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Presentazione di Giovanna La Vecchia

Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale già nel 2020 in occasione di un’intervista in cui ci aveva raccontato le “mille e una vita” di un uomo “Obelix” caduto nel paiolo della pozione magica delle parole. Giuseppe Cesaro: la musica, la bellezza, la famiglia, le parole, la forza. Fu un incontro inconsueto ed informale con un grande protagonista del nostro tempo: “Siamo noi l’anima delle cose. La fragilità è bellezza. Ed è infinitamente più ricca della solidità. Che, spesso, è pura apparenza”.

Giuseppe Cesaro (Sestri Levante, 12 marzo 1961) ha cominciato a scrivere professionalmente alla fine degli anni ’80. Giornalista, scrittore, ghostwriter, curatore, editor e traduttore, si occupa di musica, politica, società, narrativa, saggistica. Negli ultimi vent’anni, ha pubblicato 50 titoli – tra racconti, romanzi, memoir, graphic novel, saggi, biografie, traduzioni e sceneggiature – per alcuni tra i più importanti editori nazionali (Bompiani, Mondadori, La Nave di Teseo, Skira, Rizzoli). Dal 1998 è consulente ai testi di Claudio Baglioni. Ha firmato due romanzi (“Indifesa” – 2018, e “31 Aprile. Il male non muore mai” – 2021, entrambi editi da La Nave di Teseo) e un graphic novel (“Michelangelo. La parete perfetta” – 2017, edito da Round Robin) ed è co-autore di due libri inchiesta: “Ombre sul web” (2019) e “La fabbrica fantasma” (2020), pubblicati da Lastaria Edizioni. Lo scorso settembre, per Round Robin, ha pubblicato “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”: il metodo di lavoro messo a punto in quasi quarant’anni di scrittura.

Per il numero di Dicembre di Condi-Visioni ha voluto “condividere” con noi il suo pensiero sull’attuale momento storico e per questo gli dobbiamo un ringraziamento speciale. Giuseppe Cesaro è senza alcun dubbio una delle personalità più interessanti e poliedriche del nostro paese, leggerlo “crea dipendenza” perché ci obbliga ad una riflessione quanto mai necessaria. Certezza e speranza di un futuro possibile sono solo nelle nostre azioni, perché se è vero che “non dobbiamo aprire quella porta”, ricordiamoci che di porta non ce n’è mai una sola.

“A volte ritornano: non aprite quella porta!” di Giuseppe Cesaro

“A volte ritornano. E, di solito, sono incubi. E il ritorno che stiamo vivendo, non fa eccezione. Purtroppo. Del resto, quasi mai il passato è migliore del presente. Basta un’occhiata fugace a un (serio) libro di Storia per rendersene conto. Né è detto che un buon passato possa diventare anche un buon presente. Figurarsi, dunque, se può diventarlo un passato pessimo. Sto parlando del Fascismo, evidentemente. Il giudizio sul quale è totalmente negativo. E non è impugnabile, dal momento che è passato in giudicato da un bel pezzo. Non parlo del mio giudizio, che conta poco. Parlo del giudizio della Storia. La Storia vera, autorevole, documentata, meditata. Non le favolette degli imbonitori mediatici che cercano di spacciare per verità le bugie, per progresso il regresso, per libertà l’oppressione. Al contrario di ciò che sosteneva Novalis: non tutto, in lontananza, diventa poesia. L’errore resta errore. Il crimine, crimine. L’orrore, orrore.

La nostalgia, però, è un sentimento-rifugio che, ahimè, fa sempre presa. Soprattutto quando – come accade oggi – il presente fa paura. Una paura indotta, quasi sempre esagerata e ingiustificata. È allora che l’idea di un ritorno al passato rassicura, come l’abbraccio amorevole di un’amorevole madre o il tepore di un focolare domestico al quale tornare, per sentirsi, finalmente, al sicuro.

E, così, invece di guardare avanti, guardiamo indietro, dimenticando, appunto, che il passato non è migliore del presente. Eppure, la propaganda ci sta convincendo del contrario. Come? Da una parte, alimentando le paure, vecchie e nuove, dell’opinione pubblica (quella che Umberto Eco chiama “la costruzione del nemico”); dall’altra, fornendo risposte tanto facili, veloci e capaci di incantare, quanto false, folli e antistoriche.

Come una mamma che, accarezzandoci, sussurra: “dormi tranquillo: ci sono io, veglierò io su di te!”, la politica vuole che chiudiamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte e ci addormentiamo sereni. Non ci dobbiamo preoccupare di niente. Spegnerà la luce, chiuderà la porta e penserà a tutto lei. Riuscite a immaginare qualcosa di più rassicurante e tranquillizzante?

Sono queste le ragioni per le quali, ancora una volta, ci ritroviamo alle soglie di una svolta autoritaria. Questo, non altro, è il premierato. Altro che “democrazia decidente”. La nostra democrazia è “decedente”. In fin di vita, cioè. Vogliamo davvero staccarle la spina? Come mai ci ritroviamo di nuovo a questo punto? Non ci è bastata la catastrofe di cento anni fa? No, evidentemente.

Per capire a cosa stiamo andando incontro, dovremmo, innanzitutto, smettere di chiamare “politica” qualcosa che politica non è più, da decenni. Nel nostro Paese, la politica è morta 45 anni fa: 16 marzo 1978, quando Aldo Moro è stato rapito e i cinque agenti della sua scorta, trucidati. Quanto accadde 55 giorni dopo, fu solo il colpo di grazia. Morte violenta, dunque, non naturale. La politica andava tolta di mezzo e venne tolta di mezzo. Fine dei giochi.

Tutto quello che è venuto dopo l’omicidio Moro – andreottismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, grillismo, contismo, melonismo, per ricordare solo i passaggi più significativi – non è politica: è occupazione, spartizione, gestione e mantenimento del potere.

La politica è stata tolta di mezzo perché il Potere – che non è la politica ma la forza che condiziona ogni politica – non vuole rotture di scatole. E la politica – se è vera politica – è un’immane rottura di scatole. Perché fa domande inopportune (democrazia, diritti, giustizia, libertà, pace…), accampa pretese assurde e costose (istruzione e sanità gratuite, salari dignitosi, pensioni…), è lenta a decidere (confronto con le parti sociali, bicameralismo paritario…).

Contrariamente a ciò che crediamo, dunque:

  1. la politica non detiene il Potere. È esattamente il contrario: il Potere detiene la politica;
  2. gli “uomini politici” non esercitano il potere: sono strumenti nelle mani del Potere. “Utili idioti” che – come marionette ventriloque – fanno e dicono tutto ciò che il Potere comanda loro di fare e dire;
  3. il Potere non ha un nome e un cognome e nemmeno una faccia.È una forza – anonima, invisibile, onnipresente – che ha un potere di seduzione così forte, che è quasi impossibile resisterle. Si impossessa della coscienza degli uomini, fino a renderli schiavi. In cambio, offre loro l’illusione del comando (“Cumannari è megghiu ri futtiri” – “Comandare è meglio di fottere” – recita la millenaria saggezza siciliana), soldi, sesso, droghe, lusso, glamour, fama…

“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

Gesù resistette alle tentazioni. La maggior parte degli esseri umani, purtroppo, no. Il Potere lo sa: arruola coloro i quali cedono alle sue seduzioni e fa in modo di mettere gli altri in condizioni di non nuocere.

Il Potere ha solo quattro obiettivi: ottenere, conservare, incrementare e perpetuare sé stesso. E, per raggiungere questi obiettivi è disposto a qualunque cosa. Con “le buone”: favori, prebende, corruzione, morale e materiale. O con “le cattive”: ricatto, violenza psicologica e fisica, demolizione della credibilità e dell’immagine pubblica degli avversari o loro eliminazione.

Per parafrasare una celebre favola dell’antichità, il Potere è lo scorpione, il popolo è la rana, e la classe dirigente (che, personalmente, preferisco chiamare “digerente”), il “coro” che fa di tutto per convincere la rana a fidarsi dello scorpione, caricarselo sulle spalle e lasciarsi indicare da lui la rotta giusta per attraversare il fiume. 

Ma le vere domande sono:

  • perché preferiamo chiudere gli occhi, girarci dall’altra parte e dormire, lasciando che pensi a tutto “mammina”, piuttosto che tenere gli occhi ben aperti e assumerci la responsabilità delle scelte importanti che riguardano la nostra vita?;
  • perché, anche se sappiamo benissimo che lo “scorpione” ci ucciderà (è la sua natura!), continuiamo a dare retta al “coro”, e crediamo che lo scorpione ci indicherà la rotta giusta per arrivare, sani e salvi, sull’altra sponda del “fiume”?

La risposta è semplice. Semplice ma devastante: siamo codardi e profondamente bugiardi. Dichiariamo di amare e desiderare la libertà e, invece, non la vogliamo affatto, perché abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità.

Del resto, che la natura umana non fosse proprio perfetta, lo sapeva fin troppo bene colui il quale dettò a Mosè le Tavole della Legge. Non è certo un caso, infatti, se Dio comanda all’uomo di Non uccidere, Non commettere adulterio, Non rubare, Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo, Non desiderare la moglie del tuo prossimo, Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo. Se avesse saputo che l’uomo non aveva bisogno di tali raccomandazioni, il Padre Eterno non avrebbe certo perso tempo a dargliele. Evidentemente, invece, conosceva così bene le sue creature che sapeva di doverlo fare.

E assai bene conosceva gli uomini anche Gesù, quando decise di introdurre il comandamento che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché sentì il bisogno di farlo? Perché sapeva benissimo che gli esseri umani sanno amare solo sé stessi e che amare l’altro è contro natura. Del resto, se amare l’altro fosse qualcosa di naturale, non ci sarebbe stato certo bisogno di un comandamento che impone di farlo!

Ma la natura umana è ben nota anche a noi umani. Da sempre. Non sbagliava, ad esempio, Machiavelli quando, quasi cinquecento anni fa, scriveva che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Questo siamo. Ed è esattamente su questo che conta il Potere.

Né sbagliava Étienne de La Boétie quando – pochi anni dopo la pubblicazione de “Il Principe” – nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”, si chiedeva come fosse possibile che “tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se quella che essi gli danno; che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo”. E tutto questo non perché gli uomini siano “costretti da una forza più grande”, ma perché “incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”. “Son dunque – scriveva ancora La Boétie – gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi”. È il popolo, dunque, che “acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. Evidentemente, “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

Analisi condivisa anche da una delle coscienze più alte e lucide della storia dell’umanità, Fëdor M. Dostoevskij. A fine Ottocento, in uno dei capitoli de “I fratelli Karamazov” noto come “La leggenda del grande inquisitore”, Dostoevskij è piuttosto chiaro riguardo alla nostra fobia della libertà: “Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”; “nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”; “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”. E, ancora: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

Su tutte queste cose conta il Potere, che conosce la natura umana almeno quanto Dio, Gesù, Machiavelli, La Boétie e Dostoevskij.

“Governabilità”, “stabilità”, “monocameralismo”, “premio di maggioranza”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, “democrazia decidente” sono, dunque, tutte parole d’ordine-truffa. Le marionette ventriloque vogliono farci credere che, più rinunceremo a quel po’ di potere di decisione che ci è rimasto, più potremo decidere del nostro futuro. Non sembra anche a voi una follia? Eppure, ancora una volta, stiamo per dare retta al “coro” e caricarci sulle spalle lo “scorpione”, perché sia lui a indicarci la rotta giusta per attraversare il “fiume”.

La follia più grande di tutte, dal momento che, come tutti sanno, lo scorpione ci ucciderà. E quando, in punto di morte, gli chiederemo: “Perché?”, ci risponderà: “È la mia natura!”. E solo allora ci renderemo conto di quanto siamo stati stupidi. Tornare indietro, però, non sarà più possibile.

Cambiare è un privilegio molto recente. I popoli del passato non ne godevano. Perché noi vogliamo rinunciarci? Perché siamo disposti ad accettare che chi sta al governo ci resti il più a lungo possibile? Chi avvantaggia questa “stabilità”? Noi o lui? Prima di rispondere, riflettiamo sul monito di Bobbio: “meglio cinquanta governi in cinquant’anni che uno solo in venti”.

Non solo. Se, come diceva Gaber, libertà è partecipazione: è evidente che, meno partecipiamo alle scelte che riguardano la nostra vita, meno siamo liberi. Pensiamoci ogni volta che ci chiedono di dare a loro il potere di scegliere e decidere per noi.

Se coloro i quali preferiscono rinunciare alla loro libertà lo facessero, senza pretendere che anche tutti gli altri facciano la stessa cosa, il problema sarebbe grave ma limitato, poiché riguarderebbe soltanto coloro i quali si voglio rendere servi. Dato, però, che i servi vogliono che anche tutti gli altri diventino servi come loro, il problema diventa molto infinitamente più grande e più grave, poiché il servilismo di pochi finirà col rendere servi anche tutti quelli che non vogliono diventare servi ma rimanere liberi. E la democrazia avrà fatto harakiri.

L’ho detto: a volte ritornano. E, di solito, sono incubi. I peggiori. Meditate, gente, meditate. E, soprattutto, non aprite quella porta!” 

A oltre sessanta anni dalla loro prima uscita discografica – 5 ottobre 1962 con Love Me Do – i Beatles rappresentano ancora “la musica”. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, un centro portuale piuttosto misconosciuto fino a quel momento, hanno rivoluzionato, con le canzoni che hanno scritto e il modo di presentarsi, non soltanto il settore delle sette note ma in generale tutta la società. Non c’è aspetto della vita post-bellica, dalla moda al look, che non sia stato influenzato dal gruppo di Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Ma non solo. I Beatles – così come negli Stati Uniti prima di loro aveva fatto Elvis Presley – hanno portato alla ribalta realtà temi come la spiritualità (il viaggio in India del ’66), l’attenzione ai temi sociali (il rifiuto di esibirsi per un pubblico segregato nel sud razzista degli Usa l’anno precedente) e innumerevoli altri settori della vita contemporanea. 

Oggi, a oltre sessanta anni dalla prima volta, i Beatles sono “tornati” con un brano – Now and Then – scritto da John poco prima della sua morte e che la sua vedova Yoko Ono ha affidato a Paul perché lo rendesse un “ritorno” in grande stile. Operazione riuscita, visto che i “Fab Four” sono di nuovo in testa alla classifica dopo tanti decenni. E, curiosamente, a fargli compagnia nella top ten americana ci sono i Rolling Stones, a dimostrazione che certa musica è davvero immortale. 

Paolo Borgognone, giornalista e scrittore, autore per Diarkos Editore delle biografie “Freddie Mercury. The show must go on”, “Io Elvis. La parabola immortale di The King”, “Martin Luther King Jr. I Have a Dream”, ha da poco pubblicato “Beatles. Il mito dei Fab Four”.  Nato nel 1962 coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. Ha collaborato con importanti testate nazionali e realizzato diversi lavori di “ghost writing” ed editing, oltre ad essere impiegato come addetto stampa per un ento pubblico.

Se Elvis, come è stato detto, ha rappresentato il “big bang” della cultura giovanile, i Beatles hanno a loro volta assunto lo stesso significato che nella scienza viene dato alla comparsa della vita. Dal momento in cui è esplosa la Beatlesmania – 1964 – i ragazzi di tutto il mondo hanno trovato un modo per esprimersi. Da qui nascono i generi musicali che ancora oggi si ascoltano e tutti quei movimenti che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’60 con temi come i diritti delle minoranze, l’opposizione alla guerra, il desiderio di libertà e uguaglianza che sono ancora oggi l’urgenza che anima milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. 

“Il libro che ho scritto parte proprio dalle radici, da quella città che tanti conoscono per nome ma che pochi saprebbero trovare su una cartina muta e che ancora meno hanno avuto la fortuna di poter visitare” Borgognone ci spiega il percorso di questa nuova biografia sui Beatles. “Ho ricostruito la storia di Liverpool, prendendo come momento chiave quello dei terribili bombardamenti a cui fu sottoposta durante la Seconda guerra mondiale. Che è proprio il momento in cui i quattro ragazzi vedono la luce. Ho poi cercato di raccontare la storia delle loro famiglie, il retroterra culturale, sociale, politico, di un Paese che stava riemergendo dal conflitto e che, dopo anni di sofferenza e di “grigio” cercava proprio un modo per rinascere. L’esplosione di colori, suoni, mode rappresentata dalla “swinging London” di quegli anni è al tempo stesso causa ed effetto del successo dei Beatles. Ho poi ripercorso le tappe della loro carriera: dal primo incontro tra Lennon e McCartney – 6 ottobre 1957 – fino alla residenza ad Amburgo, apprendistato durissimo e formativo. Poi, a partire dal 1962, un capitolo per ogni anno. Con l’eccezione del 1964, quando ci fu lo sbarco in America, talmente ricco di storie da aver richiesto un doppio capitolo. Un altro l’ho dedicato al breve, ma significativo, tour in Italia del 1965. Solo pochi concerti ma l’occasione giusta per raccontare anche un poco di questo Paese, desumendone atteggiamenti e opinioni dal modo in cui i “Fab Four” vennero accolti, male per la precisione, con un atteggiamento quasi canzonatorio e che cercava di sminuirne le capacità. Si pensi che lo stesso anno delle date italiane, spesso con poco pubblico ad assistere, i Beatles si esibirono allo Shea Stadium di New York per 56mila spettatori! Il testo arriva fino al 1970, anno dello scioglimento della band e della pubblicazione dell’ultimo LP per poi chiudersi con un capitolo finale che racconta i tentativi fatti negli anni di riunire il gruppo. Tentativi che, per vari motivi ma non certo per mancanza di volontà da parte dei protagonisti, non andarono in porto e furono poi stroncati dall’omicidio di Lennon a New York l’8 dicembre 1980”. 

Abbiamo incontrato Paolo Borgognone per i lettori di Condi-Visioni.

Un altro libro sui Beatles? Perché? 

“ Perché i Beatles “sono” la musica. Quello che hanno portato nel settore delle sette note non è finito certo con lo scioglimento del gruppo nel 1970. Ci troviamo davanti a un fenomeno di costume che ritorna continuamente e che sta continuando a influenzare la società contemporanea. Proprio pochi giorni fa, accendendo la tv, ho visto una pubblicità con una loro canzone come sottofondo. Segno tangibile che il loro sound, le mode che hanno lanciato, i messaggi che hanno portato sono attualissimi e ascoltati ancora oggi”. 

Ci sono ancora cose che non sappiamo? 

“Abbiamo appena scoperta una nuova canzone. Con una storia affascinante dietro. Certo, le biografie sui Beatles si sprecano, forse sono gli artisti su cui si è scritto di più e quindi è impossibile trovare la notizia inedita. Ma il processo di avvicinamento alla vicenda personale, sociale e musicale del gruppo si presta a infinite riletture e questa vuole esserne una dedicata in particolare ai ragazzi di oggi, quelli che non 1970 non erano nati e che pure si interessano alla storia della più grande band di sempre”. 

Che tipo di studio ha fatto per realizzare questo libro? 

“Il primo passo è stato riascoltare tutto. Dai primordi, dai “Beatles prima dei Beatles” fino all’ultimo disco, oltre naturalmente alle tappe fondamentali della carriera da solista di ognuno di loro. Quindi ho ripassato le biografie che ne hanno tracciato la storia, a cominciare dalla monumentale “Anthology” che racchiude davvero tutto o quasi lo “scibile” sul gruppo. Poi, naturalmente, ho cercato di limare le differenze che inevitabilmente compaiono tra i vari testi, provando a uniformare le date soprattutto. Per la prima parte, poi, quella dedicata alla città mi sono affidato anche ai ricordi. Ho avuto il privilegio e la fortuna di visitare Liverpool in uno dei periodi più difficili della sua storia, durante il governo della feroce signora Thatcher. Rammento una città ferita, offesa, trascurata, ma viva e piena di musica. Impossibile non amarla…”.  

C’è un punto di vista differente o aspetti nuovi che non erano stati presi in considerazione in precedenza? 

“Un mio carissimo amico, giornalista e scrittore, fan dei Beatles da sempre, nel presentare il volume ha detto: “Io pensavo di sapere tutto sul gruppo, ma questo libro mi ha fatto scoprire aspetti nuovi anche per me”. Ho cercato, in apertura, di situare i “Fab Four” all’interno del periodo storico nel quale sono nati, ovvero durante gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale e anche nel tessuto geografico della loro città di origine. Un posto di cui tanti hanno sentito parlare ma che, in realtà, pochissimi conoscono veramente. E che – invece – ha fatto da sfondo alla loro crescita personale e musicale, diventando protagonista delle vicende che raccontiamo”.  

Questo ritorno secondo lei è stata una pura operazione commerciale o una volontà precisa di affermare “noi siamo ancora qui”? 

“Un’operazione commerciale non direi proprio. Nessuno dei protagonisti ha certo bisogno di far uscire un brano inedito per mettere insieme il pranzo con la cena. Credo fosse giusto, a questo punto, chiudere il cerchio di questa esperienza. Non a caso, il singolo è stato pubblicato insieme a una riedizione di “Love Me Do”, il primo disco – per noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle un “quarantacinque giri” – con il quale era iniziata l’avventura in quell’ormai lontano ottobre 1962”. 

Paul McCartney e Yoko Ono hanno trovato un canale di comunicazione per realizzare insieme ancora dei progetti?

“In realtà i rapporti si sono, per fortuna, molto semplificati con gli anni. Yoko – da tanti considerata una “nemica” del gruppo, idea che non mi trova d’accordo – ha avuto la sensibilità di lasciare a McCartney e Starr l’onore e l’onere di regalarci questa perla. Il lavoro che è stato fatto sulla traccia originale di Lennon è straordinario: alla fine abbiamo una canzone indubitabilmente dei Beatles ma che non risente degli anni che sono passati. Anzi. E il successo discografico – il primo posto nelle classifiche inglesi e americane – testimonia che la scelta fatta è stata giusta”. 

Quanto serve oggi e soprattutto ai giovani “ritornare” ai Beatles?

“Conoscere questa musica – cui accosterei quella di Elvis Presley, un altro titano del settore che ha tracciato la via per innumerevoli altri artisti – significa fare il primo passo per capire tutto quello che è venuto dopo. E anche quello che esiste oggi. Il panorama musicale è stato così fortemente influenzato dai Beatles che ignorandoli si perde la possibilità di comprendere il fenomeno anche nella sua contemporaneità”. 

 Secondo lei qual è il messaggio più importante che hanno dato i Beatles?

“Ne hanno lasciati tanti. Messaggi di amore, pace, voglia di vivere, rispetto per gli altri, anche di impegno per combattere le ingiustizie quando era necessario. Nessuno di questi argomenti può dirsi risolto, quindi le parole e i gesti che i Fab Four hanno tramandato ai posteri sono ancora estremamente attuali. Se proprio dovessi scegliere una frase a simboleggiare il loro lascito, utilizzerei, quella che chiude “The End”, l’ultimo brano che hanno registrato tutti e quattro insieme, pubblicato sull’album “Abbey Road”: “In the end / the love you take/ is equal to the love you make” …” 

 Come sarebbero andate le cose se John Lennon non fosse stato ucciso? 

“Il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere! Esagerazioni a parte, è molto possibile che avremmo potuto avere l’occasione di rivedere i Fab Four esibirsi insieme, come in fondo loro stessi avrebbero voluto fare. Penso a che chiusura sarebbe stata per un evento – per esempio – come il Live Aid del 1985 se, alla fine, fossero comparsi loro quattro e avessero fatto un ritorno in grande stile mettendo insieme cinque o sei delle loro canzoni più celebri: “Yesterday”, “Let It Be”, “Penny Lane”, “Strawberry Fields” “Something”… e così via. Il più grande spettacolo di sempre. Purtroppo l’instabilità mentale di un fanatico religioso ci ha privati di tutto questo”. 

La dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello: Roma nelle liriche di Luigia Panarello, il grande amore di una vita intera. 

Etabeta edita la silloge “Via del cancello” di Luigia Lupidi Panarello.

Pierpaolo Pasolini l’aveva soprannominata “tre vite”. A noi sembrano anche poche per descrivere un’artista come Luigia Lupidi Panarello. C’è tanto di tutto in lei e nella sua vita, tanta Roma, tanta poesia, tante amicizie straordinarie, tante esperienze e tante sofferenze vissute con quella leggerezza e meraviglia allo stesso modo di come si vivrebbero le gioie e i successi della vita. Una combattente in prima linea, una partigiana delle idee e della cultura non paludata e non avulsa dal reale. Così la definisce Titti Presta. E ancora non basta. Una protagonista senza protagonismi, una formazione artistica ed umana ricca e movimentata, “vivere è più semplice di evitare di farlo” dichiara con impulso e stupore. Garbata, “perbene”, naturale e simpatica, Luigia Panarello si impone con umiltà nello scenario poetico italiano, così come fa in questa intervista per la quale la ringraziamo moltissimo. Non è cosa da poco raccontarsi senza filtri e senza prendersi poi così tanto sul serio. Il mondo ha bisogno di voci fuori dal coro perché la bellezza è fatta di piccoli frammenti di lucidità in mezzo ad un mare di improvvisa creatività. La poesia di Luigia Panarello ci ricorda di cosa siamo fatti e per cosa siamo fatti. Vivere. Punto.

La sua silloge “Via del cancello” è un volume che racconta la poesia, la religione, la politica, la società, la cronaca di una “sua” Roma. Quale percorso l’ha portata alla scrittura di un testo così importante?

“Proprio per quella cronaca… che a Roma passa sempre più per l’ispirazione poetica che per la logica intellettuale, altrimenti più dettata da un parlato prosaico che letterario. Vivere a Roma significa la messa in gioco delle emozioni e delle passioni sempre. Non si resisterebbe sennò al suo investire il cittadino del “troppo” che è in tutto. Roma infatti non è una città metropolitana, ma la condizione umana in cui lui viene messo dalla scelta volontaria e volenterosa di starci. Dunque con questa scelta quasi sacrificale, è insita anche il darne una tipologia di lettura personale per orientarcisi. Quella poetica permette di farsi meno male, di avere sorprese anche gratificanti a volte. Non per nulla qui c’è un detto da tifo sperticato: Roma non si discute. Si ama!” 

Come nasce la sua “fame” di poesia?

“La mia testa è uno strumento acustico. Non ragiona. cerca sulle mie corde parole e frasi adatte a descrivere l’immagine, ad enunciare in metafora ciò che penso per districarlo dall’intimismo. Funziona così da sempre, usando soprattutto intuito e percezione. Io “sento” il colore come orbo, leggo dalla bocca cosa “comunica” la circostanza come sordo. Ho una forma di handicap cognitivo, se non esistesse la poesia, probabilmente avrei patito una pena esistenziale ragguardevole, che invece la poesia ha trasformato in veicolo dell’attrazione per la vita”.

Ci racconti come nasce il titolo di quest’opera.

“Via del Cancello è la strada, quasi un vicolo comunicante dal mio ufficio al fiume, che percorro quando esco di lì per tornare a casa. E’ un luogo di liberazione concreta e quotidiana, un momento di svagatezza, un tracciato di identità. Il cancello che si apre con discrezione per lasciarmi andare oltre la ripetitività quotidiana. Cioè un’annotazione cerchiata in rosso sulla cartina dell’esistenza, perché bisogna avere riferimenti certi per non perdersi”.

Una divisione in due parti, Roma mia nello sguardo e Roma mia nell’anima. Perché ha sentito l’esigenza di una così netta suddivisione, in fondo la poesia è canto unico.

“Eh… avere una relazione con la matrona comporta tenere ben spartite le sue qualità seduttive e le sue velleità dominatrici…Roma non è una metropoli moderna, è ancora la dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello, o te ne fai proteggere, e perciò l’accetti magnifica e cinica, oppure se ne ricorderà della tua indipendenza e ti strazierà spesso e volentieri di colpi in agguato e di malinconie struggenti. Devi assolutamente contenerla in due vasi e farne tu la mediazione, per restare conscio con chi hai a che fare”.

Poesie di sguardo e di anima, per descrivere il suo lavoro. Una espressione molto profonda. Cosa ci consente di vedere meglio, gli occhi o l’anima?

“Assolutamente la propria personalità, che le due componenti aiutano nella funzionalità metabolica. Altrimenti è un pasticcio della malora che squilibra”.

Paesaggi interiori e paesaggi naturali, una contaminazione ed una interazione di forza e potenza straordinarie. Percepirli entrambi è una grande ricchezza, possederli entrambi è un’approssimarsi alla perfezione del vivere. Cosa ne pensa?

“Piuttosto è come avere quei doni extrasensoriali, che per carità arricchiscono la qualità dello stare al mondo, ma sono pure delle condanne a non poter stare mai spensierati. Un pizzico di leggerezza, per fortuna, lo offre la romanità con la sua ironia dissacrante, per non prendere ogni elaborazione e se stessi sempre sul serio!”

Roma così tanto appieno descritta è cosa assai rara. C’è ogni aspetto, ogni persona, ogni anima di una città così tanto complessa e così tanto amata. E’ stata un’analisi di sicuro anche dolorosa.

“Ho avuto maestri fantastici in questo, mi hanno educata e istruita con la loro storia fatta di vicende individuali e di fatti epocali raccordati. Pierpaolo Pasolini, mia madre, gli ebrei del ghetto, i bancarellari dei mercati rionali…e le soste sulla banchina dell’ Isola Tiberina a riflettere solitariamente”.

Il suo amore per Roma è completo e complesso. Un amore “organizzato” che, come i più grandi amori, raccoglie in se ogni dettaglio e particolarità, nel bene e nel male. C’è qualcosa di Roma che è rimasta “intatta”, incontaminata, eterna?

“Più che intatta, è inviolata la sua completezza. Roma non è invadibile! L’assediano, di tanto in tanto, dai barbari ai mafiosi, dagli invidiosi ai parassiti, ma Roma quando poi si spazientisce li scrolla di sella e torna a pascolare sul prato della pigrizia, indisturbatamente. Pure il papato ha ridotto in una porzione di terreno recinto! Roma resta signora e padrona della sua indolenza sdegnosa verso ogni bega trionfalistica, le basta farsi le sue gite al mare quando c’è il sole o su qualche colle da rudere all’aria aperta. Il resto non la riguarda: il tempo gli umani se lo trascorrano e se lo perdano come vogliono, lei lo dispone nell’interezza”.

Quale immagine rappresenterebbe meglio oggi la sua Roma?

“Il Gasometro oramai inutilizzato che sta vicino alla Garbatella, unico rione fuori mura, che segna il passare della modernità quanto un monumento”.

Cosa le manca di più della “sua” Roma che vorrebbe resuscitare?

“Le latterie, i bar di una volta, centro sociale casareccio, con le pareti maiolicate e la panna montata fresca la domenica con la cialda per mangiarla. Ma anche lo spirito di “quelle” domeniche che la gente banchettava col pollo arrosto e la romanella nel quartino “co l’amichi de famija” magari alle baracche sull’Aniene”.

Mi vuole raccontare la rabbia per lo sgombero feroce di Piazza Indipendenza nell’agosto del 2017?

“Più che rabbia un dolore da raccapriccio: fu uno sbattere in strada bambini, anziani, donne, uomini decorosi e indifesi, da un posto inutilizzato per anni, cioè abbandonato alla fatiscenza, tenuto bene proprio solo per avere un’abitazione. Fu un sabba di prepotenza inaccettabile, a cui si oppose la rassegnazione disperata di somali ed eritrei, profughi di altrettanti soprusi. Fu un pianto di vergogna il mio, appoggiata ad un albero, perché avveniva ed ero impotente, ed ero comunque una borghesuccia bianca che non poteva soprattutto assolversi per niente”. 

Tra i tanti personaggi conosciuti e frequentati, Pierpaolo Pasolini e Alda Merini. “E come si fa” è la poesia che ha dedicato a Pasolini. “E come si fa a non pensarti”. Ci può raccontare del vostro rapporto?

“Neanche tanto occasionale con entrambi, fortuitamente fruito come tutte le migliori occasioni che ho avuto vivendo di curiosità. Due persone etiche, ma entrambe con delle faide interiori come baratri. In Alda questa generò l’innocenza, in Pierpaolo causò la colpa. Eppure avevano la stessa natura spirituale da asceti, esseri nudi ed esposti come volatili in fuga dalle gabbie. Li hanno bersagliati pure sotto i miei occhi, li hanno traditi senza alcuna remora e dileggiati oltre ogni impudenza. Sono stati “la diversità” rifiutata perché riguardava identità e mente, che ciascuno invece camuffa di banalità spregevole, di pusillanime normalità. Li ho conosciuti perché li ho ascoltati, perché non mitizzo, riconosco però sempre l’autorevolezza di quelli con cui condivido la tavola, sennò preferisco la mia solitudine. E loro due erano e saranno certamente autorevoli, al di sopra del giudizio scontato che si usa per liquidare chi ci turba. Raccontarne porterebbe via la redazione di due volumi interi perché non furono anni trascorsi invano a cercare di crescere!”

So della sua ammirazione per Papa Francesco. Qual è il suo rapporto con la religione?

Sono cristiana e apprezzo anche la filosofia buddista, ma religiosa ben poco come canone di pratica. Ritengo che tutti dovrebbero coltivare la spiritualità in bilanciamento con la laicità. Sono cristiana, ho fede nella compassione come cambiamento del comportamento egoistico che danna la società. Francesco lo “amoro”, arrivo pure a fermarmi in chiesa davanti al crocefisso per chiedere forza per lui. Non sono più reverente al clero vaticano istituzionalizzato. Sarà perché provengo da un’epoca di incontri come Di Liegro, Bello, Gallo e Madre Teresa? Probabile….”

La sua produzione è monumentale, scrive quotidianamente. E’ come fermare ogni emozione su tutto ciò che accade nella sua vita ma anche nella vita degli altri. E’ questo un mezzo per vivere meglio, per vivere bene?

“Por vivere a mi manera”

Una vita, la sua, che sembrano tante vite di tante persone diverse in una sola unica straordinaria città: Roma. Quanto è importante diversificarsi ed adeguarsi senza però mai perdere se stessi?

Pierpaolo Pasolini mi aveva soprannominata “tre vite”. Io penso solo che mi viene spontaneo accettare quel che viene e andare avanti”

“Non mi sono però depressa”, scrive parlando delle difficoltà della sua vita. Oggi ci si deprime per molto meno, per molto poco, per niente. Abbiamo perso il senso ed il valore della parola “difficile”? 

Oggi avverto più l’accasciamento della fatica, non dovuta alla difficoltà, quanto al carico esuberante dell’eccesso, del superfluo”

“C’è domani come giorno come altro opportuno possibile come quantità di tempo”. Trovo questo verso di “Colata di verde” molto delicato, un modo antico per dire che c’è il nuovo, il futuro, la speranza. Quanto è necessario soprattutto oggi guardare avanti?

“Invece curiamoci di rallentare subito, perché cambiare comporterà un salto in lungo, slancio nelle gambe e spinta. Ci vuole metodo studiato per superare la gravità”

“Figlia non riconosciuta di madre ignota”. Quanto ha significato questo aspetto della sua vita nella sua crescita, nel suo sviluppo e nella sua poetica?

Fondatezza del perché leggo e scrivo e disegno. L’ignoto così non diventa ossessione”

La consapevolezza di essere speciali per aver vissuto delle esperienze radicali, profonde quanto eterogenee, e avere continuato a camminare con questo bagaglio compressi verso terra” scrive di lei David Giacanelli. Lei è consapevole di essere un “essere” speciale?

Particolare, sì, particolare quanto un albino o un uomo in kilt ad un concerto”

Coraggiosa, impavida guerriera, con parecchie marce in più, ma non votata alla gloria ed alla fama. Per cosa vale la pena vivere Sig.ra Luigia?

“Per esserci: meravigliosa opportunità vivere!”

“Il suono dei versi ha un potere benefico”, per chi scrive e per chi legge. Quanto abbiamo ancora bisogno di scrivere e di leggere poesia?

Data la brevità, la poesia sarà il linguaggio del futuro, svincolato dalla metrica e dai temi solo romantici”

C’è chi dice e crede ancora che la poesia abbia il potere di salvarci. Perché è nella natura del poeta rimanere lontano dall’inferno dell’ignoranza e della meschinità. Lei ci crede?

La poesia è angelica. Il poeta è soltanto un testimone attento, una piccola vedetta. Può sfracellarsi giù dal pinnacolo ad ogni folata di tentazione, vizio, colpa, peccato. Nessun uomo è santo, semmai può esercitare la beatitudine, ma è uomo”

Mi vuole declamare uno dei versi più cari alla sua vita? 

Ma davvero mi si chiede che attacchi “Le ceneri” di Gramsci? Tra l’altro le recito leggendole a mente, mai pronuncio quello che mi piace. Lo sacrificherei forzandolo all’impudicizia della prosa vocale e lo faccio al cimitero della Piramide”

Alcuni suoi versi mi hanno riportato alla delicata profondità di Peppino Impastato: “I miei occhi giacciono in fondo al mare nel cuore delle alghe e dei coralli”. Vorrei concludere l’intervista con un suo pensiero su Peppino e su questi versi. Mi concede questo regalo? 

“Dei bambini veri non diventeranno mai adulti, saranno vicini nei paesi, nelle merende di niente strofinate alle fette secche, avranno avuto per giochi soltanto le pietre aguzze sotto i piedi per correre. Peppino era un piccolo che seppe diventare grande, restando per la mano a sua mamma Felicia, che gli aveva insegnato il bello del nespolo, il canto del fringuello, tutto quello da avere finchè si può bere, finchè si può respirare, finchè il mare fa tuffare da una giornata libera. Quei bambini delle imprese da coraggiosi come bucanieri, sconfiggeranno vigliacchi serpi e loschi farabutti acquattati, avranno deciso, per vincere, dei massi lisci, podi da saltare a pieppari. Peppino era un mingherlino cui riuscì farsi gigante, andando alla ventura paurosa contro la criminale mafia che lo aveva minacciato di infamarlo, di ucciderlo, perché senza più sangue non sarebbe più cresciuto”.

I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti.
Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.

La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.

La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità.
Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci.
Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.

Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.

Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.

Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.

Dopo lo straordinario successo della scorsa edizione, con circa 400 partecipanti, tra pazienti,
medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, si riaffaccia a Roma la
SarkRace, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la
ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione
clinica.

L’appuntamento è per domenica 24 settembre 2023, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del
Portillo, 5
, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico
Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di
Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km.
Al termine della manifestazione sportiva, saranno premiati i primi tre classificati e verranno donati
alcuni gadget ricordo per tutti i partecipanti.
L’evento, ideato ed organizzato dall’Associazione Sarknos, in collaborazione con la Fondazione
Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX
di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in
Oncologia).

Numerose le autorità istituzionali che hanno abbracciato l’iniziativa e non hanno voluto mancare a
questo appuntamento di solidarietà, impegno, testimonianza e sensibilizzazione. Saranno presenti
la Senatrice Paola Binetti (Presidente onorario Associazione Sarknos), l’On. Luciano Ciocchetti
(Vice Presidente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati), l’On. Massimiliano
Maselli
(Assessore Servizi sociali, Disabilità, Terzo Settore, Servizi alla Persona della Regione Lazio),
l’On. Marco Bertucci (Presidente IV Commissione Bilancio della Regione Lazio), l’Ing. Carlo Tosti
(Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico), il Dott. Patrizio
Chiarappa
(Assessore Sport e Grandi Eventi Municipio IX Comune di Roma).
La “iena” Filippo Roma, da sempre amico e sostenitore dell’associazione Sarknos, condurrà la
giornata in tutti i suoi momenti e sviluppi.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura del sarcoma.
Per info e iscrizioni: amministrazione@sarknos.it


Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e
pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il
percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo.
Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del Dott. Sergio Valeri – Responsabile Unità Operativa
Semplice – Chirurgia dei Sarcomi dei tessuti molli presso la Fondazione Policlinico Universitario
Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler
creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale
dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di
promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos
sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti.
Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove
la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere
dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti
sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e
terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e
contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di
sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al
miglior trattamento possibile.

Ufficio stampa SarkNos
Gerry Mottola
Tel. 3332725538
ufficiostampa@sarknos.it

Di solito la fine dell’anno è il momento dei bilanci, è quel momento nel quale ci si concede un pò il tempo per andare ad analizzare quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. A volte non è che ci si concede il tempo, ma è il tempo stesso che suona la campanella interiore che ci dice che l’ora è finita e che quindi prima di passare alla lezione successiva è necessario chiudere i quaderni e i libri. Converrete con me che, almeno a volte, quello della campanella non sia proprio un suono così piacevole.
Insomma il momento del bilancio quando arriva, arriva. E il momento della pubblicazione di quest’ultimo numero di Condivisione Democratica, è proprio un momento nel quale fare un bilancio.
Un bilancio, ma forse anche più di uno: un bilancio dell’anno in corso, un bilancio degli ultimi 10 anni – 2 lustri! Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a tagliare questo traguardo – un bilancio del lavoro che si sta svolgendo, un bilancio della vita che si sta conducendo, così come la si sta conducendo, un bilancio sulle proprie aspettative e di come le abbiamo alimentate, un bilancio delle cose che ci danno soddisfazioni e di quelle che ci portano frustrazioni.

Ho imparato ai tempi della scuola la Partita Doppia.
Mi sono reso conto che per molti questo concetto è o considerato astruso – e quindi ignorato – oppure è banalizzato – e quindi abbandonato – in particolare per questi ultimi vorrei far sapere che la Partita Doppia non dice che c’è un elenco “del Dare” e un elenco “dell’Avere” – assolutamente no, quella è la Partita Semplice! – ma ci sono contemporaneamente movimenti che riguardano il Dare e l’Avere, nell’aspetto Economico e nell’aspetto Patrimoniale. Contemporaneamente. Detto così sembra difficile – e potrebbe: in effetti il primo a descriverlo fu Luca Pacioli un Matematico (nel suo “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita” nel 1494) – ma non disperate assolutamente, perché proverò a cercare altre parole.
La Partita Doppia non è un elenco di soldi che si devono Dare e di soldi che si devono Avere, questo, come dicevo, è la Partita Semplice, con una “contabilità” così non verrebbe fuori il valore intrinseco delle cose. Non emergerebbe quanto vale quello che abbiamo comprato: ipotizziamo di aver pagato il macellaio per la sua merce, diciamo 100€, ma non è riportato il valore di quello che abbiamo avuto in cambio. 100€ di carne risponderebbero i più. Beh no, perché quella carne che abbiamo pagato 100€ probabilmente finirà nella cella frigorifera, e potrò consumarla un pò per volta da solo o tutta in un’unica grigliata con gli amici oppure ancora, se la cella frigorifera si dovesse rompere o se dovessi attendere troppo, potrebbe anche andare tutta a male e finire direttamente nel cestino dell’umido. Tutto questo, quello che avviene dopo “l’azione dell’acquisto”, dove verrebbe riportato, se avessi solamente segnato il “movimento” ma non il “valore”?
Più chiaro ora?
Il bilancio non è solamente un elenco di elementi, di soldi, di immobili, di merce, ma la loro storia, di come si siano mossi all’interno dell’azienda. Come i singoli movimenti economici si siano trasformati in qualcosa di diverso, di come siano diventati degli uffici, dei capannoni – quindi degli elementi del Patrimonio – o la merce che nei capannoni è stoccata, di come siano diventati dei contratti di lavoro, di come siano riusciti a creare delle plusvalenze, quel “valore aggiunto” economico che in ultima analisi è la ragion d’essere di una azienda, di una impresa.
Ecco il bilancio, anzi i bilanci, che vorrei fare e che vorrei proporre, sono focalizzati sul “Patrimonio” e sul “Valore Aggiunto”. Su quegli aspetti che rimangono comunque, perché duraturi, e quegli aspetti che danno il senso di quello che si sta facendo, anche se possono essere effimeri.
Tracciamo una linea quindi, e facciamo i nostri ragionamenti.
Permettetemi poi un gioco di parole sciocco: nella vita, a differenza dei bilanci aziendali, i valori Patrimoniali non sono Immobili, ma mobili, in continuo movimento evoluzione, ma così come i primi anche i secondi, non sono acquisiti “per sempre”, proprio come un bellissimo edificio, senza manutenzione può diventare in un tempo breve, un luogo abbandonato, dimenticato. Lo abbiamo visto (o potete vederlo, a seconda se questo sia il primo o l’ennesimo articolo che leggete su questo numero) negli altri articoli: luoghi un tempo pieni di vita, possono “deperire”, diventare dei veri ruderi.
Invece di focalizzarmi sul fatto che si chiude un’era voglio quindi focalizzarmi su quello che resta “dopo”. Dopo Condivisione Democratica, ad esempio, resta questo bel gruppo che è la redazione e l’amicizia che si è formata al suo interno – questo direi che sia davvero da considerarsi un patrimonio – e resta la voglia di condividere e di comunicare in modo efficace – forse questo lo possiamo considerare un pò come patrimonio e un pò come “Valore Aggiunto” – resta l’idea che si possa far bene, alzando l’asticella della difficoltà di quello che si vuole fare – questo è sicuramente un elemento del patrimonio.
Sotto la linea che abbiamo tracciato io vedo quindi tanti elementi positivi che possono essere ben investiti in un’altra realtà, che ne possa prendere le sfide, il “testimone” ideale, per poterle portare avanti.

Quando decidiamo di organizzare un viaggio, che sia stato programmato da tempo o che si colga l’occasione dell’ultimo minuto, ci troviamo di fronte ad alcune scelte da fare: innanzitutto la destinazione, il mezzo per raggiungerla, quando partire, con chi partire, cosa portare nella nostra valigia! Un “viaggio” è un’esperienza progettata e immaginata, carica di aspettative, desideri e curiosità nei confronti dei percorsi che ci troveremo ad affrontare. Decidere di progettare un viaggio significa partire per poi tornare. E come nella vita, nonostante tutti i preparativi, sarà proprio il viaggio ad arricchirci, meravigliarci e stupirci.

Talvolta si decide di partire per trovare nuovi stimoli, perché è arrivato il momento di cambiare. Il cambiamento, qualunque esso sia, caratterizza l’esistenza ed è sempre positivo. Significa mettersi in gioco, evolversi, trasformarsi, volgere lo sguardo verso nuovi orizzonti. Porta con sé anche il timore nei confronti del nuovo. E proprio per tale ragione che quando decidiamo di attuare un cambiamento è necessario abbandonare ciò che è stato sino a quel momento e accogliere nuove idee e spunti di riflessione, che ci porteranno verso un percorso ancora sconosciuto.

[ Autore: Tom & Anna | Ringraziamenti: https://pixnio.com | Copyright: public domain (CC0) ]

Abbandonare non significa dimenticare né tantomeno
cancellare quel che abbiamo costruito. Quando la spinta verso un progetto –
lavorativo o di vita che sia – si esaurisce, resta comunque il frutto
dell’esperienza che abbiamo vissuto. Semplicemente talvolta arriva un momento
in cui è necessario cambiare per evolversi. È importante fare tesoro
dell’esperienza vissuta, sentita, e costruita, e arricchirla con nuove idee e
progetti. In realtà non si tratta di un abbandono vero e proprio ma di una fase
di trasformazione. E certamente ci vuole coraggio! Perché cambiare significa
abbandonare la “zona di confort” e mettersi in gioco, progettare un nuovo
“viaggio”.

Per intraprendere un percorso verso il cambiamento occorre
anche abbandonarsi un po’, ovvero lasciarsi andare, lasciar fluire emozioni
e sentimenti.
Abbandonarsi come atto di fiducia verso il nuovo e – nel
nostro caso – soprattutto nei confronti di chi continuerà a leggerci e a condividere
esperienze, emozioni, vissuti, sensazioni, racconti dai mille colori e
sfumature, con attenzione e sensibilità verso temi di attualità e con lo
sguardo sempre rivolto alla diffusione della cultura a 360 gradi. Conoscere ci
permette di comprendere, sentire e fare parte della cultura dei nostri tempi e
di quelli passati.

Con coraggio, ci accingiamo dunque a preparare la
nostra valigia
, nella quale porteremo chi eravamo e chi siamo, ciò che
abbiamo condiviso e affrontato, ma anche tanta energia, curiosità, ricerca di
novità e tanto cuore.

Sino ad ora abbiamo percorso insieme un fantastico viaggio,
ricco di storie, persone, colori e fantasia, e siamo pronti a ripartire per
affrontarne uno nuovo. Dunque, torneremo a riflettere su temi di attualità e su
fatti e persone dei giorni nostri e di quelli passati; solleticheremo la
curiosità e offriremo spunti di riflessione su tematiche sociali, momenti di
vita quotidiana, emozioni e sentimenti, che appartengono a ciascuno di noi. In
fondo, ognuno è parte e fa parte della cultura di questo tempo che, attraverso
il legame con il passato, la tradizione, la memoria storica, costituisce quel
terreno su cui si fonda il futuro, nostro e di chi verrà dopo di noi.

E voi, cosa mettete nella vostra valigia?

“L’uomo non può tornare mai allo
stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio. In verità, il viaggio
attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico. Ovunque vada è
la propria anima che sta cercando. Per questo l’uomo deve poter viaggiare.”

   
Andrei Arsenyevich Tarkovsky

Chissà perché, non appena è stato scelto il
tema di questo ultimo numero di Condivisione, ultimo in questa veste s’intende,
in attesa di una sua mutazione a breve per una nuova lunga vita, mi è venuto
subito in mente accanto ai luoghi dell’abbandono e a quelli dell’anima, quello
dei “non luoghi”.

Espressione coniata dall’antropologo e filosofo
francese Marc Augé per indicare quei luoghi omologati della globalizzazione, riferiti non
a spazi sociali organizzati in grado di favorire relazioni, ma tipicamente
luoghi di transito, privi di radicamento, come aeroporti, stazioni ferroviarie,
centri commerciali, supermercati, stazioni di servizio, grandi catene
alberghiere ma anche campi di accoglienza per profughi, solo per citarne i
principali.

E la rete, i social ? Sono sospesi tra luoghi e
non luoghi poiché promettono una compagnia illusoria, come dice Augè, l’ubiquità
e l’istantaneità legate a Internet non possono fare una società, neanche
virtuale.

Mi chiedevo se Condivisione fosse un luogo o un
non luogo, per noi sicuramente un luogo del cuore, ma l’obiettivo della sua
trasformazione è quello di farlo diventare un luogo anche per i suoi lettori,
una comunità che accolga e favorisca l’interazione sociale, ancorché virtuale.

(Immagine dal Web)

Quindi abbandoniamo un non luogo, per
ritrovarci in un quasi luogo, sperando che diventi un vero luogo. Intanto
godiamoci i luoghi dell’estate che conquisteremo attraversando i non luoghi,
tra pandemie, guerre e crisi planetarie…. e
quindi uscimmo a riveder le stelle.