutta la sfera occidentale, causando gravi divisioni e spaccature politiche nella stessa Europa. In particolare, quello Israelo-palestinese, che si inquadra nel più ampio conflitto arabo-israeliano che dura con alterne vicende anch’esso da circa 80 anni (anche se in termini “tecnici” non militari si potrebbe andare ancora più indietro nel tempo), con limitazioni allo sviluppo dei territori palestinesi e alla loro libertà di movimento ma con responsabilità ed errori da registrare da entrambe le parti. Quest’ultima guerra, scatenatasi dopo il massacro al festival musicale Supernova da parte di Hamas, perpetrato il 7 ottobre 2023, con l’uccisione di centinaia di civili e soldati e il rapimento di oltre 200 ostaggi, ha visto la reazione di Israele con la strage di migliaia di civili palestinesi e praticamente la completa distruzione di Gaza.
Va detto che la questione palestinese è improcrastinabile e va assolutamente ricercata la soluzione dei due popoli in due stati e che Israele, che ha tutto il diritto di esistere, deve anche rispettare il diritto internazionale e che non può rispondere ad atti terroristici bombardando un’intera popolazione inerme e impedendone gli aiuti da parte della comunità internazionale. Non a caso, la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso due decisioni che riguardano presunti crimini commessi dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dall’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, durante il conflitto a Gaza, con responsabilità imputabili alle persone, occorre ben evidenziare, e non alla popolazione ebraica, mantenendo alta l’attenzione contro l’anti-semitismo sempre in agguato.

Porta di Lampedusa , Porta d’Europa – CC BY 2.0

Anche per il conflitto Russo-Ucraino urge una soluzione diplomatica che si sarebbe dovuta ricercare fin dall’inizio, senza arrivare a cifre che rasentano il milione di vittime tra tutte le parti in causa, con soluzioni che si prospettano adesso nella stessa misura in cui si erano poste ai primordi.
C’è un’altra atrocità epocale che riguarda un fenomeno strutturale e non emergenziale, come spesso viene trattato, ossia quella dell’immigrazione, che miete anch’essa decine di migliaia di vittime, trasformando i nostri mari in un’immane tomba, nel silenzio inconsapevole o, peggio, nell’indifferenza. Dal 2016, il 3 ottobre è diventato la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, per ricordare il naufragio di Lampedusa avvenuto lo stesso giorno del 2013 in cui persero la vita 368 persone. Persone, tra cui molte donne e bambini, che cercavano di raggiungere il nostro continente nel disperato tentativo di trovare rifugio e sicurezza.

C’è una data che mi sta particolarmente a cuore, è quella prossima del 9 Febbraio, l’anniversario della nascita delle Repubblica Romana del 1849, episodio fulgido del nostro Risorgimento che finì tragicamente per mano dei francesi (con Luigi Napoleone Bonaparte presidente dell’allora Repubblica Francese), accorsi in aiuto del Papa Re.

L’esperienza della Repubblica Romana, ispirata da Giuseppe Mazzini, finì tragicamente ma lasciò in eredità quella Costituzione che divenne la base di quella della nostra Repubblica Italiana. Quei sessantanove articoli sono incisi sul muro della Costituzione della Repubblica Romana al Gianicolo, luogo dove si svolsero i tragici fatti. Nel nostro Paese la memoria dovrebbe nutrirsi più anche del nostro Risorgimento.

Foto Comitato Gianicolo

In memoria della memoria, occorre allora recuperare un senso comune della tragicità della Storia e cercare un senso vero a queste giornate, che riporti tutta la comunità internazionale, compresi i governi fino alle singole persone, alle proprie responsabilità con coerenza e al di là di retoriche commemorazioni.

Proprio in questi giorni di prossime elezioni in Germania, c’è chi dichiara con disinvoltura che occorre guardare con “leggerezza” alla Storia, praticamente un richiamo alla smemoratezza. Riporta al concetto nietzschiano di storia critica di chi vorrebbe guardare alla storia non come un intralcio ma alla creazione del “nuovo” e di nuove verità. Questo però a patto che non ci siano negazionismi e che restino fermi i principi di dignità della persona, dei popoli e del rispetto del diritto internazionale. La Storia non può essere distorta a fini politici.

Bansky , Angel Skull – CC BY-NC 4.0

La memoria del passato ci dovrebbe far guardare con consapevolezza e sensibilità al presente, mettendoci in guardia da un eterno ritorno di atrocità che sembrano essere così lontane e sbiadite nel tempo, ma che si possono ripresentare in altri modi e forme ma simili nella sostanza.

L’Etnocrazia e l’Ipnocrazia, con il loro combinato disposto, sembrano essere le evoluzioni delle democrazie occidentali che hanno garantito per questi 80 anni, pur con i loro chiaroscuri, pace e diritti. La memoria deve lasciare la feticizzazione della testimonianza e le privatizzazioni della Storia, evitando vuote celebrazioni retoriche e sonnambulismi, nel rispetto di tutte le memorie e delle loro condi-visioni.

Dominio delle stronzate, crepuscolo della democrazia, agonia della libertà

Se, come diceva Gesù, «la verità vi farà liberi», allora la scomparsa della verità ci renderà tutti schiavi. E, dato che stiamo precipitando nell’abisso di una società senza verità, ogni istante che passa, siamo sempre meno liberi. 

La cosa peggiore, però, non è che non ce ne rendiamo conto. È che – anche quando ce ne rendiamo conto – non ce ne preoccupiamo.

In parte, perché ci illudiamo che non sia così. Pensiamo si tratti dell’ennesimo catastrofismo ingiustificato, messo in giro dai soliti “profeti di sventure”. Gufi disposti a tutto pur di farci vivere nella paura e – come cantava De Gregori – «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera». 

In parte – ed è questo l’aspetto più inquietante – perché crediamo che la cosa non sia poi così importante. Questa o quella cosa non sono vere? E chissenefrega! Come se la Storia non avesse abbondantemente dimostrato che le società senza verità finiscono col destabilizzare e stravolgere le vite delle persone, fino al punto di soffocarle, negarle e, infine, cancellarle. 

NIENTE LIBERTÀ, NIENTE VITA

Non c’è vita senza libertà. Eppure ignoranza, stupidità, servilismo, opportunismo, pusillanimità e paura ci convincono che non è così. Morale: andiamo avanti come se niente fosse, tra inconsapevolezza, rassegnazione e fatalismo, fidando nel fatto che, all’ultimo istante, qualcosa o qualcuno ci salverà dall’abisso.

Non succederà. Nessuno verrà a salvarci. Anche perché nessuno – a parte noi – tiene alla nostra libertà. Gli altri non vedono l’ora di togliercela. Se, poi, siamo noi stessi i primi a rinunciarci, tanto meglio per loro: risparmieranno tempo, denaro e fatica. 

DIRITTO AL VOTO: REGALO INESTIMABILE, BUTTATO VIA

Un’intera generazione (né alieni né estranei: i nostri nonni e i nostri genitori) ha combattuto e sacrificato la vita per regalare a tutti noi la libertà di votare e scegliere la “casa” che vogliamo, chi la deve costruire e aiutarci a “mandarla avanti”. Un dono dal valore inestimabile del quale, a quanto pare, non sappiamo più cosa farcene. Ce ne siamo stancati, e l’abbiamo buttato via, tra i giocattoli che non divertono più, come fanno i bambini con i regali del Natale precedente.

Dal 1948 a oggi, infatti, l’affluenza alle urne è precipitata. Siamo passati dal 92,23% delle prime elezioni al 49,69% delle Europee dello scorso anno. 42,54 punti percentuali in meno. Un crollo che ha determinato il crollo verticale del “coefficiente di democraticità” della nostra democrazia. 

DEMOCRAZIA DIMEZZATA

Un coefficiente che, per la democrazia, è come i carati per l’oro. Più sono, più l’oro è puro e più vale; meno sono, meno l’oro è puro e meno vale. Come ho già scritto, infatti, la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, piuttosto, all’oro: il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Ed è del tutto evidente che una democrazia rappresentativa nella quale vota meno del 50% dell’elettorato è tutt’altro che pura. 

Di fatto, quindi, viviamo in una democrazia dimezzata. Il che equivale a trovarsi al volante di un’auto che perde due ruote per strada: praticamente impossibile non schiantarsi.

DEMOCRACY INDEX 2023

Secondo l’ultima edizione del Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (un’istantanea dello stato della democrazia in 165 Stati indipendenti e due territori – quasi l’intera popolazione mondiale e la stragrande maggioranza degli Stati – basata su: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e libertà civili) sebbene circa la metà della popolazione mondiale (45,4%) viva in una qualche forma di democrazia, solo il 7,8% risiede in “piene/complete democrazie” e ben più di un terzo (39,4%) vive sotto regimi autoritari. 

ITALIA DA “SERIE B”

Il nostro Paese, purtroppo, non brilla. E come potrebbe, visto l’andazzo degli ultimi decenni. L’Italia, infatti, non trova posto nella “serie A” del Democracy Index, che ospita i 24 Paesi che lo studio definisce “democrazie piene/complete”. Tra queste, in ordine di graduatoria, troviamo Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Canada, Australia, Giappone, Austria, Regno Unito, Grecia, Francia e Spagna. 

Il nostro Paese risulta al decimo posto della classifica della “serie B” – le “democrazie imperfette” – preceduta da Cile, Repubblica Ceca, Estonia, Malta, Stati Uniti d’America, Israele, Portogallo, Slovenia e Botswana. 

Dietro di noi, infine, Paesi come Belgio (36), India e Polonia (41), Sud Africa (47), Ungheria (50), Brasile (51), Argentina (54), Colombia (55), Croazia (58), Romania (60), Bulgaria (62), Serbia (64), Albania (66), Tunisia (82), Ucraina (91), Turchia (102), Emirati Arabi (125), Egitto (127), Iraq (128), Russia (144), Cina (148), Iran (153), Libia (157), Siria (163), Corea del Nord (165).

NIENTE PARTECIPAZIONE, NIENTE DEMOCRAZIA, NIENTE LIBERTÀ

Come abbiamo visto, nel nostro Paese, la rappresentatività è fortemente compromessa. E, dato che essa è il cuore della democrazia (aveva ragione Gaber: libertà è partecipazione), fortemente compromesso è anche il cuore della nostra democrazia. Un cuore sempre più prossimo all’infarto. 

Alle ultime Europee – solo per citare la tornata elettorale più recente – ha votato meno del 50% dei 47 milioni di aventi diritto: 23.372.323 elettori, contro i 23.663.947 che hanno scelto di non andare a votare. 

GOVERNANO LE MINORANZE

Dati infinitamente più preoccupanti di quanto non appaia. Per due ragioni. La prima è che, per la prima volta nella storia repubblicana, è una minoranza – e non una maggioranza – a vincere le elezioni. E, di conseguenza, a formare un Parlamento ed esprimere/orientare un governo. 

Alle Europee 2024, FDI – il partito che, in Italia, ha ottenuto più consensi – ha raccolto, infatti, 6.713.952 voti: il 28,81% del totale. Meno di un terzo dei votanti. Minoranza che diventa ancora più minoranza, se si rapportano quei 6,7 milioni di voti ai 47 milioni degli aventi diritto al voto. Risultato? Il 14,27% del totale: un settimo dell’elettorato.

Il che significa che meno di 1,5 elettori su 10 hanno votato per FDI. E, dato che è oggettivamente impossibile definire “maggioranza” 1,5 elettori su 10, dichiarare che “gli italiani hanno scelto FDI” è una colossale mistificazione. Mistificazione che, però, funziona alla grande, dal momento che quasi nessuno, ormai, si prende la briga di raccogliere, verificare e analizzare numeri e percentuali, e di ragionare sulla loro reale o presunta rilevanza.

IL DIRITTO DI VOTO HA I GIORNI CONTATI?

La seconda ragione è ancora più preoccupante della prima. Proverò a sintetizzarla in una semplice domanda: se gli italiani continueranno a disertare le urne e saranno sempre meno quelli che decideranno di esercitare il loro diritto di voto, secondo voi, quanto tempo passerà prima che qualcuno si affacci a un nuovo balcone, arringando la folla al grido: “Visto che non andate a votare, vuol dire che ritenete il voto un inutile fastidio. Non vi preoccupate: da domani, ve ne libereremo!”?

LA LIBERTÀ NON CI INTERESSA…

La verità è che a noi umani la libertà non interessa. Neghiamo che sia così ma lo facciamo sapendo di mentire. Perché? Perché la libertà implica il fardello della responsabilità e non c’è nulla che pesi di più agli esseri umani del fatto di assumersi la responsabilità di decidere del proprio presente/futuro. Molto meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Se le cose andranno bene, potremo dire di aver visto giusto. Se le cose andranno male, potremo dire che non è stato per colpa nostra.

Lo scrivo spesso, non perché mi manchino gli argomenti ma perché trovo stupido provare a esprimere con parole migliori questa illuminante verità: aveva ragione il Grande Inquisitore: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!». Ecco perché «non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà».

… PER QUESTO, NON VOGLIAMO LA VERITÀ

In sintesi: la libertà costa e noi non vogliamo pagare. Ora: se noi non vogliamo essere liberi e la verità ci rende liberi, è evidente che noi non vogliamo la verità. 

Ecco perché le stronzate (un istante per crearle, un’eternità per smontarle, sempre ammesso che ci si riesca) hanno così tanto successo. Pensare e scegliere richiedono tempo e fatica. Bisogna informarsi (presso fonti autorevoli e affidabili), approfondire, capire, riflettere, formarsi un’opinione, confrontarsi con gli altri, disposti a sostenere le proprie idee ma, soprattutto, ad accettare il fatto che possano essere sbagliate e, nel caso, essere pronti a modificarle. 

Chi ce lo fa fare? È infinitamente più facile, conveniente e gratificante vivere di folli convinzioni fai-da-te, alimentate dalla saggezza-spazzatura che, ormai, domina, incontrastata, ovunque: case, uffici, bar, mezzi pubblici, amicizie, social media, giornali, radio, televisioni. Saggezza-spazzatura che continua a fiorire e a mietere milioni e milioni di proseliti, anche perché, nella Babele di fake news e false narrazioni quasi impossibili da smascherare e smontare, è praticamente impossibile capire cosa sia vero e cosa no.

CONCLUSIONI

Permettetemi, quindi, di concludere parafrasando il versetto del Vangelo di Giovanni, ricordato in apertura: «La verità vi renderà liberi. Se solo riuscirete a trovarla, riconoscerla, comprenderla, accettarla e seguirla».

Fino ad allora, good night, and good luck.

Ogni traguardo, piccolo o grande che sia, nasconde alla memoria delle sue radici una lotta. Non parliamo di conflitti esterni, ma di quella battaglia silenziosa e continua che affrontiamo dentro di noi: la lotta per superare i limiti autoimposti, per abbracciare l’incertezza e per riscrivere chi siamo. Questo viaggio verso la consapevolezza è un percorso unico, fatto di cadute, dubbi, e momenti di incredibile trasformazione.

Immagina di nascere in un piccolo paese come Cissone, un luogo dove il cambiamento è guardato con sospetto e la tradizione è legge. Crescere in un ambiente simile significa spesso interiorizzare convinzioni limitanti: 

  • “Non puoi farcela”, 
  • “Il mondo là fuori è troppo grande, ti perderai come in un bicchier d’acqua”, 
  • “cosa penseranno le altre persone di te”, 
  • “perderai le tue amicizie senza sapere cosa troverai la fuori”.

Eppure, qualcosa dentro, a volte, inizia a muoversi, e ti spinge oltre.

Perchè ti senti stretta, in un mondo in cui non puoi esprimerti perchè sei “diversa”, in cui devi omologarti alla mentalità del “si è sempre fatto così” per sentirti parte di un gruppo e accettata, in cui tutto quello che non è visibile con gli occhi non esiste. 

Inizio a buttarmi nel vuoto a 18 anni, aprendo la mia azienda di servizi con 2 socie in cui operavo nel mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica con servizi di marketing, logistica, commerciale e segreteria. Dico “buttarmi nel vuoto”, perché nessuno ti insegna a fare l’imprenditrice, non esiste una guida, o peggio, a 18 anni, anche se esistesse, non ti viene in mente di cercarla. 

Lavorare in un settore dominato dal “si è sempre fatto così” e portare innovazione e digitalizzazione significava sfidare le convenzioni e il modo di lavorare di diverse persone che ha funzionato per tanti anni.

Sono stati 5 anni in cui ho sempre puntato a quella goccia, che giorno dopo giorno, avrebbe modellato la pietra. 

E così è stato, mi ha permesso di capire e sperimentare tante cose come:

  • l’importanza di aver ben chiara la tipologia di persona che hai davanti, come pensa, come ragiona, riflette, quali sono gli input che fanno attivare certi trigger su cui puoi fare leva per raggiungere il tuo obiettivo;
  • a calibrare la comunicazione sulla base di queste informazioni ed adattare il tuo registro verbale in base all’interlocutore;
  • a studiare e comprendere bene il loro punto di partenza e confrontarlo con quello dove vuoi arrivare per evidenziare pro e contro;
  • ad evidenziare i vantaggi competitivi ed economici della tua proposta.

Tutto questo per cosa?

Per digitalizzare l’azienda, snellire i processi, automatizzarli, introdurre programmi di monitoraggio e gestione che permettessero di lavorare più agilmente ed evitando di perdersi le informazioni, ridurre i tempi di gestione e i rework. 

E poi, il salto: dall’agricoltura alla tecnologia. Cambiare industria è come cambiare pelle.

E’ un processo, lento, fatto di tanto tempo, di mettere in discussione la tua realtà, comprendere un nuovo target e le sue dinamiche, che implica apprendimento continuo e la volontà di reinventarsi.

La lotta, in questo caso, è stata contro la paura del fallimento, contro l’idea che cambiare significasse perdere un qualcosa di cui conoscevi molto bene le dinamiche e di entrare in un mondo in cui non eri nessuno, dovevi ricostruirti da zero, in un mondo densissimo di persone competenti.

Oggi, il passato lascia spazio a una vita in costante viaggio ed evoluzione, con connessioni stupende che abbracciano culture e persone diverse. Questo passaggio non è stato privo di difficoltà.

È stato un atto di ribellione contro un qualcosa in cui non volevo più essere io la sola a puntare in alto ma volevo vivere in una spinta costante di ispirazione, energia e desiderio di crescita, una decisione consapevole di rompere il ciclo e costruire una nuova identità.

Come non esistono percorsi per essere imprenditrice, e ci si barcamena in mille aspetti sconosciuti, non esistono qualifiche da community manager. 

Mi sentivo un impostore prima, e continuo a sentirmici ora.

Come lo maschero? Con la strategia più semplice in assoluto “fake it until you make it”. Parlo a conferenze internazionali, accetto sempre nuove sfide lavorative, mi butto in progetti che non ho mai fatto.

Perché? Perché la mente è un critico severo, che ci ricorda costantemente ciò che non sappiamo invece di ciò che abbiamo costruito e il modo migliore per smascherare questa dinamica per me è la possibilità di dimostrarmi che ogni volta che ho fatto qualcosa di nuovo, ogni volta che mi sono buttata nell’ignoto, in cui ho avuto paura di non raggiungere il risultato, di deludere le persone, beh ogni volta ho imparato qualcosa e la maggior parte delle volte sono arrivata, li, dove non avrei mai pensato.

La verità è che nessuno ha mai certificato questo ruolo. Nessuna laurea, nessuna qualifica. Eppure, tutto quello che faccio oggi richiede abilità che non si imparano sui libri: empatia, ascolto, leadership, problem solving, gestione delle priorità ecc… 

La lotta, qui, è accettare che la competenza non sempre si misura con un pezzo di carta, ma con i risultati, con i feedback, con il segno che sei riuscita a lasciare nel percorso delle persone e con le lezioni imparati dagli errori.

La lotta più significativa, però, è quella quotidiana. È guardarsi allo specchio e amarsi per ciò che siamo e decidere di migliorarsi per diventare le nostra versione migliore, chi noi vogliamo davvero essere. Ogni singolo giorno.

È identificare i propri limiti, per comprenderli, analizzarli e spingerli sempre un po’ più in là se questo ci permette di essere soddisfatti. Creare routine, dedicare del tempo per sé stessi, per sentirsi, per capire cosa ci piace e cosa no, per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, per ascoltarsi: tutto questo non è solo un esercizio di crescita, ma un percorso che richiede tanta energia e  amore verso sé stessi. 

Perchè vuol dire mettersi in discussione, far crollare in autonomia le proprie certezze e l’essere umano ha una disperata necessità di sicurezza quindi entrare in questo flusso è estremamente dispendioso a livello energetico ma ti apre una nuova visione di te, di chi davvero puoi essere.

La lotta interiore è parte integrante della vita. Ci sfida a fare scelte difficili, a confrontarci con le nostre paure e insicurezze. Ma è anche ciò che ci rende vivi, che ci permette di evolvere e di scoprire chi siamo davvero.

Non esiste un punto di arrivo definitivo. Ogni giorno è una nuova opportunità per crescere, per imparare, per abbracciare il cambiamento. La vittoria non è nell’eliminare la lotta, ma nell’accoglierla come parte del viaggio. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per superarli. E chi decide di buttarsi sempre oltre la sua zona di comfort, chi accetta il rischio e sceglie di conoscersi meglio, scopre che la vera vittoria è nella trasformazione continua, non dell’obiettivo raggiunto.

La lotta interiore è un invito a vivere, a crescere, a essere più di quello che pensavamo possibile.

La redazione ringrazia per il contributo concesso a titolo gratuito da Michela.

Io lo scrivo quì, ma penso che abbiamo tutti in mente un pensiero negativo ogni qualvolta sentiamo dire o leggiamo dei progressi degli impianti di chip all’interno del cervello umano. “Studi scientifici”, “Progressi Tecnologici”, “Grandi Possibilità” si affrettano ad aggiungere gli esperti interpellati dai giornalisti, eppure dentro di noi si fa largo il ribrezzo al pensiero che un essere umano possa desiderare di farsi impiantare un elemento estraneo nel proprio corpo, per di più nel cervello. Abbiamo tutti in mente la scena di Terminator quando da sotto la pelle di Arnold Swarzenegger emerge il metallo e i circuiti elettrici e abbiamo lo stesso senso di repulsione. Tutti, compresi quei ragazzi che per ragioni anagrafiche il film certamente non l’hanno visto al cinema o forse nemmeno in TV.

Siamo spaventati di un oggetto che, comandato da qualcun altro oppure in ragione della propria programmazione algoritmica, possa prendere il sopravvento sulla nostra volontà.

Scrivendo gli altri articoli per questo numero (“Stop con i beatles stop..?” e “L’annullamento della Memoria come strumento di controllo“) mi sono reso conto che l’Antropocene – ossia l’idea che l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente possa configurarsi come una nuova “era geologica” – ha implicazioni anche sulla nostra stessa struttura mentale e non dal 1945 – da quando si fa risalire l’inizio dell’Antropocene appunto.
Da quando l’uomo è diventato un essere “civile”, e quindi da tanto tanto tempo fa, ha cercato di modificare l’ambiente circostante per adattarlo in qualche modo alle proprie esigenze. Ha “addomesticato” razze animali e ha “selezionato” razze vegetali, per i propri bisogni primari e anche per il proprio diletto: il selvaggio Uro è diventata la mansueta mucca, il famelico lupo è diventato il delicato Chihuahua, la Rosa canina la profumosa e delicata Tea. Ha costruito habitat artificiali che si sono distaccati moltissimo dai prati verdi e dalle foreste, senza pensare al Bosco Verticale, possiamo immaginare alle palafitte costruite negli stagni o agli arredi nelle caverne vicino alle coste (e ne abbiamo di esempi anche sulle coste laziali ad Circeo, senza dover andare troppo lontano da Roma ad esempio).

Ma molto prima di poter pensare alle estensioni della mente con i chip e prima di pensare all’Intelligenza Artificiale o anche prima di pensare agli automi (e mi viene in mente il servitore di Filone di Bisanzio costruito più di 200 anni prima della nascita di Cristo), prima di tutto questo l’uomo aveva capito che era possibile estendere la propria mente con la scrittura.
Lasciando un segno, un disegno in uno dei suoi rifugi poteva ricordare con esattezza come cacciare gli animali. Aveva esteso il concetto del “quì e adesso” nel quale sostanzialmente era relegato per la propria natura umana, portando la sua mente a ricordare cose che il trascorrere del tempo avrebbe lasciato andare nel “panta-rei” fisiologico.
Ha creato, per se stesso, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio.
Questo – per gli storici – ha determinato il passaggio dalla Preistoria alla Storia, ma a pensarci è stato il primo passaggio dell’uomo all’antropizzazione della propria natura animale.

Pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ex Presidente americano Joe Biden ha lanciato un accorato allarme. “Oggi, in America – ha detto – sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia realmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà”. Biden ha, quindi, puntato il dito contro un “complesso tecno-industriale” ultra-ricco che potrebbe esercitare un potere incontrollato sugli americani. 

Ma no? Davvero? E se n’è accorto solo quattro giorni prima dell’insediamento di Trump? Un genio, non c’è che dire. E dove diavolo è stato in tutti questi anni?

E gli altri sedicenti progressisti, al di là e al di qua dell’Oceano? Dove diavolo erano in questi quarant’anni nei quali il mondo non si è più diviso – ideologicamente – tra “buoni” (Americani & Co.) e “cattivi” (Russi & Co.) ma – turbocapitalisticamente – tra iper-ricchi (pochissimi) e iper-poveri (miliardi)? 

Dove sono stati, in tutti questi anni, i cantori di libertà, giustizia, pace, diritti umani e civili, solidarietà, equità, salute, istruzione, dignità di lavoro e salario, pari opportunità, inclusione, stato sociale, e bla-bla-bla fratelli?

Dormivano tutti? Erano tutti stupidi o troppo impegnati a godersi sprizzini, shottini, salatini, salottini, librettini, teatrini, cinemini, concertini ed eventini, che non se ne sono accorti, poverini? 

O, forse, se n’erano accorti ma non sono riusciti a evitare il peggio? Cos’è: incapaci e ignavi, hanno lasciato fare oppure, collusi e complici, volevano che il mondo arrivasse esattamente dov’è arrivato e che le destre tornassero a dominare, indisturbate, praticamente ovunque?

Non risponderò a queste domande. 

Che ognuno faccia le proprie riflessioni 

e tragga le proprie conclusioni.

Una cosa, però, è certa: in politica, o sei parte della soluzione o sei parte del problema. E, dato che di soluzioni non se ne vede nemmeno l’ombra, mentre “il problema” trionfa quasi dappertutto, suggerirei che tutti coloro i quali – a qualunque titolo e con qualunque grado di responsabilità – non sono riusciti a impedire o, peggio, hanno favorito questa devastante deriva antidemocratica, togliessero il disturbo, una volta per tutte. 

Se non altro, i veri democratici – ammesso che ne esista ancora qualcuno – si renderebbero, finalmente, conto del fatto che “non esistono liberatori ma uomini che si liberano”. E potrebbero decidere, una volta tanto con la propria testa, cosa farne di sé stessi e della propria vita.

Uno degli elementi fondanti di ogni regime totalitario è il controllo della memoria collettiva. La storia non è solo una cronaca di eventi passati, ma una struttura narrativa che definisce l’identità di un popolo, le sue radici, i suoi valori. Per questa ragione, uno dei primi atti del nazismo fu la distruzione sistematica dei libri di scuola e dei testi di storia, sostituendoli con una nuova visione della realtà, costruita ad arte per giustificare la loro ideologia e il loro dominio.

Nel 1933, appena salito al potere, il regime nazista organizzò il Bücherverbrennung, il rogo dei libri considerati “non tedeschi”, un atto simbolico che mirava a cancellare idee scomode e sostituirle con una narrazione alternativa. Tra le opere distrutte vi erano testi di scienza, filosofia, letteratura e soprattutto storia, poiché il passato doveva essere riscritto in funzione della visione nazionalsocialista. Questo processo non era solo censura, ma un vero e proprio tentativo di manipolazione della memoria collettiva.

Il Potere della Riscrittura della Storia

La storia è lo strumento con cui una società tramanda i suoi valori e le sue esperienze. I regimi totalitari non possono permettere che esistano narrazioni concorrenti rispetto alla loro ideologia. Questo concetto è brillantemente rappresentato in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, dove i libri vengono bruciati non solo per impedire alle persone di leggere, ma soprattutto per eliminare il pensiero critico e sostituirlo con un conformismo imposto dall’alto. “Non volevano uomini che pensassero, ma uomini che obbedissero”, scrive Bradbury, una frase che potrebbe benissimo descrivere l’atteggiamento del nazismo nei confronti dell’istruzione e della cultura.

L’ideologia nazista non poteva accettare una storia che mostrasse le sue contraddizioni o che mettesse in discussione la superiorità della razza ariana. Per questo motivo, non solo i libri furono distrutti, ma anche la storiografia venne riscritta per enfatizzare un passato glorioso e creare nemici immaginari. I programmi scolastici vennero modificati per inculcare nei giovani i principi dell’antisemitismo, del nazionalismo esasperato e della guerra come destino inevitabile.

Casi Storici e Citazioni

Questo fenomeno non è esclusivo del nazismo. Altri regimi totalitari hanno adottato strategie simili per controllare il passato e quindi il futuro:

Unione Sovietica: Stalin fece riscrivere la storia rimuovendo figure politiche scomode, cancellandole persino dalle fotografie ufficiali.

Cina di Mao: Durante la Rivoluzione Culturale, vennero distrutti testi classici e riformati i libri scolastici per eliminare ogni riferimento al passato pre-comunista.

Cambogia di Pol Pot: Il regime dei Khmer Rossi eliminò testi scolastici e chiuse le scuole per annullare qualsiasi forma di sapere precedente alla rivoluzione.

George Orwell in “1984” descrive magistralmente questa dinamica con il concetto di “controllo della memoria” attraverso lo slogan “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Questa frase sintetizza perfettamente la necessità dei regimi totalitari di riscrivere la storia per legittimarsi.

Conclusione

La distruzione dei libri di storia e dei testi scolastici da parte del nazismo non fu un atto di semplice censura, ma una strategia per plasmare una nuova realtà e un nuovo popolo. La conoscenza del passato è uno strumento di libertà: chi la possiede, può capire e giudicare; chi ne è privato, è destinato a credere e obbedire. Ecco perché ogni regime totalitario ha bisogno di creare una nuova memoria: per cancellare le radici di un popolo e sostituirle con una storia costruita a proprio vantaggio.

Gianni Morandi, quasi 60 anni fa – eh sì – cantava della fine della giovinezza, della fine della spensieratezza e dell’arrivo della cruda e brutta realtà.
Erano gli anni della guerra in Vietnam – che sarebbe durata ancora un decennio – e gli anni del twist ballato sulle spiagge, gli anni degli hippies e l’anno dopo si sarebbe tenuto il mitico concerto di Woodstock.
Qualche giorno fa parlando con il mio amico Fabrizio ci è tornato alle labbra questo ritornello per dire che forse anche la nostra “giovinezza” è finita e sarebbe il caso di chiudere con i ricordi nei quali siamo immersi. Dire, anche noi, uno Stop ai Beatles e ai Rolling Stones.
Così in questo dialogo abbiamo iniziato a fare quella che poi, a ripensarci successivamente, a mente fredda, si può definire essere una analisi sociologica e psicologica di quello che stiamo vivendo “noi”. Un “noi” che può essere calato nel senso di noi due, che ci apprestiamo a raggiungere il mezzo secolo, che “noi” intesi come generazione a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. E questa riflessione vede proprio il concetto della memoria. Una memoria sempre “viva e presente”.
E’ già da qualche anno che si sono creati diversi gruppi sui social network che hanno come titolo “noi che…” declinato per un certo decennio, un certo tipo di esperienza comune. E così io, Fabrizio e tutta la nostra generazione, siamo quelli che hanno visto i robottoni che combattevano per difendere il giappone e il mondo intero dagli invasori, e ci siamo agitati cantando le loro sigle, siamo quelli che hanno visto Heidi e Conan e ci siamo commossi con quei cartoni animati al pensiero del triste destino della ragazzina svizzera o per quello che poteva essere l’ultimo bambino sulla terra, siamo quelli che si sono sfiniti di lacrime per Alfredino, siamo quelli che hanno cantato le canzoni degli “Wham!” tra una “Last Christmas” e una “Wake Me Up Before You Go-Go”, siamo quelli che hanno visto il muro che circondava la Berlino “Occidentale” da quella orientale, siamo quelli che ancora a volte pensano usando le lire e che hanno in mente la bicicletta con il sellino lungo e il cambio.
Siamo quelli lì.
Sicuramente.
E siamo ancora capaci di intonare quelle canzoni lì appena ne sentiamo un frammento.
Ma forse è questo uno dei problemi della memoria, o meglio il problema di una memoria lasciata sempre viva, come fosse sempre presente.
Possiamo, con la tecnologia a nostra disposizione, con gli algoritmi che seguono le nostre propensioni e i nostri “gusti”, possiamo rimanere in una bolla spazio-temporale che nella realtà non esiste più.
Il mondo è decisamente andato avanti da quegli anni ’70 e anni ’80 della nostra infanzia e anche da quegli anni ’90 che furono quelli della nostra giovinezza e poi quelli che hanno seguito.
Possiamo costantemente rivivere l’onda di speranza di Piazza Tien a Men o il terrore degli aerei che si schiantano nelle Torri gemelle o ascoltare e riascoltare, ad esempio mentre guidiamo, le bionde trecce e “ancora tu, ma non dovevamo vederci più” o le tre parole “sole, cuore, amore”. Possiamo vivere, se vogliamo, un mondo che in realtà non esiste più.
Possiamo prolungare, se vogliamo, la nostra giovinezza continuando a cantare “i Beatles e i Rolling Stones” senza che nulla possa perturbare la nostra confortevole ripetizione degli stessi gesti, senza nessun cantante Trap (no, nonostante questo articolo, non riesco nemmeno a considerarli cantanti…) che possa scuoterci proponendo nuove strofe, nuove rime.
Come vivessimo in un mondo congelato, statico.
Ecco pensando alla memoria, vorrei lanciare una riflessione: se il gusto nostalgico della memoria così facile per le tecnologie che abbiamo attorno a noi, non ci stiano privando in qualche modo di quel piccolo “stress” che però in ultima analisi è il vivere il “Quì e Adesso”.
Pensiamoci.

Fabrizio: copio e incollo il testo della Canzone di Gianni Morandi, semmai ti venisse voglia di canticchiarla così, anche senza base musicale.

C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
Veniva da
gli Stati Uniti d’America
… Non era bello
Ma accanto a sé
Aveva mille donne se
Cantava Help e Ticket to Ride
O Lady Jane, o Yesterday
… Cantava viva la libertà
Ma ricevette una lettera
La sua chitarra mi regalò
Fu richiamato in America
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, Coi Beatles stop
… M’han detto va nel Vietnam
E spara ai Viet Cong
… C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
ma poi finì
A far la guerra nel Vietnam
… Capelli lunghi non porta giù
Non suona la chitarra ma
Uno strumento che sempre dà
La stessa nota
Ra ta ta ta
… Non ha più amici
Non ha più fans
Vede la gente cadere giù
Nel suo paese non tornerà
Adesso è morto nel Vietnam
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, coi Beatles stop
… Nel petto un cuore più non ha
Ma due medaglie o tre

(Autori Migliacci, Lusini – Editore UNIVERSAL MUSIC PUBLISHING RICORDI S.R.L)

  1. Memento (2000) – Christopher Nolan
    Un uomo con un disturbo della memoria a breve termine cerca di scoprire chi ha ucciso sua moglie, usando tatuaggi e note per ricordare gli indizi. Un puzzle narrativo sulla fragilità della memoria.
  2. Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) – Michel Gondry
    Una coppia decide di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura medica, ma l’inconscio lotta per trattenere ciò che è importante. Un viaggio emotivo sulla memoria e l’amore.
    Scrivo il titolo in versione originale perché quella italiana l’aveva trasformato in una commedia di serie B e mi aveva impedito di guardarlo e solo le lunghe insistenze di un amico me lo aveva fatto vedere. E mi sono ricreduto, tanto di metterlo in questa lista, e tra le prime posizioni.
  3. Inception (2010) – Christopher Nolan
    Oltre a esplorare il sogno e la realtà, il film ruota attorno ai ricordi e a come essi possono essere manipolati o impiantati nella mente umana.
  4. The Manchurian Candidate (1962 / 2004) – John Frankenheimer / Jonathan Demme
    Un thriller politico in cui un soldato è sottoposto a lavaggio del cervello per diventare un’arma inconsapevole. Un film inquietante sul controllo della memoria.
    Nomino ambedue i film perché sono uno il clone dell’altro, ma a parte la sceneggiatura, a voi la scelta di quale regia, quale interpretazione scegliere.
  5. The Father (2020) – Florian Zeller
    Un viaggio nella mente di un uomo affetto da demenza, visto dal suo stesso punto di vista. Il film trasmette in modo potente la confusione della perdita di memoria.
  6. Mulholland Drive (2001) – David Lynch
    Un film onirico e surreale che mescola amnesia, ricordi distorti e sogni per creare un’esperienza destabilizzante e affascinante.
  7. Total Recall (1990) – Paul Verhoeven
    Basato su un racconto di Philip K. Dick, esplora l’idea di ricordi impiantati e la difficoltà di distinguere la realtà dalla finzione. Effetti speciali davvero datati, visti con l’occhio di oggi, ma un action movie molto destabilizzante, interpretato da un Arnold Schwarzenegger in forma, molto prima di diventare il Governatore della California.
  8. Shutter Island (2010) – Martin Scorsese
    Un agente federale indaga sulla scomparsa di un paziente da un ospedale psichiatrico, mentre lotta con i suoi stessi ricordi e traumi.
  9. 50 volte il primo bacio (2004) – Peter Segal
    Una commedia romantica con un sottotesto malinconico: una donna perde la memoria ogni giorno e il protagonista cerca di farla innamorare di lui ogni volta. Per tante e tante volte, cercando di seguire i suoi sogni che, rivivendo sempre lo stesso giorno, avrebbe potuto non realizzare mai.
  10. The Bourne Identity (2002) – Doug Liman
    Un uomo senza memoria cerca di scoprire chi è, mentre viene braccato da forze misteriose. Una riflessione sull’identità e sul passato dimenticato.

Aggiungo un ultimo film sulla memoria. Un film del grandissimo Alfred Hitchcock: Spellbound. Anche qui la versione italiana (“Io ti salverò”) devia il senso del film che fa diventare una psichiatra giovane e determinata una “crocerossina”. Si tratta di un Thriller ambientato in una casa di cura negli anni ’40 nella quale viene accolto un nuovo medico che nasconde un segreto tanto tanto profondo, nascosto nei meandri della sua memoria.
Per questo film, Hitchcock ha voluto niente meno che Salvador Dalì per rappresentare il sogno.
A tal proposito mi piace ricordare il mio amico Ernesto Laura che su questo tema scrisse un gran bel libro.