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Siamo all’esordio di un nuovo ordine mondiale? Questa è la domanda che ci chiediamo un po’ tutti in questa prima metà dell’anno, così densa di avvenimenti epocali. I prodromi c’erano tutti e gli attori in fin dei conti sono gli stessi e già noti ma nessuno si aspettava cambiamenti così repentini.

Stiamo assistendo ad un mutamento storico che chiude un periodo di 80 anni di pace e “stabilita’” pur nonostante i grandi scossoni che si sono avuti in questo lunghissimo arco temporale. Mai come adesso era stato messo in discussione così apertamente e platealmente il diritto internazionale, le stesse istituzioni internazionali che ne stabilivano il rispetto, le alleanze storiche e i rapporti di forza che hanno più o meno garantito gli equilibri mondiali fino ad oggi.

Di fatto, come affermato da Papa Francesco, che ci ha lasciato nel Lunedì dell’Angelo, siamo già dentro una terza guerra mondiale “a pezzi”, con 56 conflitti armati in tutto il mondo, il numero più alto dalla Seconda Guerra Mondiale. 

 

Per il soglio di Bergoglio, che non è stato solo il capo spirituale della cristianità, ma un faro per l’intera umanità per le sue idee di pace e fratellanza, il Conclave ha deciso, novità assoluta per la Chiesa, per il cardinale americano Robert Francis Prevost. 

Assistiamo così al nuovo esordio, di portata mondiale di Leone XIV come 267° papa, missionario in America Latina e agostiniano. 

Sappiamo quanto i pontificati abbiano inciso nei corsi storici e nelle vicende del mondo intero e il motivo dell’interesse suscitato da questa elezione, soprattutto tra cattolici conservatori e progressisti, in particolare negli Stati Uniti e nello stesso presidente Trump.

Tutti si domandano se proseguirà sulle orme di Bergoglio. Probabilmente smusserà alcuni aspetti più radicali della linea del predecessore anche se dai primi passi, sembra essere in sostanziale continuità. Dalla loggia delle benedizioni il primo messaggio e’: la pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante. 

Vatican Media

Anche il nome, che lui stesso ha spiegato, si ricollega a Leone XIII, il papa della “modernità” che con la sua Rerum Novarum, ha inaugurato la dottrina sociale della Chiesa. Nella  nuova modernità, la sfida sarà quella del’Intelligenza artificiale, tema che mette pesantemente in gioco non solo la questione del lavoro e della tecnica, ma dello stesso  significato dell’umano.

Con la “guerra” dei dazi, in genere anticamera della  guerra vera, entra anche crisi la globalizzazione e con essa, il liberismo, fondamento del commercio internazionale, sviluppatosi dal dopoguerra ad oggi prima con il GATT poi con il WTO. Con esso, stanno entrando in crisi le stesse democrazie, minate da chiusure, nazionalismi e autoritarismi. La cosa che spaventa non sono solo i venti di guerra, ma anche la messa in discussione di tutti i diritti civili e sociali che le democrazie liberali avevano portato come conquiste acquisite.

Se in occidente, nella seconda metà del Novecento, lo sviluppo economico e dei servizi avevano modellato l’organizzazione sociale, favorendo forme democratiche, lo sviluppo impetuoso, a partire dal nuovo millennio, delle tecnologie in mano a poche persone o a gruppi oligopolistici, ha creato nuove forme di alleanze tra economia e politica. Il triangolo di forze tra finanza, capitale e tecnica, con al vertice quest’ultima, sta alimentando tecnocrazie con tendenze autoritarie, come stiamo vedendo anche negli Stati Uniti, dove si assiste, non più solo più al condizionamento politico ma, all’ingresso di questi soggetti in grado di affiancarsi direttamente al potere politico. 

Se prima le democrature sembravano un appannaggio della parte orientale dell’Europa, contraddistinta dall’ex cortina di ferro dove prevaleva l’incompiutezza della transizione democratica negli stati dell’Europa centrale e orientale dopo la dissoluzione dell’URSS (ed ovviamente in altre parti del mondo per altri e diversi motivi), adesso hanno contaminato tutto l’occidente più avanzato.  

Gli stessi Stati Uniti, “esempio” della più avanzata democrazia, sono entrati in questo cono d’ombra che lascia sgomenti per le modalità in cui sta avvenendo. Un assaggio si era già avuto con le vicende dell’assalto a Capitol Hill, attuato a Washington il 6 gennaio 2021, dopo il discorso del presidente uscente Trump, in cui si contestavano le elezioni che lo vedevano perdente. La pur debole e contraddittoria amministrazione Biden sembrava almeno in parte aver riequilibrato il vulnus con una serie di misure quali lo stop dall’uscita dall’OMS dopo le contestazioni dovute alla gestione della pandemia da Covid-19 (che invece è stato riconfermato con un ordine esecutivo, tra i primi atti della nuova amministrazione Trump tra cui anche quello del blocco alle attività dell’USAID, la più grande agenzia al mondo di aiuti umanitari), le politiche di integrazione degli immigrati, il rafforzamento del ruolo delle Agenzie federali, le misure contro il cambiamento climatico e per i diritti civili e sociali con l’Inflation Reduction Act (IRA) che guardava anche alla competitività del sistema produttivo. È pur vero che questa stessa Amministrazione si è mostrata molto indulgente verso le guerre.

Anche l’Europa, che avrebbe dovuto essere lo scrigno di valori civici, sociali e dell’humanitas, è stata investita da questa onda, principalmente dovuta ai partiti sovranisti e alle divisioni dei vari Paesi in seno alla stessa Unione. La spaccatura creatasi con il conflitto russo-ucraino ha dato il colpo di grazia. Il suo ruolo non è stato purtroppo all’altezza delle aspettative e dei cambiamenti che stavano trasformando il mondo. Su questo si potrebbe aprire un capitolo, se non altro che possa servire da lezione per il futuro.  A parte la ferma vocazione per la diplomazia che ha ceduto il passo alle armi, sarebbe auspicabile l’abbandono delle votazioni all’unanimità, almeno in alcuni campi. Stessa riforma andrebbe fatta per l’ONU, dove il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, porta spesso alla paralisi decisionale. Inoltre, in sede europea, andrebbero sanzionati se non espulsi, quei Paesi che non si riconoscono nei valori di democrazia e civiltà, fondanti l’Europa stessa e che ne garantiscono la coesione e la civile convivenza. Sicuramente il riarmo dell’Europa costituisce un nuovo esordio mondiale, Vediamo che esiti avrà, se soprattutto andrà di pari passo con una coerente ed unitaria politica estera ed un’armonizzazione della difesa comune non affidata ai singoli Paesi.

Se prima la globalizzazione e la tecnologia avevano incrinato i precari equilibri democratici, a questo binomio s’è aggiunto, come frutto avvelenato (e non sufficientemente capito e contrastato dalle classi politiche), quello delle derive autoritarie e delle chiusure nazionalistiche, alimentate dalla sfiducia dei cittadini, in cerca di protezione e sicurezza, nei confronti delle stesse elites politiche. Lo spettro dell’estrema destra ormai aleggia in Europa e in tutto il mondo “occidentale”, con gli Stati Uniti in testa a questa internazionale nera e sovranista, mettendo le democrazie sotto scacco.

È evidente che l’ordine uscito dalla Seconda Guerra Mondiale, che vedeva la supremazia degli Stati Uniti, è ormai più che incrinato. Gli USA sentono il fiato sul collo della Cina, attorno alla quale si stanno coagulando i BRICS che si vanno via via ampliando e organizzando, con l’obiettivo di offrire un’alternativa all’ordine mondiale vigente. Speriamo solo, che in queste guerre per procura non scatti la “trappola di Tucidide”, espressione coniata dal politologo statunitense Graham Allison per indicare tensioni che possono sfociare nella guerra tra potenze egemoni, come appunto fu quella rovinosa tra Atene e Sparta.

Si possono leggere in quest’ottica le mosse scomposte di Trump sui dazi, che vorrebbero colpire o cercare di isolare principalmente la Cina, le sue mire espansionistiche sul Canada, sulla Groenlandia, sul canale di Panama, e sulle rotte Artiche, che si inscrivono in questo ritorno nostalgico codificato nell’acronimo MAGA (Make America Great Again). Gli Stati Uniti sono stati gli artefici della globalizzazione, ma chi ne ha tratto maggior vantaggio è stata la Cina, motivo per cui adesso vorrebbero tornare indietro ma in un mondo ormai completamente trasfigurato. La “riabilitazione” della Russia probabilmente fa il paio con il ritorno nostalgico di Putin all’URSS.

Creator: Matt Rourke | Credit: AP

Ma allora è un ritorno o un esordio? C’è da dire, come afferma il filosofo Peter Sloterdijk, che l’antropotecnica è una cifra della modernità, in quanto l’uomo è l’unico essere che nella linea evolutiva è riuscito a distaccarsi dall’ambiente naturale creando un mondo artificiale (e culturale). Fina dall’età della pietra è infatti un susseguirsi di forme antropotecniche di cui oggi siamo al culmine o, forse meglio, a un nuovo esordio anche per le loro implicazioni sempre più strette con l’economia, la politica e la vita stessa delle persone. Non a caso nella Silicon Valley si stanno moltiplicando le start-up che si occupano di superare biologicamente la morte, sulla scia del pensiero “don’t die” di diversi guru tecnologici e imprenditori come Bryan Johnson. Sembra ormai che l’ultimo grande rimosso delle nostre società, ossia la morte, sia l’ultima barriera da superare per l’onnipotenza dell’uomo, insieme alla colonizzazione di Marte.

L’Intelligenza artificiale, la cui portata allarma, ma non è stata ancora ben compresa e studiata, nelle sue implicazioni sull’”umano”, di certo costituisce anch’essa un nuovo esordio, come richiamato dallo stesso Pontefice Leone XIV che sembra farne la questione centrale del suo pontificato nella post-modernità, come fu la questione sociale per il suo “predecessore” Leone XIII trattata con l’enciclica Rerum Novarum del 1891 che affrontava, oltre alla questione operaia e ai conflitti posti dal socialismo, anche il rapido sviluppo industriale e tecnologico con cui si andava a chiudere il suo secolo e a prefigurare il Novecento.

Sull’umano, la cifra che sembra emergere è l’istituzionalizzazione della cattiveria e dell’indifferenza a tutti i livelli. La politica, che prima aveva una funzione di governo, mediazione e compensazione, si è estremizzata e incattivita. La disumanizzazione è la cifra di questo nuovo mondo, un esordio tutt’altro che rassicurante che ha investito purtroppo anche le nostre vite e le nostre relazioni. Basta guardare con che rapidità ci stiamo assuefacendo alle guerre e alle atrocità.  

A cura di Anna Rita Cardarelli

Ninì Materia nasce a Barcellona Pozzo di Gotto il 7 marzo 1985. Sin da piccolo comincia a disegnare, poi, giunto alle scuole medie, una professoressa, purtroppo, mortifica la sua passione e da lì decide di accantare in un ripostiglio sogni, desideri, speranze.

Dal 2018 vive al Circeo con sua moglie e suo figlio. 

Nel 2019, durante la pandemia Covid, riprende a disegnare, e da quel momento si apre per lui un mondo pieno di colori, pennelli, matite, gomme e tele… con un elemento particolare che è sopra di tutto… l’amore per la sua terra, la Sicilia!

Salve Ninì, grazie per questo caffè veloce! È un piacere poter parlare con lei del Suo mondo artistico. Partiamo dall’inizio: come è nato il Suo amore per la pittura?

Salve! Il mio amore per la pittura nasce per passatempo durante il Covid. Dove ho scoperto di avere questa passione nascosta. O forse, sarebbe più corretto dire, “riscoperto…”.

I suoi dipinti colpiscono subito per l’uso audace del colore. Cosa rappresentano per lei questi colori così forti e accesi?

I colori accesi mi riportano a quelli della mia terra natia. La mia amata Sicilia. Dove anche i tramonti assumono colori vivaci e unici.

I suoi quadri spesso raffigurano volti astratti, a volte spezzati o incompleti, alternando figure maschili e femminili. C’è un significato particolare dietro questa scelta?

Si, mi piace raffigurare le teste di moro che nascondono dietro loro una leggenda di amore e tradimento!

Abbiamo scoperto che la Sicilia è protagonista delle Sue opere, ma la racconta in modo molto personale. Quali elementi della sua terra sente più vicini alla Sua arte? Quanto la tradizione siciliana influisce sul Suo modo di dipingere? Si ispira a qualche artista del passato?

Nei miei dipinti cerco sempre di inserire elementi che mi portano alla mia terra, ovvero il mare, il sole i suoni, rapportati in colore.

La tradizione siciliana conta molto per me, perché basta nominare “Sicilia” e li si racchiude tutto il bello e il meraviglioso che per me possa esistere.

Essendo autodidatta, mi ispiro ad artisti della mia generazione.

Il cactus è un soggetto ricorrente nelle Sue opere. Che valore simbolico ha per lei?

Beh, il fico d’India è uno dei tanti simboli della mia terra e nei miei quadri non può mancare.

Oltre alla pittura, ci sono altre forme d’arte o esperienze che influenzano il Suo lavoro?

No, mi fermo alla pittura, perché solo nella pittura riesco ad essere Ninì Materia!

Oscar Wilde affermava che “non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”.

Il neuromarketing rincara la dose dicendoci che questa prima impressione si crea in circa 7 secondi.

Due respiri, quattro battiti di ciglia, il tempo di dire “Ciao, mi chiamo Letitia, piacere di conoscerti” e dall’altra parte dei piccoli neuroni irrequieti hanno già decretato se sei affidabile, simpatico, intelligente, oppure no.

Le neuroscienze addirittura descrivono un processo valutativo rapidissimo e inconscio di circa 40 millisecondi, capitanato dalla amigdala, che gestisce le emozioni e il pericolo. Categorizziamo il prossimo attraverso un effetto primacy, un bias cognitivo che porta a dare un maggiore peso alle prime informazioni elaborate, influenzando la nostra valutazione. Non c’è il tempo né per fingere né per dimostrare qualcosa. I veri giudici sono le emozioni.

Eppure quanto temiamo questa prima valutazione in un colloquio di lavoro, quando conosciamo un superiore, o un collega, o quando ci inseriamo in un nuovo contesto sociale?

Ebbene, nulla di ciò che possiamo costruire e pianificare è davvero rilevante, a quanto pare, non per il nostro esordio.

La difficoltà, se mai, sarà dopo, nel rafforzare, o ancora di più nello smentire l’idea che l’altro ha di noi. Vorrei rassicurare le persone che sono particolarmente preoccupate per questi giudizi: gli altri vi avranno etichettato prima che voi abbiate modo di dimostrare chi siete e soprattutto gran parte della responsabilità ricadrà sulle loro emozioni, il loro vissuto, i loro ricordi e le associazioni che ne conseguono. In quel frangente c’è ben poco di voi. Ma da lì in poi, invece, è tutto da costruire. Per metterci in contatto con gli altri è necessario un moto verso l’esterno della sfera del proprio “io”.

Quando ci presentiamo, per esempio, spesso siamo così concentrati su di noi, sulla stretta di mano, come pronunciamo il nostro nome, se sorridiamo, troppo o troppo poco, che non riusciamo nemmeno a percepire l’espressione dell’altro, né a recepire il suo nome il più delle volte.

Questo si può prolungare anche in un arco temporale più lungo: quante persone avete conosciuto che hanno passato tutto il tempo a parlare di sé, tanto da farvi domandare se si siano accorti che ci siete anche voi. Nell’incontro con gli altri, quello che ci rimane davvero è come ci abbiano fatto sentire, quali emozioni e quale energia si sono create. È importate stabilire una connessione ed uno scambio.

Roman Jakobson, semiologo e linguista russo, ideò un modello comunicativo per spiegare le dinamiche della trasmissione di messaggi, da un mittente ad un destinatario, attraverso un canale, nel quale hanno un ruolo fondamentale gli attori con tutte le loro istanze, il codice linguistico, il contesto e le circostanze. Per Jakobson il linguaggio ha 6 funzioni: espressiva/emotiva, fàtica, conativa, poetica, metalinguistica e referenziale. Tutto molto bello, ma Jakobson si focalizza soprattutto sul mittente (come la persona di prima che ci parla ininterrottamente ignorando che le prestiamo o meno attenzione) rendendo il ricevente passivo e non concentrandosi sufficientemente sul feedback dell’interlocutore.

Beh, voi non fatelo a casa! Se volete comunicare in maniera efficace con il vostro interlocutore connettetevi con lui e le sue emozioni.

Le cose si complicano quando dobbiamo metterci in gioco su più livelli, quando il nostro esordio non si limita alla presentazione di noi stessi, ma prevede un’apertura maggiore della nostra sfera intima e vulnerabile: quando dobbiamo creare qualcosa, forgiarla, e darla in pasto ai giudizi, nostri in primis, e poi dagli altri.

Che si tratti di una pagina bianca da riempire, di poesia o di codici, di una tela, una presentazione in powerpoint, un oggetto, una foto, un film, un progetto, o quello che volete.

La sfida è quando dobbiamo riempire un vuoto con una parte di noi, quando quello che sappiamo fare deve dare agli altri la misura di chi siamo. L’entusiasmo e il timore, il coraggio di credere nel potenziale che sentiamo di avere, la volontà di esternarlo, quella tensione positiva che ci spinge a dare il meglio, ma che può essere anche una paura paralizzante. La volontà e la necessità di farlo stimare agli altri è un’esposizione al fallimento, come un ponte tibetano: sei ancorato al giudizio degli altri, ma con la determinazione di voler procedere nonostante tutto.

Può essere un percorso lungo e faticoso o un tuffo nell’ignoto, ma certo è un passaggio necessario, l’inizio di tutto.

Ci sono istanti che non sembrano grandi al momento, eppure aprono crepe nella storia. In quelle crepe si insinuano la voce nuova, l’energia grezza, il genio puro di chi esordisce. Non c’è nulla come il primo atto, il primo disco, il primo film, la prima volta su un palco. 

Pensando agli esordi, mi vengono in mente 10 episodi che non ho vissuto "in diretta" per questioni anagrafiche che poi però ho potuto apprezzare vedendole sullo schermo nero - che è una potentissima macchina del tempo.

1. Jimi Hendrix – Monterey Pop Festival, 18 giugno 1967
Buio. L'attacco.
Sono le prime note del primo concerto che Jimi fa nel "nuovo mondo".
La chitarra si incendia, stride, da tutto quello che può dare e poi viene bruciata, distrutta, con il fuoco con Jimi inginocchiato davanti a questo sacrificio sacrilego. Il pubblico ammutolì. Non era solo rock: era un rito, un atto sciamanico.
Quello è il vero debutto di quello che era "Are You Experienced" forse uno dei dischi più psichedelici della storia del Rock.
Non si può spiegare a parole...
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2. Carlo Verdone – "Un sacco bello" (1980)
Nell’Italia ancora in fermento dopo gli anni Settanta, un giovane regista-attore porta sullo schermo sei personaggi, tutti interpretati da lui, tutti fragili, ingenui, veri. Verdone porta la periferia, le mamme apprensive, i sogni naïf, i tic e le tenerezze. L’Italia ci si riconosce, e ride, e si commuove. Un piccolo miracolo comico e umano.



3. Orson Welles – "Citizen Kane" (1941)
Aveva 25 anni e nessuna esperienza sul set. Eppure fece il film che ancora oggi molti considerano il migliore della storia del cinema. Welles inventò un nuovo linguaggio: profondità di campo, flashback destrutturati, narrazione non lineare. “Citizen Kane” fu uno schiaffo al vecchio cinema e un inno al futuro. E tutto questo fu… solo il suo esordio.



5. "I 400 colpi" – François Truffaut (1959)
Primo film e già manifesto della Nouvelle Vague. La fuga del piccolo Antoine Doinel è anche la fuga del regista da ogni regola precostituita. Truffaut nasce libero.



6. "Eraserhead" – David Lynch (1977)
Un incubo in bianco e nero. Visionario, disturbante, ermetico. Questo film ha gettato le fondamenta dell’estetica lynchiana, che non ha mai davvero cercato di essere compresa.
Esordio del regista nel lungometraggio, Eraserhead - La mente che cancella ad oggi è considerato un capolavoro del cinema mondiale, nonché fonte d’ispirazione per altri registi: Stanley Kubrick dichiarò che Eraserhead era il suo film preferito e, durante le riprese di Shining, lo mostrò più volte al cast come esempio.



6. Massimo Troisi – "Ricomincio da tre" (1981)

Un film che è un abbraccio. Un ragazzo con gli occhi bassi e l’anima alta racconta di partenze e ritorni, di Napoli e Firenze, di parole leggere che dicono cose enormi. Troisi esordisce con una delicatezza disarmante, il suo umorismo malinconico è poesia quotidiana. Nessun artificio: solo sincerità. E da quel momento, il cinema italiano non fu più lo stesso.

7. "The Piper at the Gates of Dawn" – Pink Floyd (1967)
Syd Barrett guida la nave psichedelica con un disco che è pura immaginazione sonora. Ancora oggi, è la definizione del Pink Floyd primordiale.
Before they became one of the biggest bands on the planet with prog-leaning epics like 'The Dark Side of the Moon' and 'The Wall,' Pink Floyd were an unstructured, but no less ambitious, psych-rock group with songs about depressed scarecrows and wine-sipping gnomes. 'The Piper at the Gates of Dawn' was the only full album they made with original leader Syd Barrett before he was forced out due to increasingly erratic behavior. The 10-minute "Interstellar Overdrive" is a genre highlight, but the entire LP is a psych-rock milestone.



8. "Please Please Me" – The Beatles (1963)
Registrato in un solo giorno. Conteneva “Love Me Do”, “I Saw Her Standing There” e “Twist and Shout”. Era l’inizio di tutto: la Beatlemania nasce qui.


9. "Accattone" – Pier Paolo Pasolini (1961)
Esordio totale: Pasolini reinventa il cinema partendo dai margini. Volti veri, poesia e sacralità nella disperazione. Il profilo dell’intellettuale "eretico" si delinea subito.


10."Un'Avventura" – Lucio Battisti (1969)
Un'avventura è un brano musicale composto da Lucio Battisti con testo di Mogol. Inizia con questo brano, quella grande avventura fatta dal due che ha segnato la musica pop degli anni '70 e poi a seguire, per varie generazioni.
Ma in quel 1969 Battisti esordì come interprete, in coppia con Wilson Pickett, per quella che fu la sua prima e unica apparizione al Festival di Sanremo. La canzone - per la cronaca - si classificò al 9º posto.



Bonus. "?!" non è il primo disco di Michele Salvemini, ma è il primo LP di Caparezza dopo il cambio d’identità: da Mikimix (pop leggero) a Caparezza (rap ironico e impegnato).
Inizia un percorso musicale che è provocatorio, colto, impegnato e leggero, che lo colloca tra i grandi cantautori italiani.

La verità è morta: lunga vita alla certezza! Recita così il manifesto di questo nostro tempo sempre più folle. Ed è forte il rischio che ne diventi anche l’epitaffio. Un incubo che, a quanto pare, non spaventa nessuno. Per quattro ragioni tra tutte.

Verità e certezza non sono sinonimi

La prima è che siamo tutti convinti che verità e certezza siano sinonimi. Non è così. Dire che una cosa è certa, non significa affatto dire che è vera. Un esempio? Il più clamoroso di tutti: per millenni, l’umanità intera è stata assolutamente certa del fatto che fosse il Sole a girare intorno alla Terra, salvo poi scoprire che le cose non stavano affatto così. Tutti erano fermamente convinti di qualcosa di totalmente falso. Senza contare che è molto più facile essere certi di una bugia che di una verità.

Il sonno della ragione libera i mostri

La seconda è che, spazzando via i dubbi, le false certezze ci rassicurano, tacitando le nostre (fin troppo paurose) coscienze e facendoci dormire sonni tranquilli

Una tranquillità indotta e pericolosa, come quella procurata da un’anestesia. Mentre noi dormiamo, infatti, il mondo intorno a noi è libero di fare quello che vuole. E, come la Storia dimostra, è estremamente difficile – per non dire impossibile – che non approfitti del nostro “sonno” per imporci la sua volontà e renderci complici, sudditi, servi o schiavi.

Il “sonno della ragione”, dunque, più che generare mostri, li libera e permette loro di saccheggiare, indisturbati, tutto ciò che incontrano

Il dubbio: la bussola che guida alla verità 

Al contrario di ciò che pensiamo, il dubbio non è affatto l’antitesi della verità. Esso è per la verità ciò che la bussola è per il viaggiatore: una guida indispensabile. Senza il dubbio, infatti, perderemmo orientamento e direzione e non riusciremo nemmeno ad avvicinarci alla verità.

Un popolo di analfabeti

La terza ragione – la più grave – è che non abbiamo più né gli strumenti intellettivi né le conoscenze per poter distinguere il falso dal vero

Già nel 2014, Tullio De Mauro – linguista di fama internazionale – scriveva: «Solo un po’ meno di un terzo della popolazione italiana ha i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna». 

Due anni dopo, De Mauro, rilanciava il suo allarme, dichiarando che la percentuale degli italiani che comprende i discorsi politici o che capisce come funziona la politica italiana «è certamente inferiore al 30%». Una persona su tre: può una società sopravvivere con un simile livello di ignoranza?

Non solo. Un mese dopo la morte di De Mauro – siamo nel febbraio 2017 -ben 600 tra rettori, docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, costituzionalisti, sociologi, linguisti, matematici, economisti, neuropsichiatri… scrivono una lettera al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Istruzione e al Parlamento per chiedere “interventi urgenti” per rimediare alle carenze degli studenti. Non sei, non sessanta, non cento: 600!

«Alla fine del percorso scolastico – si legge nella lettera – troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente». «Da tempo – si legge ancora – i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare». La situazione è così grave che «nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». 

Errori appena tollerabili in terza elementare e corsi di recupero della lingua italiana, all’Università? E ci stupiamo di come stiano andando le cose nel nostro Paese e nel mondo?

Immersi in un oceano di falsità

Risultato? Viviamo immersi in un oceano di falsità, convinti di nuotare nella verità, mentre, in realtà, stiamo affogando. La tempesta perfetta: dal momento che non ci rendiamo nemmeno conto di esserci finiti in mezzo, infatti, non sentiamo alcun bisogno di provare a uscirne e metterci in salvo.

Tra i primi a lanciare l’allarme era stato, vent’anni fa, Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia a Princeton, con un piccolo saggio dal titolo inequivocabile – “Stronzate” (Rizzoli, 2005) – che aveva fatto il giro del mondo.

«Uno dei tratti salienti della nostra cultura – scriveva Frankfurt – è la quantità di stronzate in circolazione […]. Tendiamo – spiegava – a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone, confida nella propria capacità di riconoscere le stronzate ed evitare di farsi fregare. […]. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, né del perché ce ne siano così tante in giro».

La parte più interessante dell’analisi di Frankfurt è quando spiega perché le stronzate sono «un nemico della verità più pericoloso delle menzogne». 

Paragonando le stronzate alle bugie, Frankfurt sottolinea una differenza cruciale: per dire una bugia, bisogna conoscere la verità. Per dire una stronzata, no. Chi dice una bugia, dunque, conosce la verità (fatto tutt’altro che irrilevante); chi dice una stronzata, no. E, cosa ancora più importante, non gliene frega niente di conoscerla. 

Ed è questo il cuore della questione, perché, quando diciamo una bugia, decidiamo deliberatamente di omettere o negare una verità. E questo è già grave. Quando diciamo una stronzata, invece, diciamo, a noi stessi e a tutto il mondo, che della verità non ce ne frega assolutamente niente. E questo è molto più grave. Le stronzate, quindi, ci abituano a fare a meno della verità.

L’importanza della verità

Fatto estremamente grave perché, come spiega lo stesso Frankfurt nel suo pamphlet “Verità” (Rizzoli, 2007), la verità ha un valore essenziale per la vita umana, in quanto requisito fondamentale per la nostra esistenza quotidiana (chi si affiderebbe a un medico, un avvocato, un giudice, un architetto o un amministratore che se ne frega della verità?) e per il funzionamento della società. L’indifferenza verso la verità è pericolosa, poiché porta a un mondo basato su illusioni, rendendo impossibili cooperazione e progresso. La verità – che è oggettiva e indipendente dalle nostre opinioni – è necessaria per la razionalità e la libertà. Per prendere decisioni informate e razionali, abbiamo bisogno di accedere a informazioni vere. La verità, quindi, è un prerequisito per la libertà individuale e collettiva, indispensabile per la fiducia e la cooperazione sociale. Una società basata su bugie, disinformazione o “stronzate” è destinata a collassare, perché la cooperazione umana dipende dalla capacità di fidarsi degli altri e di condividere una base di conoscenza affidabile.

La verità è introvabile

La quarta e ultima ragione – che dipende solo in parte dalla terza – è che, anche ammesso che fossimo in grado di riconoscere bugie e stronzate, non saremmo comunque in grado di trovare la verità. Essa è stata nascosta dietro una coltre così spessa e densa di fumo nero che è praticamente impossibile scovarla. Bisognerebbe disboscare l’impenetrabile giungla delle “narrazioni” da migliaia e migliaia di bugie e stronzate, a colpi di fact-checking incrociati, risalendo alla fonte originale di ogni notizia, verificarne l’attendibilità e ristabilire la verità per qualunque tema: politica interna, politica estera, economia, difesa, sanità, lavoro, istruzione, ricerca scientifica, welfare, aborto, fine vita, ecc. ecc. Un lavoro da professionisti dell’informazione che nessun semplice cittadino sarebbe in grado di fare, nemmeno se decidesse di dedicare l’intera giornata al fact-checking, sacrificando famiglia, affetti, lavoro, tempo libero, amicizie. Ed è esattamente su questo che contano gli imboscatori di verità e i costruttori e spacciatori di stronzate.

Allontanare dalla verità non è mai stato così facile

Non solo: allontanare dalla verità non è mai stato così facile. In questo caso, però, la natura umana non c’entra. Non è solo la nostra paura del dolore a tenerci lontani dalla verità. Ciò che ci allontana dalla verità è il fatto è che, per la prima volta nella Storia, i nemici della verità dispongono di armi potentissime. Le più potenti che siano mai state concepite e prodotte: sofisticatissimi strumenti di manipolazione della realtà – basati su strabilianti algoritmi di intelligenza artificiale – e la capacità di penetrazione dei social media. Capacità senza precedenti che, in poche ore, permette di raggiungere e catechizzare quasi 5 miliardi di persone: più della metà della popolazione del pianeta.

Manipolare le coscienze è un attimo. liberarle, quasi impossibile

L’aspetto più drammatico di questo stato di cose è dato da una forbice devastante: da un lato, manipolare le coscienze è infinitamente più facile e veloce di quanto non sia mai stato (la propaganda è sempre esistita), dall’altro, smontare le falsità spacciate per verità assolute da quello che potremmo definire il “Deep State” globale – sovranazionale e a-democratico – che decide le sorti del pianeta è praticamente impossibile.

L’arma più letale? la parola

Anche perché le armi più pericolose e letali adoperate da questo “sistema globale di ingegneria del consenso” non sono atomiche o droni e nemmeno cyber-weapon. Sono le armi più antiche ed efficaci di tutte: le parole. Tra le più distruttive, anche perché subdole. Le crediamo innocue, perché cominciamo a usarle sin da bambini e siamo convinti di conoscerle troppo bene perché possano sorprenderci, colpirci alle spalle e farci male. Innocue, però, non sono affatto. Tutt’altro.

Il linguaggio non è un semplice mezzo di comunicazione

Al contrario di ciò che pensiamo, infatti, il linguaggio non è soltanto un semplice mezzo di comunicazione, che ci consente di relazionarci con gli altri. È molto di più. È qualcosa che influenza il nostro modo di vedere il mondo e, quindi, di rapportarci ad esso

Derrida: non esiste una realtà indipendente dal linguaggio

Secondo alcuni grandi pensatori – filosofi, antropologi, linguisti – è addirittura il linguaggio a creare la realtà. Per Jacques Derrida – ad esempio – non esiste una realtà oggettiva indipendente dal linguaggio, ma è il linguaggio che influenza profondamente il modo nel quale percepiamo e comprendiamo il mondo. 

Sapir & Whorf: il linguaggio influenza/determina la realtà

Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf si sono spinti anche oltre, sostenendo che la lingua che parliamo non influenza soltanto la nostra percezione del mondo ma anche il nostro modo di pensare. Sono due le ipotesi legate ai loro nomi: il cosiddetto “determinismo linguistico”, secondo il quale è la lingua a determinare il pensiero e a definire ciò che possiamo concepire, e la “relatività linguistica”: la lingua influenza il pensiero, ma non lo determina in modo assoluto. Mentre il determinismo linguistico è stato criticato e, in parte, confutato da autorevoli studiosi, la relatività linguistica è ancora oggetto di studio e discussione, con ricerche che dimostrano come la lingua influenzi, ad esempio, il modo in cui percepiamo lo spazio, le azioni e perfino i colori. Un’influenza tutt’altro che trascurabile, come possiamo facilmente intuire.

Neologismi, eufemismi e solecismi: armi di manipolazione di massa

Le parole, dunque, sono infinitamente più importanti di quello che crediamo. Per questo crearne alcune ad hoc (neologismi) o modificare, proditoriamente, il significato di parole esistenti (eufemismi & solecismi) è una strategia di manipolazione in grado di dare risultati inimmaginabili. 

Anche perché colpisce parole semplici che tutti noi usiamo continuamente e che, una volta “infettate”, contribuiscono a dar vita a quella “realtà irreale” nella quale il “Deep State” – quel “sistema globale di ingegneria del consenso” del quale parlavo prima – vuole farci vivere.

Gli esempi sono innumerevoli. Ecco alcuni tra i più significativi. Partirei da “Seconda Repubblica”. È dal tempo di Tangentopoli che siamo tutti convinti di vivere nella “Seconda Repubblica”, mentre la Repubblica è sempre la stessa. Con questa formula, però, sembra che la vecchia e corrotta Repubblica della “partitocrazia” (termine a suo tempo coniato per convincere l’opinione pubblica a liberarsi dei partiti e trasformare la democrazia del parlamento – cioè del popolo – in democrazia dell’esecutivo, cioè delle élite) sia stata sconfitta, che i partiti non ci siano più (davvero?) e che la corruzione sia, finalmente, debellata (è così?); “lacci e lacciuoli”, il mantra di chi non sopporta che la Legge si metta tra lui e i suoi affari; “premier”: per il momento, in Italia, non esiste alcun “Premier” nel senso proprio del termine. Il Presidente del Consiglio italiano, infatti: non ha una legittimazione diretta o semi-diretta (viene nominato dal Presidente della Repubblica e, per governare, ha bisogno della fiducia del Parlamento), deve ottenere e mantenere la fiducia del Parlamento (a differenza di alcuni premierati, il Parlamento italiano può sfiduciarlo con una mozione di sfiducia semplice), non nomina né revoca autonomamente i ministri (i ministri vengono nominati dal Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio), non può sciogliere il Parlamento né indire nuove elezioni (poteri che spettano, esclusivamente, al Presidente della Repubblica), non ha il controllo assoluto del Consiglio dei Ministri e della politica generale (deve mediare con la maggioranza parlamentare), non può dirigere direttamente alcuni ministeri chiave (Interni, Esteri, Difesa) senza delega (nei veri premierati, il capo del governo può assumere direttamente ministeri strategici), non è Comandante in capo delle Forze Armate (ruolo del Presidente della Repubblica). Dato, però, che il progetto è quello di trasformare la democrazia parlamentare in un premierato, da anni ormai, si parla di “premier”. E, così, quando il passo si compirà, sembrerà a tutti un passo normale: un’evoluzione positiva in chiave di governabilità e stabilità (vedi sotto) e non la fine della democrazia parlamentare, così come voluta dalla Costituzione.

Governabilità”, per non dire che si sta lavorando per rendere sempre più “docile” il Paese, il quale deve abituarsi a lasciarsi governare dal capo di turno, senza “disturbare il conDUCEnte”; “stabilità”, per non dire “inamovibilità” del governo di turno, il quale, una volta ottenuto il potere, fa di tutto per non perderlo; “sicurezza nazionale”, per non parlare di “Stato di polizia/repressione”, e mantenere l’opinione pubblica in una permanente condizione di paura, convincendola che c’è bisogno di più polizia, più controlli, più sorveglianza, con buona pace della privacy; “invasione”, di migranti, ovviamente: quando tutti gli studi seri e documentati in materia dicono che i migranti internazionali sono solo il 3,3% (!) della popolazione globale e convincere, così, la “balena-Paese” ad aver paura del “pesce rosso-migrante”; “spending review”, per evitare che l’opinione pubblica si allarmi per i “tagli alla spesa pubblica”, vale a dire a sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale, ricerca scientifica…; “downsizing”, che è molto meno inquietante di “licenziamenti” (così come, durante il Covid, si era parlato di “lockdown” invece che di “confinamento); “lavoro flessibile” per non dire “precariato”, “ottimizzazione del costo del lavoro”, per non parlare di riduzione degli stipendi; “cambiamento climatico”, per non ammettere la “catastrofe ambientale”; “eventi meteorologici eccezionali per scaricare sulla natura le responsabilità delle classi dirigenti nel “dissesto idrogeologico”; “riforme strutturali”, per non parlare di politiche di austerità”; “valorizzazione del patrimonio pubblico”, per non parlare del fatto che, con le privatizzazioni”, lo Stato regala i gioielli di famiglia agli amici; “cartolarizzazioni”, per non dire che si svendono debiti o beni pubblici (come il patrimonio immobiliare dello Stato) a speculatori; “operazioni militari speciali” o “peacekeeping” per non parlare di guerra”. Devo continuare?

Le 200 parole cancellate da Trump

E non è tutto. Il 7 marzo scorso, il New York Times ha rivelato che l’amministrazione Trump ha bandito quasi 200 parole ed espressioni dai documenti e dai siti web governativi. Parole ritenute troppo “woke” – per i progressisti, sinonimo di consapevolezza delle ingiustizie e impegno per una società più equa; per i conservatori, emblema di un’ideologia che impone il politicamente corretto e limita la libertà di espressione – o politicamente sgradite all’amministrazione Trump. In pratica, in molti casi è stato ordinato di rimuovere tali termini dai siti web pubblici delle agenzie o da altri materiali ufficiali, mentre in altri casi se ne sconsigliava fortemente l’uso.

Le parole finite nella lista nera riguardano soprattutto temi di diversità, diritti civili, genere e ambiente – concetti che il governo Trump considera parte della “cultura woke” – come “diversità”, “inclusione”, “uguaglianza”, “esclusione”, “diseguaglianze”, “ingiustizia”, “giustizia sociale” e, addirittura, parole comuni come “femmina” e “donna”. Molti vocaboli riguardano l’identità di genere e la comunità LGBTQ+: “transgender”, i pronomi neutri “they” e “them” (essi, loro), “non-binario”, “cure per l’affermazione di genere”, “LGBTQ+”, ridotto a LGB nelle comunicazioni ufficiali; altre parole proibite si riferiscono a discriminazione razziale e giustizia sociale: “etnia”, “nero”, “minoranza ispanica”, “immigrati”, “razzismo”, “antirazzismo”, “discorso d’odio”, “privilegio”, “pregiudizio”, “oppressione”, “discriminazione”, “segregazione”, “femminismo”, “disparità”, “disabilità”, “salute mentale”, “equità sanitaria”; termini legati al cambiamento climatico e all’ambiente: “crisi climatica”, “energia pulita”, “qualità ambientale” e persino riferimenti geografici come “Golfo del Messico”. A questo proposito, l’amministrazione Trump si è spinta fino a limitare l’accesso dei giornalisti dell’Associated Press (una delle più autorevoli, affidabili e seguite agenzie di stampa del mondo, vincitrice di oltre 50 premi Pultizer) a eventi come briefing nell’Ufficio Ovale e voli sull’Air Force One, a causa dell’uso continuato del termine “Golfo del Messico” invece di “Golfo d’America”. Il presidente Trump aveva emesso un ordine esecutivo per rinominare il Golfo del Messico in “Golfo d’America” e si aspettava che i media adottassero questa nuova denominazione. 

Che dite? Possiamo ancora considerarla la più grande democrazia del mondo?

Aut-aut ovvero: divide et impera

A tutto questo, si aggiunge il fatto che siamo stati tutti infettati dal virus manicheo dell’aut-aut. Ogni cosa – sia nel pubblico che nel privato – dev’essere solo bianca o nera. Nessun altro colore è contemplato. E nemmeno la minima sfumatura. 

Una logica avvelenata e pericolosissima, che mira a rendere qualunque temaguerra, pace, armi, violenza, politica, economia, ambiente, energia, nucleare, aborto, fine-vita, farmaci, vaccini, immigrazione, razzismo, femminismo, patriarcato, parità di genere, sovranismo, globalismo, Europa, euro, BCE, NATO, Trump, Putin, pubblico, privato, lavoro, salario, tasse, welfare, sussidi, alimentazione e bla-bla-bla, fratelliconflittuale. Risultato: ci si divide su tutto

United we stand, divided we fall

Si esaspera ciò che ci divide; si “banna” ciò che unisce o potrebbe unire. A nessuno è venuto il sospetto che questa polarizzazione così esasperata, che radicalizza tutto e tutti non sia alimentata ad arte? Abbiamo mai considerato la possibilità che la parola d’ordine sia: “Mettiamo questi imbecilli gli uni contro gli altri e, mentre loro – fessi – si fanno la guerra tra loro, noi siamo liberi di farci gli affari nostri”?

Abbiamo dimenticato cosa dicevano i latini? “Divide et impera”. Vale a dire: “Dividi (gli altri) e dominerai”. Non è evidente che – se, per dominare, bisogna dividere – per non farsi dominare non bisogna dividersi?

Possibile che, all’alba del terzo millennio, abbiamo dimenticato una verità fondamentale nota già più di duemila anni fa – “Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non può reggersi” (Marco, 3:24-25) – e ripresa, più di 250 anni fa, dal patriota americano John Dickinson, in un verso-manifesto della “Liberty Song” (“Canto della libertà”): “United we stand, divided we fall”: “Uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Vogliamo continuare a dividerci e a fare il gioco del “Deep State” o è arrivato il momento di provare a cambiare strategia?

Di significati dati al colore ce ne sono tantissimi e devo dire che non è stato affatto facile trovare una storia che ne raccontasse le profondità e i significati nascosti – o anche quelli evidenti.

Però penso che La Scuola di Atene possa racchiude tutto quello che volevo raccontare, condensato, in un’unica grande immagine (alla base è larga più di sette metri e mezzo).

La Scuola di Atena è un immenso spazio scenografico che si apre in un arco, a decorare una delle pareti della “Stanza della Segnatura” al Vaticano.

La preparazione di questa stanza è già una storia che merita di essere raccontata – e se riuscirò in seguito lo farò anche – ma ad un certo punto viene chiamato – a completare quel “dream team” composto da tanti artisti della caratura di Luca Signorelli, Il Perugino, Lorenzo Lotto, il Sodoma, e tanti altri – Raffaello Sanzio, verosimilmente invitato da Bramante, che all’epoca era l’architetto della Fabbrica di San Pietro.

Raffaello entrò nel Palazzo affiancando gli altri artisti e aiutando nella produzione e nella ideazione dei gruppi pittorici. Ma Giulio II comprese molto presto il genio di Raffaello, fornì tantissimo spazio al suo genio, tanto da sacrificare, ricoprendole, anche opere appena realizzate o quelle quattrocentesche di Piero della Francesca, tanto che oggi conosciamo quella parte del Vaticano come “Stanze di Raffaello”, delle quali la “Stanza della Segnatura” è solamente una.

La rappresentazione di Raffaello è un connubio di arte antica e arte moderna, l’insieme della filosofia e delle scienze, la razionalità e lo spirito, personaggi antichi con volti contemporanei e un tripudio di colori.

Nella Sala, come ad introdurre il grande affresco, è presente una figura femminile abbigliata con una veste che presenta i quattro colori degli elementi della natura: il blu per l’aria, il rosso per il fuoco, il verde per l’acqua, il giallo per la terra. E’ la personificazione della Filosofia.

All’interno dell’affresco questi colori sono utilizzati per dare un significato profondo a chi li indossa, per “materializzare” il loro pensiero, il loro percorso di vita.

In una immensa struttura antica – che sembra proprio la Basilica di Massenzio – dominano, da protagonisti, divisi dal “punto di fuga” prospettico, Platone e Aristotele. Una dualità come fossero San Pietro e San Paolo del pensiero e non della fede.

Platone è il mondo delle idee, Aristotele la realtà empirica.

Platone indica il cielo ed è vestito dei colori della terra mentre Aristotele è avvolto dall’azzurro del cielo e da una tunica oro e con il palmo sollevato, prende energia dalla terra.

Platone tiene sottobraccio l’opera sulla genesi dell’universo, il Timeo, ha il volto sognatore e illuminato di Leonardo da Vinci. Aristotele, che porta con sé l’Etica Nicomachea, ha il volto severo e possente del vecchio maestro di Raffaello, l’architetto e pittore Bastiano da San Gallo.

Tutt’attorno una scena caleidoscopica con cinquantotto personaggi: Pitagora scrive su un libro tenendo di fronte a sé una lavagna (e ogni volta mi impressiono per il volto del moro, con la mano sul petto, che guarda con aria di rimprovero, come a reclamare per sé quanto scritto…e chissà se è esistito davvero questo personaggio senza nome). Euclide svolge una dimostrazione con il compasso, avvolto da un vestito color terra (e avendo le fattezze dell’architetto Bramante). Socrate, vestito con una tunica verde scuro, argomenta sulla scalinata con i suoi interlocutori. Diogene, puro spirito, è avvolto da un unico panneggio azzurro, etereo come l’aria. Vestita di bianco una delle poche figure dalle fattezze femminili riconosciuta come “Ipazia” o come “La Verità” filosofica (La Kalokagathia, ossia la “bellezza/bontà”, che è l’ideale supremo della virtù) anche se dovrebbe avere le sembianze di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, mecenate di Raffaello.

Raffaello infine è anche nell’opera stessa e guarda lo spettatore dalla destra in un riquadro, accanto a Zoroastro e Tolomeo.

Mi emoziona vedere poi, seduto sul primo gradino, appoggiato ad un blocco di marmo, intento a scrivere un appunto completamente chiuso in se stesso Eraclito, quello che è considerato il “Pensatore Oscuro” per eccellenza: aveva una radicata sfiducia nella possibilità che il suo scritto potesse essere compreso dall’umanità. Ecco questo personaggio, nel cartone preparatorio non esisteva. Non era previsto.
Poi appare direttamente nella versione dipinta, con le fattezze di Michelangelo Buonarroti, che nello stesso periodo stava lavorando alla volta della Cappella Sistina. Anche lui notoriamente personaggio oscuro e scontroso.

Tanti colori, tanti significati…e tante emozioni.

  • 1 Platone (con l’effigie di Leonardo da Vinci)
  • 2 Aristotele
  • 3 Socrate
  • 4 Senofonte
  • 5 Eschine
  • 6 Alcibiade
  • 7 Zenone
  • 8 Epicuro
  • 9 Federico Gonzaga
  • 10 Averroé
  • 11 Pitagora
  • 12 “Bellezza e bontà”
  • 13 Eraclito (con l’effigie di Michelangelo Buonarroti)
  • 14 Diogene
  • 15 Euclide
  • 16 Zoroastro
  • 17 Tolomeo
  • 18 Raffaello Sanzio
  • 19 Protogene

Il mondo che ci circonda è un incredibile concentrato di oggetti, materiali con i propri colori, ma ci sono anche un incredibile quantità di suoni, di profumi…passeggiando in un bosco ce ne accorgiamo in modo immediato: la natura prende il sopravvento su di noi dandoci tantissime cose.

L’uomo riesce a cogliere tutti questi messaggi dall’esterno grazie ai propri sensi. 

5, i sensi sono cinque, mi sono subito detto mentre cercavo di affrontare questo tema. Ma questi 5 sensi non sono tutti i sensi possibili nel mondo animale e a volte non ci sono solo questi anche nell’uomo, ci possono essere situazioni diverse. Così cerco di affrontare quali siano “i limiti” e “i confini” di questi sensi.

Sappiamo tutti che l’uomo può percepire il mondo con la vista (la percezione della luce, dei colori e delle forme attraverso gli occhi), l’udito (la percezione dei suoni e dei rumori attraverso le orecchie), il gusto (la percezione dei sapori attraverso le papille gustative), il tatto (la percezione del contatto fisico tramite la pelle che ci permette di sentire calore o ruvidezza o liscezza degli oggetti) e l’olfatto (la percezione degli odori attraverso il naso). A questi alcuni studiosi ne aggiungono un sesto (anche se non tutti gli studiosi sono concordi) che è la cinestesia, la propriocezione che è la capacità di percepire la posizione e il movimento del proprio corpo nello spazio. Tutti gli animali, compresi gli esseri umani, possiedono questo senso che consente di “vedersi” nello spazio senza l’uso della vista, “sentendo” le proprie articolazioni, i propri muscoli e il come si stanno usando per eseguire dei movimenti.

Ma se consideriamo tutto il regno animale, ci sono altri sensi donati loro dall’evoluzione e dalla selezione naturale.Così alcuni mammiferi particolari hanno sviluppato l’ecolocalizzazione che permette di “vedere” attraverso i suoni acuti che emettono e dei quali analizzano i ritorni in modo da determinare la distanza, la forma e la posizione degli oggetti intorno a loro. E’ con questo senso che i pipistrelli che volano di notte riescono a cacciare le zanzare ed è con questo senso che i cetacei, come i delfini, riescono a muoversi nelle acque torbide.

Lo Squalo, alcune rane e i Pesci Gatto sono in grado di rilevare i campi elettrici prodotti da altri organismi. Con questa Elettrosensibilità riescono a percepire i movimenti dei muscoli degli animali che predano.

E’ dimostrato che gli uccelli, le tartarughe marine e le api, possiedono la Magnetorecezione che è in grado di rilevare i campi magnetici terrestri e così di orientarsi nello spazio anche nelle loro migrazioni lunghissime, anche in ambienti completamente sconosciuti. Tanto per dare una misura, le Sterne Artiche migrano ogni anno, dalla Gran Bretagna al Polo Sud e ritorno per un totale di 96.000 km.

La Termorecezione è una Sensibilità al calore che permette ai Serpenti, come i pitoni e le vipere, di percepire variazioni di temperatura nell’ambiente circostante, permettendo loro di rilevare quei piccoli animali a sangue caldo che sono le prede, anche nel buio totale. Non c’è scampo per i topolini.

Ma i topi, così come i gatti e le foche, ad esempio, hanno un altro senso a loro disposizione: le vibrisse, quei baffi più lunghi e duri che sono sensori tattili estremamente sensibili e che li aiutano a percepire la distanza e la forma degli oggetti vicini, anche in ambienti scarsamente illuminati.

La Rilevazione dei feromoni, non è olfatto, ed è un senso che alcuni animali, come insetti ma anche mammiferi come i cani, hanno sviluppato per percepire i feromoni, segnali chimici emessi con scopo sociale da altri animali della stessa specie. Anche gli esseri umani dovrebbero avere questo senso, ma è talmente poco sensibile da non essere inserito nell’elenco.

Ma affrontando “i limiti” e “i confini” ci possono anche essere “combinazioni”, “confusioni”, “contaminazioni” tra i sensi. 

Così per i poeti esiste “Il suono dolce della tua voce” o “una melodia vellutata che accarezza l’aria” o ancora “un colore caldo come un abbraccio” dove si uniscono e si fondono udito e gusto, udito e tatto, vista e tatto.

Si chiama Sinestesia, è una figura retorica, ma è anche un fenomeno neurologico. E di questo fenomeno esiste una forma “blanda” e una forma “pura”. 

La Sinestesia si manifesta quando al percepire uno stimolo – supponiamo un suono – viene provocata una reazione netta di un altro senso – ipotizziamo la vista. Il fenomeno è involontario e nella sua forma più pura, è il manifestarsi di un fenomeno percettivo vero e proprio e non cognitivo. Ma una maggiore attenzione prestata può renderlo più consapevole e più netto. 

Vasilij Vasil’evič Kandinskij ha descritto la sua Sinestesia nel libro “Lo spirituale nell’arte” e la “utilizzava” per le sue opere, i suoi quadri che sono esplorazioni dei colori, delle forme e delle geometrie esistenti nel nostro mondo, esaltando questo sua particolare condizione.

Mi sono soffermato su un’opera in particolare. Si intitola “Impressione III” ed è stata dipinta da Kandinskij dopo aver assistito al concerto di capodanno del 1911 del compositore viennese Arnold Schönberg, tenutosi a Monaco di Baviera. 

Nel quadro si possono riconoscere nella grande macchia nera la forma del pianoforte a coda che si trova sul palco e ai suoi piedi i numerosi spettatori, di diversi colori. In lontananza si nota un albero arancio e alla destra dell’albero uno stagno blu. Materializzazioni di quello che percepiva il pittore, il tutto avvolto da un giallo denso e pastoso, quello che era il colore del suono di quel concerto.

Se lo guardiamo profondamente, un po’ ci sembra di essere lì. Proviamo ad ascoltare il Quartetto per archi op.10 e i Klavierstücke op.11 che vennero suonate in quel Primo Gennaio del 1911.

La Sinestesia, dicevo, può avere anche una forma più blanda e questa può essere presente in molti individui. Infatti i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri nell’ambiente che ci circonda. 

Così voglio esortare me stesso e anche voi ad allenare questo “nuovo senso” per vedere la musica che è attorno a noi, percepirne i colori, percepirne la liscezza o sentire il profumo del verde e del giallo che in questi giorni di inizio primavera si fanno sempre più esplosivi.

L’universo è davvero così nero come sembra? O forse è il Christian Grey del colore, e noi siamo troppo timidi per vedere le sue mille sfumature? In effetti, l’universo è una sorta di “trip cosmico” di colori, ma purtroppo i nostri occhi non sono equipaggiati per percepirne tutta la magnificenza.

Ma niente paura, come in una storia d’amore complicata, ci pensano gli astronomi a rivelarci ciò che non vediamo con i loro telescopi superpotenti. Pensiamo alla luce come onde che viaggiano nello spazio. A seconda della lunghezza di queste onde, vediamo diversi tipi di luce. Il nostro occhio è limitato allo spettro visibile, cioè a quella piccola fetta di luce che va dal viola al rosso. Ma ci sono lunghezze d’onda più corte (raggi X, ultravioletto) e più lunghe (infrarossi, onde radio) che possiamo solo “intendere”, ma non percepire.

Ecco dove entrano in gioco i telescopi, che possiamo considerare come occhi super-dotati. Questi strumenti riescono a vedere qualcosa che noi non possiamo, come nebulose, stelle in formazione, buchi neri e galassie lontane. Ma attenzione: quando guardiamo le immagini che ci arrivano dallo spazio, non stiamo vedendo “fotografie” reali. La prima impressione che otteniamo è sempre in bianco e nero, e sono gli astronomi che, con un po’ di “magia” tecnologica, assegnano colori alle lunghezze d’onda che i nostri occhi non possono catturare. E sì, quelle immagini spettacolari che vediamo sono spesso “falsi colori”, creati per renderci visibili le sfumature di radiazione non percepibili.

Ma, attenzione, non tutti i colori che vediamo sono inventati. Alcuni sono reali, o quasi. Quando osserviamo un corpo celeste che emette radiazioni che possiamo vedere, come una stella che brilla nel nostro spettro, vediamo colori “veri”, o almeno che rispecchiano abbastanza da vicino ciò che sarebbe percepibile. Ma se il corpo celeste emette radiazioni in una parte dello spettro che non vediamo (come i raggi X o gli infrarossi), allora entrano in scena i “colori falsi”. E qui la cosa si fa interessante.

Il colore non è solo estetica. Ogni colore ci racconta una storia. Marte è rosso perché la sua superficie è piena di ossidi, mentre le stelle blu sono giovani e quelle rosse più vecchie. Un corpo che si avvicina a noi potrebbe apparire più “azzurro”, mentre uno che si allontana si farà più “rosso”. E quando vediamo una nebulosa, i colori sono come le etichette di una mappa spaziale: l’idrogeno brilla di rosso, l’ossigeno si tinge di blu e lo zolfo… beh, lo zolfo è verde, perché… perché sì, l’universo ha senso dell’umorismo, e l’alternativo non è mai fuori posto.

I buchi neri, quelli misteriosi e affascinanti, vengono rappresentati in una palette di arancioni e gialli. Ma non lasciatevi ingannare: i buchi neri non sono colorati come un tramonto, ma queste “sfumature” ci parlano della radiazione che emettono, di come la materia si comporta intorno ad essi.

Quindi sì, che siano colori reali o creati artificialmente, l’universo è un’opera d’arte in continua evoluzione. È un grande
party cosmico, dove ci sono luci naturali (stelle e pianeti) e altre che gli astronomi “accendono” per farci vedere quei dettagli che altrimenti ci sfuggirebbero (come nebulose, buchi neri e galassie lontane).

In conclusione, gli astronomi non inventano i colori, li traducono per noi. Perché, alla fine, la domanda è: chi è il vero Christian Grey dell’universo? Gli astri o chi ci aiuta a vederli in tutta la loro, meravigliosa, complessità? Ma, come in tutte le storie complicate, la risposta è… dipende dai gusti. Preferite l’intrigo del genio creativo o l’abilità di chi riesce a fare
brillare ogni dettaglio?

Tra espiazione dei peccati e avvicinamento all’ignoto

Quest’anno il periodo della Quaresima cristiana coincide con il Ramadan, nono mese del calendario lunare dell’Islam, in cui i credenti digiunano dall’alba al tramonto. Quello del digiuno è un rituale che accomuna culture e religioni molto differenti, fin dalla notte dei tempi. Si digiunava nell’antica Grecia prima di consultare gli oracoli, si astengono dal cibo i monaci buddisti per la meditazione e anche le tre grandi religioni monoteiste – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – largamente diffuse nel Mediterraneo, prevedono periodi di digiuno. La privazione volontaria del cibo, secondo le tre religioni monoteiste nate in quello che oggi chiamiamo Medio Oriente, rappresenta uno strumento per i fedeli per coltivare la loro spiritualità, e si affianca talvolta ad altre limitazioni e privazioni per una purificazione non solo fisica, ma anche mentale. Una comunanza di rituali religiosi ma anche culturali dei Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum che testimonia un sostrato comune, talvolta dimenticato o non utile all’agenda degli estremismi. 

Nella tradizione cristiana, il digiuno inizia all’indomani del Carnevale e dura 40 giorni, fino alla Pasqua. I 40 giorni della Quaresima ricordano le settimane trascorse da Gesù nel deserto, senza cibo e né acqua, per resistere alle tentazioni del demonio. Si tratta di un periodo di ascesi e di ricerca di Dio, durante il quale il credente sceglie se privarsi di cibo o compiere fioretti e buone azioni. Durante la Quaresima, i cristiani non mangiano la carne il venerdì e digiunano il mercoledì delle Ceneri, ovvero il giorno dopo Carnevale, e il venerdì santo, due giorni prima di Pasqua.

Nell’Ebraismo, il digiuno (ta’anit) ha una valenza penitenziale ed espiatoria. Il giorno per eccellenza del digiuno per gli ebrei è lo Yom Kippur (Giorno dell’espiazione), in cui si espiano i peccati commessi durante l’anno. Lo Yom Kippur cade dieci giorni dopo il Capodanno (Rosh Ha-shanah), normalmente tra settembre e ottobre del calendario gregoriano. I credenti digiunano dal tramonto al calar del sole del giorno seguente, durante il quale non assumono cibo e bevande, acqua inclusa, non hanno rapporti sessuali e seguono le restrizioni abituali dello Shabbat (il giorno di festa che cade dal tramonto del venerdì fino al tramonto del sabato).

Nell’Islam, il digiuno (sawm) coincide con il nono mese lunare del calendario, Ramadan, e rappresenta il periodo in cui, secondo il Corano, il profeta Maometto avrebbe ricevuto la rivelazione del testo sacro da Allah tramite l’arcangelo Gabriele. Il digiuno è uno dei cinque pilastri dell’Islam, ovvero precetti obbligatori per un buon musulmano. Durante il Ramadan, i credenti adulti e in salute digiunano dall’alba al tramonto per tutto il mese. Sono previste esenzioni, in caso di malattia o impossibilità, ma con obbligo di recupero appena si torni in condizioni di normalità. Durante il digiugno non si possono assumere cibi né bevande di alcun genere, sono proibiti anche rapporti sessuali e fumo. Nell’Islam non vi sono propositi espiatori o di pentimento, ma di autocontrollo su desideri fisici ed emozioni.

Il Potere (non questo o quel potere, ma la volontà di dominare la realtà e gli altri e piegarli al proprio volere) è, per sua natura, totalizzante. E, in quanto tale, non ammette di essere condizionato e/o limitato in alcun modo, da chicchessia.

Solo poteri “concorrenti”, infatti, potrebbero riuscire a limitarlo e condizionarlo. Ammettere la possibilità di condizionamenti o limiti, significherebbe, da un lato, riconoscere, implicitamente, esistenza e legittimità a tali poteri, dall’altro, negare, di fatto, la natura assoluta del proprio primato. Entrambe evenienze inammissibili per il Potere.

Il Potere non tollera poteri e coscienze

Il Potere vuole potere tutto. Punto. Per questa ragione, non tollera nessun altro potere, quale che sia la forma nella quale esso si incarni: diritto, giustizia, politica, economia… E, non ammettendo nulla di tutto ciò che potrebbe condurre alla formazione di una qualche coscienza critica – l’unico antidoto efficace al suo veleno mortale – non tollera nemmeno libera informazione, istruzione non ideologica, cultura, arte.

Ecco perché, impedire la formazione delle coscienze e annichilire quelle già formate è una mission alla quale il Potere dedica tutte le sue energie migliori. Non a caso, propaganda martellante, controllo totale dell’informazione, censura, indottrinamento giovanile, rieducazione forzata, repressione del dissenso, terrore, riscrittura della Storia, sono strumenti comuni a qualunque forma di totalitarismo.

Siamo utero e incubatrice del Potere

Il Potere, però, non è qualcosa di esterno né di estraneo all’uomo. Non nasce, cioè, al di fuori di noi e non ci costringe, dal di fuori, ad agire contro la nostra volontà. Qualunque cosa sia – istinto, bisogno, energia, volontà o l’insieme di tutte queste cose – è connaturato a noi. 

Siamo noi esseri umani l’utero nel quale il germe-Potere nasce; l’incubatrice nella quale cresce e si sviluppa. Senza di noi, quindi, il Potere non esisterebbe

Potere: figlio che si fa padrone

Il germe-Potere abita le più oscure profondità dell’animo umano e rappresenta, in assoluto, l’elemento più difficile da governare della nostra natura. Un germe maligno – Potere è sinonimo di Male – che è, allo stesso tempo, nostro figlio e nostro padrone. Ed è proprio grazie a questa sua doppia natura che riesce ad avere la meglio su di noi con tanta facilità. 

In quanto figlio, infatti, ci illudiamo di conoscerlo, educarlo, controllarlo e servirci di lui. In quanto padrone, invece – un padrone sommamente intelligente, subdolo, seducente e potente – è lui a renderci schiavi e a servirsi di noi.

Solo un uomo ha detto “No!”

A quanto risulta a coscienza e immaginario della Storia, solo un uomo è riuscito a resistere alle tentazioni del Potere. Tentazioni contenute in quelle tre domande nelle quali, secondo il Dostoevskij de “I Fratelli Karamazov”, “è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] In quelle tre domande tutto era stato a tal segno divinato e predetto e che tutto si è a tal segno avverato, che non è più possibile aggiungervi o toglierne alcunché”.

Verità o mito senso e valore non cambiano

Solo Cristo, dunque, ha risposto no. Per ben tre volte. E, per farlo, ha dovuto dominare la sua natura umana. Non importa stabilire qui se il fatto di cui parliamo sia vero, storicamente accertato o mito, leggenda, invenzione, fantasia, suggestione o speranza. Senso e valore di quei “no”, infatti, non cambiano. Così come non cambiano senso e valore degli illuminanti esempi morali frutto della fantasia di Omero, Dante, Shakespeare, Leopardi o Dostoevskij, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente.

Potere forza sovrumana

Qual è questo senso? Il fatto che la forza seduttiva del Potere è sovrumana. Letteralmente. Vale a dire: trascende la natura umana, le possibilità e i limiti dell’umano. È a causa della fragilità della natura umana, dunque, che quel germe-Potere che noi stessi generiamo, da nostro figlio diventa nostro padrone e ci rende schiavi. Per vincere questa forza sovrumana, quindi, abbiamo un’unica possibilità: superare la natura umana. Andare, cioè, oltre l’uomo. 

Dire “No!” si può

Non si tratta di diventare super-uomini ma di riuscire a superare i limiti della nostra natura. Cristo (la mia è una riflessione meramente logica e non teologica: non ne ho le competenze) non è un super-uomo. È un uomo come tutti gli altri. E, in quanto tale, patisce fame, sete, freddo, fatica, sofferenza, solitudine, umiliazioni, tradimenti, dolore e paura della morte. Superando, però, i limiti della natura umana, riesce a rifiutare l’offerta di Satana che, mostrandogli in un istante tutti i regni della Terra, gli dice «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». (Luca, 4,6). 

Storia o mito che sia, il triplice rifiuto dell’uomo-Cristo dimostra che, sebbene la forza seduttiva del Potere sia sovrumana, superare la fragilità della natura umana e rifiutare i doni del Male si può. Una dimostrazione tutt’altro che priva di significato.

Potere e gloria sono nelle mani del Male

Semmai, sarebbe interessante capire chi, perché e per quanto tempo ha messo nelle mani di Satana potere e gloria di tutti i regni del mondo ma, l’ho detto: non ho la preparazione teologica per affrontare un tema di questa portata né per provare ad abbozzare una risposta. 

Una cosa, però, è del tutto evidente: Potere e gloria sono nella disponibilità del Male, il quale li dà a chi vuole. E, dato che un uomo autenticamente “buono” non accetterebbe doni dal Male, ne consegue che chi accetta tali doni “buono” non è. Ognuno faccia le proprie riflessioni e tragga le proprie conclusioni.

Siamo ossigeno per il fuoco del Potere

L’ho detto: il germe-Potere nasce nel nostro animo e, senza di noi, il Potere non esisterebbe. Il che significa che gli esseri umani sono ossigeno per il fuoco del Potere il quale, come ogni fuoco, in assenza di ossigeno, si spegnerebbe. La ragione per la quale, da sempre, il Potere “arde” ovunque (bruciando tutto e tutti) è che brama/illusione di potenza, da un lato, opportunismo, servilismo e paura, dall’altro, fanno sì che alle fiamme del Potere non manchi mai l’ossigeno. Non stupiamoci, dunque, se, a cento anni dalla nascita di alcuni tra i totalitarismi più devastanti che il mondo abbia conosciuto, sono così tanti i “piromani” che fanno di tutto per riportare indietro l’orologio della Storia. 

Cerchiamo i colpevoli?

Se ci chiediamo di chi sia la colpa del fatto che l’Occidente ha tutta questa fretta di tornare a quel “secolo breve” nel quale, ben 13 regimi hanno privato l’Europa da Est a Ovest di libertà, pace, diritti umani e giustizia per un totale di ben 413 anni e 11 mesi:

(Portogallo: 44 anni 7 mesi; Polonia: 42 anni 4 mesi; Cecoslovacchia: 41 anni 8 mesi; Germania Est: 41 anni 1 mese; Albania: 39 anni 2 mesi; Spagna: 39 anni 1 mese; Bulgaria: 35 anni 7 mesi; Jugoslavia: 34 anni 4 mesi; Ungheria: 31 anni 5 mesi; Romania: 24 anni 8 mesi; Italia: 20 anni 7 mesi; Germania: 12 anni 3 mesi; Grecia: 7 anni 2 mesi)

non dobbiamo cercare lontano: dobbiamo soltanto trovare il coraggio e la decenza di guardarci allo specchio. Lui sa ciò che noi fingiamo di non sapere: siamo noi i più incendiari del reame.

Quest’anno si è celebrato l’80° Anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz–Birkenau, il più grande campo di sterminio, istituito dal Terzo Reich di Hitler per eseguire l’eliminazione degli ebrei attraverso la “soluzione finale”, il più grande e terribile Olocausto di tutti i tempi, attuato nel Novecento dalla folle ideologia nazi-fascista.
Il Giorno della Memoria, che ricorre il 27 gennaio di ogni anno, designato a livello internazionale dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 per ricordare la Shoah (in Italia è stato istituito con la legge 211 del 20 luglio 2000), ha assunto quest’anno un significato particolare, alla luce delle varie guerre in atto. Come ha ricordato Papa Francesco “siamo in presenza di una terza guerra mondiale a pezzi”.

Monumento all’Olocausto a Berlino. Foto genomen 30/10/2005 door Pim Zeekoers.

Senza voler operare confronti o paragoni impropri, vogliamo solo accennare ad alcune delle atrocità passate e presenti, attuate nei confronti di popolazioni inermi e di minoranze civile, etniche e religiose.
Per restare nel Novecento, oltre al genocidio degli ebrei che resta sicuramente l’Olocausto più terribile a perenne memoria, va ricordato quello degli armeni, dei tutsie, dei cambogiani da parte dei Khmer rossi ma anche lo sterminio dei popoli nomadi (Rom e Sinti), le stragi politiche nell’URSS di Stalin, le pulizie etniche in Serbia e lo sterminio dei curdi, un popolo senza diritti e senza patria, tuttora perseguitato.

Va ricordato che in Italia è stato istituito anche il Giorno del Ricordo, celebrato il 10 febbraio di ogni anno per commemorare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata.

Questa rassegna degli orrori non è certamente esaustiva se pensiamo alle tante minoranze oppresse, più o meno consistenti o più o meno conosciute ma, tuttora perseguitate nelle varie parti del mondo.
L’attualità ci richiama ai conflitti Russo-Ucraino e Israelo-palestinese, tra i più gravi dopo la II guerra mondiale, per le implicazioni geo-politiche ed economiche con conseguenze drammatiche per la sicurezza, la pace e l’ordine mondiale, anche perché si stanno innestando in nuovi scenari di governo con derive “etnocratiche” in tutta la sfera occidentale, causando gravi divisioni e spaccature politiche nella stessa Europa. In particolare, quello Israelo-palestinese, che si inquadra nel più ampio conflitto arabo-israeliano che dura con alterne vicende anch’esso da circa 80 anni (anche se in termini “tecnici” non militari si potrebbe andare ancora più indietro nel tempo), con limitazioni allo sviluppo dei territori palestinesi e alla loro libertà di movimento ma con responsabilità ed errori da registrare da entrambe le parti. Quest’ultima guerra, scatenatasi dopo il massacro al festival musicale Supernova da parte di Hamas, perpetrato il 7 ottobre 2023, con l’uccisione di centinaia di civili e soldati e il rapimento di oltre 200 ostaggi, ha visto la reazione di Israele con la strage di migliaia di civili palestinesi e praticamente la completa distruzione di Gaza.
Va detto che la questione palestinese è improcrastinabile e va assolutamente ricercata la soluzione dei due popoli in due stati e che Israele, che ha tutto il diritto di esistere, deve anche rispettare il diritto internazionale e che non può rispondere ad atti terroristici bombardando un’intera popolazione inerme e impedendone gli aiuti da parte della comunità internazionale. Non a caso, la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso due decisioni che riguardano presunti crimini commessi dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dall’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, durante il conflitto a Gaza, con responsabilità imputabili alle persone, occorre ben evidenziare, e non alla popolazione ebraica, mantenendo alta l’attenzione contro l’anti-semitismo sempre in agguato.

Porta di Lampedusa , Porta d’Europa – CC BY 2.0

Anche per il conflitto Russo-Ucraino urge una soluzione diplomatica che si sarebbe dovuta ricercare fin dall’inizio, senza arrivare a cifre che rasentano il milione di vittime tra tutte le parti in causa, con soluzioni che si prospettano adesso nella stessa misura in cui si erano poste ai primordi.
C’è un’altra atrocità epocale che riguarda un fenomeno strutturale e non emergenziale, come spesso viene trattato, ossia quella dell’immigrazione, che miete anch’essa decine di migliaia di vittime, trasformando i nostri mari in un’immane tomba, nel silenzio inconsapevole o, peggio, nell’indifferenza. Dal 2016, il 3 ottobre è diventato la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, per ricordare il naufragio di Lampedusa avvenuto lo stesso giorno del 2013 in cui persero la vita 368 persone. Persone, tra cui molte donne e bambini, che cercavano di raggiungere il nostro continente nel disperato tentativo di trovare rifugio e sicurezza.

C’è una data che mi sta particolarmente a cuore, è quella prossima del 9 Febbraio, l’anniversario della nascita delle Repubblica Romana del 1849, episodio fulgido del nostro Risorgimento che finì tragicamente per mano dei francesi (con Luigi Napoleone Bonaparte presidente dell’allora Repubblica Francese), accorsi in aiuto del Papa Re.

L’esperienza della Repubblica Romana, ispirata da Giuseppe Mazzini, finì tragicamente ma lasciò in eredità quella Costituzione che divenne la base di quella della nostra Repubblica Italiana. Quei sessantanove articoli sono incisi sul muro della Costituzione della Repubblica Romana al Gianicolo, luogo dove si svolsero i tragici fatti. Nel nostro Paese la memoria dovrebbe nutrirsi più anche del nostro Risorgimento.

Foto Comitato Gianicolo

In memoria della memoria, occorre allora recuperare un senso comune della tragicità della Storia e cercare un senso vero a queste giornate, che riporti tutta la comunità internazionale, compresi i governi fino alle singole persone, alle proprie responsabilità con coerenza e al di là di retoriche commemorazioni.

Proprio in questi giorni di prossime elezioni in Germania, c’è chi dichiara con disinvoltura che occorre guardare con “leggerezza” alla Storia, praticamente un richiamo alla smemoratezza. Riporta al concetto nietzschiano di storia critica di chi vorrebbe guardare alla storia non come un intralcio ma alla creazione del “nuovo” e di nuove verità. Questo però a patto che non ci siano negazionismi e che restino fermi i principi di dignità della persona, dei popoli e del rispetto del diritto internazionale. La Storia non può essere distorta a fini politici.

Bansky , Angel Skull – CC BY-NC 4.0

La memoria del passato ci dovrebbe far guardare con consapevolezza e sensibilità al presente, mettendoci in guardia da un eterno ritorno di atrocità che sembrano essere così lontane e sbiadite nel tempo, ma che si possono ripresentare in altri modi e forme ma simili nella sostanza.

L’Etnocrazia e l’Ipnocrazia, con il loro combinato disposto, sembrano essere le evoluzioni delle democrazie occidentali che hanno garantito per questi 80 anni, pur con i loro chiaroscuri, pace e diritti. La memoria deve lasciare la feticizzazione della testimonianza e le privatizzazioni della Storia, evitando vuote celebrazioni retoriche e sonnambulismi, nel rispetto di tutte le memorie e delle loro condi-visioni.

Gianni Morandi, quasi 60 anni fa – eh sì – cantava della fine della giovinezza, della fine della spensieratezza e dell’arrivo della cruda e brutta realtà.
Erano gli anni della guerra in Vietnam – che sarebbe durata ancora un decennio – e gli anni del twist ballato sulle spiagge, gli anni degli hippies e l’anno dopo si sarebbe tenuto il mitico concerto di Woodstock.
Qualche giorno fa parlando con il mio amico Fabrizio ci è tornato alle labbra questo ritornello per dire che forse anche la nostra “giovinezza” è finita e sarebbe il caso di chiudere con i ricordi nei quali siamo immersi. Dire, anche noi, uno Stop ai Beatles e ai Rolling Stones.
Così in questo dialogo abbiamo iniziato a fare quella che poi, a ripensarci successivamente, a mente fredda, si può definire essere una analisi sociologica e psicologica di quello che stiamo vivendo “noi”. Un “noi” che può essere calato nel senso di noi due, che ci apprestiamo a raggiungere il mezzo secolo, che “noi” intesi come generazione a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. E questa riflessione vede proprio il concetto della memoria. Una memoria sempre “viva e presente”.
E’ già da qualche anno che si sono creati diversi gruppi sui social network che hanno come titolo “noi che…” declinato per un certo decennio, un certo tipo di esperienza comune. E così io, Fabrizio e tutta la nostra generazione, siamo quelli che hanno visto i robottoni che combattevano per difendere il giappone e il mondo intero dagli invasori, e ci siamo agitati cantando le loro sigle, siamo quelli che hanno visto Heidi e Conan e ci siamo commossi con quei cartoni animati al pensiero del triste destino della ragazzina svizzera o per quello che poteva essere l’ultimo bambino sulla terra, siamo quelli che si sono sfiniti di lacrime per Alfredino, siamo quelli che hanno cantato le canzoni degli “Wham!” tra una “Last Christmas” e una “Wake Me Up Before You Go-Go”, siamo quelli che hanno visto il muro che circondava la Berlino “Occidentale” da quella orientale, siamo quelli che ancora a volte pensano usando le lire e che hanno in mente la bicicletta con il sellino lungo e il cambio.
Siamo quelli lì.
Sicuramente.
E siamo ancora capaci di intonare quelle canzoni lì appena ne sentiamo un frammento.
Ma forse è questo uno dei problemi della memoria, o meglio il problema di una memoria lasciata sempre viva, come fosse sempre presente.
Possiamo, con la tecnologia a nostra disposizione, con gli algoritmi che seguono le nostre propensioni e i nostri “gusti”, possiamo rimanere in una bolla spazio-temporale che nella realtà non esiste più.
Il mondo è decisamente andato avanti da quegli anni ’70 e anni ’80 della nostra infanzia e anche da quegli anni ’90 che furono quelli della nostra giovinezza e poi quelli che hanno seguito.
Possiamo costantemente rivivere l’onda di speranza di Piazza Tien a Men o il terrore degli aerei che si schiantano nelle Torri gemelle o ascoltare e riascoltare, ad esempio mentre guidiamo, le bionde trecce e “ancora tu, ma non dovevamo vederci più” o le tre parole “sole, cuore, amore”. Possiamo vivere, se vogliamo, un mondo che in realtà non esiste più.
Possiamo prolungare, se vogliamo, la nostra giovinezza continuando a cantare “i Beatles e i Rolling Stones” senza che nulla possa perturbare la nostra confortevole ripetizione degli stessi gesti, senza nessun cantante Trap (no, nonostante questo articolo, non riesco nemmeno a considerarli cantanti…) che possa scuoterci proponendo nuove strofe, nuove rime.
Come vivessimo in un mondo congelato, statico.
Ecco pensando alla memoria, vorrei lanciare una riflessione: se il gusto nostalgico della memoria così facile per le tecnologie che abbiamo attorno a noi, non ci stiano privando in qualche modo di quel piccolo “stress” che però in ultima analisi è il vivere il “Quì e Adesso”.
Pensiamoci.

Fabrizio: copio e incollo il testo della Canzone di Gianni Morandi, semmai ti venisse voglia di canticchiarla così, anche senza base musicale.

C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
Veniva da
gli Stati Uniti d’America
… Non era bello
Ma accanto a sé
Aveva mille donne se
Cantava Help e Ticket to Ride
O Lady Jane, o Yesterday
… Cantava viva la libertà
Ma ricevette una lettera
La sua chitarra mi regalò
Fu richiamato in America
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, Coi Beatles stop
… M’han detto va nel Vietnam
E spara ai Viet Cong
… C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
ma poi finì
A far la guerra nel Vietnam
… Capelli lunghi non porta giù
Non suona la chitarra ma
Uno strumento che sempre dà
La stessa nota
Ra ta ta ta
… Non ha più amici
Non ha più fans
Vede la gente cadere giù
Nel suo paese non tornerà
Adesso è morto nel Vietnam
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, coi Beatles stop
… Nel petto un cuore più non ha
Ma due medaglie o tre

(Autori Migliacci, Lusini – Editore UNIVERSAL MUSIC PUBLISHING RICORDI S.R.L)

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Scriveva così Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, in un articolo intitolato “Cos’è questo golpe? Io so”.  Esattamente un anno dopo (2 novembre 1975), sarebbe stato brutalmente massacrato, in circostanze che nessuno è mai riuscito/ha mai voluto chiarire. 

La goccia e il vaso

Dato che parliamo di una delle intelligenze/coscienze più lucide e penetranti del Novecento, è chiaro che Pasolini sapeva perfettamente che, insieme a quell’articolo, firmava anche la propria condanna a morte. Intendiamoci: che la sua fosse una tra le voci più “scomode” e invise al Potere (la P maiuscola per indicare non questo o quel potere né questi o quei potenti ma la natura stessa del Potere: essenza, ragion d’essere e logiche che ne governano, universalmente, l’azione) gli era chiaro da ben prima di quel 14 novembre. 

Pasolini, dunque, sapeva di essere “al centro del mirino”. C’è sempre, però, una “goccia” che fa traboccare il proverbiale “vaso”. E non è affatto improbabile che, in questo caso, la goccia sia stata appunto quell’articolo.

Chi gliel’ha fatto fare?

Arriva sempre il momento nel quale il Potere dice “basta!” e tappa la bocca a colpi di martello al “Grillo parlante” di turno. La prima domanda, quindi, che questa vicenda suscita ha il sapore del cinismo andreottiano: “chi glielo ha fatto fare?”. Perché Pasolini decide di scrivere quell’articolo? È vero: è un intellettuale, una “coscienza critica” e il suo ruolo glielo impone. Come è vero che scrivere poesie, romanzi, saggi, sceneggiature, regie, drammi e articoli è il modo che l’uomo ha scelto per adempiere al meglio a tale ruolo. 

Essere o non essere

In certi contesti/momenti storici, però, le persone raggiungono quello che potremmo definire “punto di non ritorno”. Si ritrovano, cioè, sole di fronte a sé stesse. Devono decidere se fermarsi o andare avanti. Solo due cose sanno con certezza: fermarsi equivale a perdere la “guerra”; andare avanti equivale a perdere la vita. “Essere o non essere”: dilemma vitale. In tutti i sensi. Di gran lunga il più drammatico. Quello di fronte al quale nessuno vorrebbe trovarsi mai.

Fermarsi o andare avanti?

Le ragioni per fermarsi sono tante. Le conosciamo tutti, le comprendiamo tutti, le condividiamo tutti, le adottiamo tutti. La ragione per andare avanti, invece, è soltanto una: mettere la “causa” per la quale si combatte al di sopra della propria vita. Una scelta radicale che impone una decisione radicale.

La normalità non obbliga alla radicalità

Vorrei che, per un attimo, distogliessimo lo sguardo dalla persona che sta per compiere la sua scelta e lo rivolgessimo alla realtà che l’ha messa di fronte a tale scelta. Una cosa appare evidente: non può trattarsi di una realtà “normale”. La “normalità”, infatti, non obbliga mai alla radicalità. In tempi normali, a nessuno viene in mente di sacrificare la propria vita per una causa superiore. Semplicemente, perché non ce n’è alcun bisogno. 

Extremis morbis extrema remedia

Se ci vediamo costretti a “rimedi estremi”, dunque, significa che viviamo tempi “anormali”. Ci troviamo, cioè, di fronte a quei “mali estremi” che impongono, appunto, “estremi rimedi”. “Extremis morbis extrema remedia”, si diceva un tempo. Pasolini, dunque, sa che il male che ha di fronte (il tentativo di eliminare la democrazia e restaurare un qualche tipo di regime neo-fascista) è estremo e richiede cure estreme. Per questo, non smette di lanciare l’allarme né di puntare, pubblicamente, il dito contro coloro i quali considera responsabili di quella deriva.

Io so – scrive – i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli”.

Il richiamo della coscienza

Pasolini ha scelto, dunque. Andrà avanti, nonostante sappia benissimo cosa lo attende. Decisione difficilissima e rarissima, comune allo sparuto drappello di quelle anime “nobili” che considerano ineludibile il richiamo della coscienza: magistrati, uomini delle Forze dell’ordine, giornalisti, docenti universitari, politici, sindacalisti, attivisti, sacerdoti, personalità di quella società che chiamiamo “civile” ma che, evidentemente, tanto civile non è. Soprattutto con loro.

Martiri della Democrazia

Pochissimi tra quelli che potremmo definire “martiri della Democrazia dei Costituenti” – Dalla Chiesa (‘82), Falcone (‘92) e Borsellino (‘92: i numeri in parentesi indicano l’anno della loro esecuzione), ad esempio – vengono ricordati solo in occasione di ricorrenze ufficiali. Ricordi retorici, formali, vuoti, finti.

La stragrande maggioranza, invece, giace ormai praticamente dimenticata. Penso a nomi come Scaglione (‘71), Ferlaino (‘75), Coco (‘76), Occorsio (‘76), Casalegno (‘77), Calvosa (‘78), Palma (‘78), Tartaglione (‘78), Alessandrini (‘79), Terranova (‘79), Ambrosoli (‘79), Giuliano (‘79), Rossa (’79), Bachelet (‘80), Minervini (‘80), Giacumbi (‘80), Galli (‘80), Amato (‘80), Costa (‘80), Tobagi (‘80), Caccia (‘83), Chinnici (‘83), Fava (‘84), Tarantelli (‘85), Cassarà (’85), Siani (‘85), Conti (‘86), Rostagno (‘88), Ruffilli (‘88), Saetta (‘88), Giacomelli (‘88), Livatino (’90), Scopelliti (‘91), Puglisi (‘93), Diana (‘94), D’Antona (‘99), Biagi (2002). Ma la lista, purtroppo, è decisamente più lunga di così. 

Diciamoci la verità: di quanti di questi nomi sapremmo dire chi erano e perché furono giustiziati?

Cui prodest?

Tre domande:

  • come mai – fatta eccezione per le chirurgiche esecuzioni di D’Antona e Biagi – stragi e omicidi terroristico-mafiosi si fermano al 1994? 
  • Lo Stato aveva sconfitto criminalità organizzata e terrorismo o era sceso a patti con essi? Gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia ci furono davvero? 

Ha ragione la Cassazione (27 aprile 2023), che ha assolto “gli imputati del reato di minaccia a un corpo politico dello Stato, per alcuni avendo rilevato la loro estraneità ai fatti e per altri avendo dichiarato prescritto il reato”, dopo derubricato da reato consumato a reato tentato? Oppure ha ragione Nino Di Matteo (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) a sostenere (“Il colpo di spugna”, Fuori Scena, gennaio 2024): “Forse doveva andare così […] le istituzioni tutte dovevano sgomberare il campo da nubi così nere. Non potevano consentire che, in una sentenza definitiva (per quanto assolutoria) venissero consacrati, nero su bianco, rapporti di dialogo e scambio con il nemico dichiarato. Molto meglio, molto più rassicurante per il Paese, ricondurre a congetture fatti e rapporti così scabrosi”.

  • La “lotta armata” (prima fase del progetto eversivo che mirava alla sdemocratizzazione del nostro Paese) aveva esaurito il proprio compito ed era, quindi, giunto il momento di avviare la fase due: una via “non-violenta” alla restaurazione anti-democratica?

Eversione: dalla fase “hard” a quella “soft”

Personalmente, propendo per quest’ultima ipotesi: la “fase soft” subentra alla “fase hard” (della quale credo abbiano fatto parte anche gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia) nel momento nel quale quest’ultima esaurisce il proprio mandato. Non è certo un caso, infatti, se – nell’ultimo trentennio – partendo dalla damnatio memoriae del sistema dei partiti (cuore della democrazia rappresentativa voluta dai Costituenti), il tasso effettivo di democraticità della nostra democrazia è stato ridotto praticamente al lumicino. 

Sputtanare è meglio che ammazzare

Del resto, corrompere e sputtanare la classe politica è infinitamente più facile e pratico che eliminarla fisicamente. E, soprattutto, non presenta controindicazioni. Anzi: mette d’accordo tutti. Il pugno di ferro della lotta armata non aveva ottenuto gli effetti sperati. La reazione, infatti, non aveva prodotto la restaurazione autoritaria. Partiti, sindacati, lavoratori, studenti, professionisti, gente comune – in due parole: società e opinione pubblica – avevano rifiutato la brutalità di stragi e omicidi e fatto quadrato intorno ai valori costituenti e alla parte sana delle Istituzioni. Gli strateghi dell’eversione si rendono, quindi, conto che si impone un cambio di passo.

Riforme reazionarie

E, così – dai primi anni Novanta – il progetto eversivo viene portato avanti non più a colpi di armi da fuoco ma di riforme. Riforme “reazionarie”, dipinte come innocue e spacciate per “progressiste” e migliorative. Poco importa se non sempre “nuovo” è sinonimo di “migliore”. La voglia di cambiamento è talmente forte, che l’opinione pubblica non si accorge del fatto che le cose stanno prendendo una piega pericolosa. E, forse, nemmeno le interessa. Come si dice: “tanto peggio, tanto meglio”.

Verso l’autoritarismo invisibile

Partendo da bipolarismo, maggioritarismo ed esecutivismo, e passando per monocameralismo, presidenzialismo e/o premierato, la “fase soft” punta a instaurare una nuova forma di autoritarismo: un autoritarismo invisibile, mascherato da democrazia. L’obiettivo è sbarazzarsi della democrazia, senza darlo a vedere. Passare, cioè, surrettiziamente, da una democrazia reale a una democrazia apparente. E, quindi, a una non-democrazia.

La democrazia somiglia all’oro

Il fatto è che la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, semmai, all’oro. Il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Un conto, infatti, è vivere in una “democrazia a 24 carati” – pura al 99,9% – tutt’altro conto è vivere in democrazie a 18k (75% di purezza), 14k (58,3%), 10k (41,7%), 9k (37,5%) o meno, quando la percentuale di oro è talmente bassa che non si può più parlare di oro ma ci si trova di fronte a una lega di metalli, priva di valore. 

Democrazia patacca

Ed è, esattamente, verso una “democrazia patacca” – placcata oro a 9 carati – che il Potere sta trascinando la democrazia italiana. E, sebbene tutti sostengano di sapere benissimo che “non è tutto oro quel che luccica”, in realtà fanno tutti finta di ignorarlo. Evidentemente, molto più della verità, possono il bisogno/la convenienza di credere a certe bugie e/o la paura di guardare in faccia la realtà. E, così, ci ritroviamo ormai a un passo dal raggiungimento degli obiettivi di quella “serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere” di cui parlava Pasolini.

Anime spregiudicate

A proposito di quella stagione, ho sempre pensato che – al di là delle molte, significative, differenze – Moro e Pasolini fossero anime molto più affini di quanto non sembrasse. Se non altro, dal punto di vista della fedeltà al mandato della coscienza. E credo che entrambi abbiano pagato con la vita la loro “spregiudicatezza”. Spregiudicatezza intesa, ovviamente, come disponibilità ad affrontare qualunque rischio pur di non venir meno al proprio dover essere. 

È vero: molto probabilmente, l’aggettivo “spregiudicato” non è mai stato utilizzato per definire la personalità di Moro. Eppure, credo che spregiudicato egli lo sia stato davvero. Una spregiudicatezza forse alimentata dalla forza della sua fede. Se Pasolini ha pagato la spregiudicatezza di una voce troppo libera, credo che Moro abbia pagato quella di una visione troppo libera della politica. Visione che il Potere giudicò intollerabile e inaccettabile per il mondo di allora. E che giudicherebbe ancor più intollerabile e inaccettabile per quello di oggi. 

Il crooner e l’urlatore

Entrambi vedevano e stigmatizzavano il presente con lucidità unica. E, con quella stessa lucidità, profetizzavano il futuro. Futuro che, non a caso, preoccupava tanto l’ateo quanto il credente. Preoccupazioni molto più che fondate, a giudicare dal presente che stiamo vivendo. 

Entrambi, inoltre, vivevano, con autenticità, la loro dimensione spirituale, possedevano una profonda conoscenza sia dell’animo umano che dell’in sé della politica e condividevano valori quali dialogo, confronto, solidarietà, giustizia sociale, libertà, pace.

La differenza, se c’era, era nel diverso modo di modulare la voce. Per usare una metafora musicale, si potrebbe dire che Pasolini fosse un “urlatore”, mentre Moro, un “crooner”. Il primo “gridava”, il secondo sussurrava; il primo “scomponeva”, il secondo “componeva”. 

Due outsider

Entrambi, però, erano outsider. Pasolini fuori e Moro dentro l’Establishment, è vero. Eppure, ugualmente outsider. E, in quanto tali, ingovernabili. Fu questo loro rimanere fedeli alla natura di outsider che, prima, li precipitò nell’isolamento e nella solitudine intellettuale e, poi, portò alla loro condanna a morte. E, così, un “poeta” e un politico tra i più grandi del secondo Novecento, si ritrovarono fianco a fianco sul Golgota, accomunati dal medesimo, tragico, destino.

I buoni? Sono quelli che vengono ammazzati

Due ingenui? Forse, se vogliamo utilizzare il dispregiativo con il quale il Potere definisce le anime sulle quali non può nulla. Le uniche delle quali abbia davvero paura. Come sappiamo che ne ha paura? Semplice: ce lo dice il fatto che le fa eliminare. Nessuno sprecherebbe nemmeno una pallottola per qualcuno che non gli crea alcun problema! In tema di Potere, dunque, non è poi così difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Di solito, infatti, i “buoni” sono quelli che vengono ammazzati.

Anche Moro sapeva

Gli omicidi Pasolini e Moro rappresentano due passaggi decisivi del processo di sdemocratizzazione del nostro Paese. Il secondo, in particolare, non fu – come i media lo definirono – un “attacco al cuore dello Stato”. Per genesi, obiettivi, modalità di attuazione e conseguenze, fu un vero e proprio colpo di Stato.

Come Pasolini, anche Moro sapeva. Due mesi prima dell’uscita dell’articolo di Pasolini sul Corriere, Moro – Ministro degli Esteri – è in visita ufficiale negli Stati Uniti. Nel corso di un incontro bilaterale, Henry Kissinger (all’epoca Segretario di Stato ma anche Responsabile della Sicurezza Nazionale USA) è particolarmente esplicito nel chiedere a Moro di abbandonare la politica del cosiddetto “compromesso storico”, vale a dire la partecipazione del Partito Comunista al governo del Paese. (Ricordo che, alle Politiche del 1976, il PCI aveva ottenuto quello che sarebbe rimasto il migliore risultato della sua storia: 12,6 milioni di voti, il 34,37% del totale. Alle stesse elezioni, la DC aveva ottenuto 14,2 milioni di voti: il 38,7% del totale. Le due forze, insieme, quindi rappresentavano ben il 73,1% dell’elettorato italiano).

Kissinger vs Moro

In una testimonianza giurata in sede processuale, il portavoce di Moro sostenne che Kissinger apostrofò con estrema durezza il Presidente DC: “Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. 

Pare che, uscito da quell’incontro, Moro si sia rifugiato nella cattedrale di San Patrizio, fortemente turbato. Ebbe un malore e decise di anticipare il suo rientro in Italia. Una volta rientrato, disse al suo portavoce che intendeva “abbandonare per almeno due anni, la politica attiva”: “cominci a far circolare nei giornali la notizia”. Poi, però, cambiò idea. Avrebbe bevuto l’amaro calice. “Non credi che io sappia che posso fare la fine di Kennedy”, avrebbe confessato a una sua allieva dell’Università.

Impossibile stabilire se le minacce del Segretario di Stato USA siano state davvero così esplicite e pesanti. Kissinger ha sempre smentito di aver pronunciato quelle parole. Importa poco. Se non vere, sono senza dubbio verosimili. Del resto, per gli USA, la possibilità che il più grande Partito Comunista europeo (per come la vedeva Washington, 1 italiano su 3 era comunista: parola impronunciabile oltreoceano) entrasse nell’area di governo del nostro Paese era, semplicemente, inconcepibile. 

L’impotenza della politica

L’ho scritto decine di volte ma mi vedo costretto a ripeterlo ancora. Forse perché – al pari di ogni verità contro-intuitiva – è difficile da credere: la politica non detiene il Potere. È il Potere che detiene la politica

Se non credete alle mie, credete almeno alle parole di Moro, che di politica certo se ne intendeva. Ecco cosa dice il 24 ottobre 1965, rispondendo a Eugenio Scalfari che lo intervista per l’Espresso: «La gente pensa che noi abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto, e per di più impunemente. Una parola del presidente del Consiglio, una firma d’un ministro e tutto è risolto, qualunque affare lecito o illecito può diventare una realtà. Come se noi disponessimo d’una bacchetta magica e potessimo usarla come ci pare. Questo pensa la gente. E invece non è vero niente. Lei m’ha chiesto prima cosa penso della crisi dello Stato. Ecco cosa penso: che il potere esecutivo, o meglio la classe politica che è al vertice del potere esecutivo, ha limitate possibilità d’intervento e di comando». Limitate possibilità d’intervento e di comando: cerchiamo di non dimenticarlo.

Via Fani: epilogo non avvio 

Solo uno sprovveduto, dunque, può pensare che una personalità dell’intelligenza – non solo politica – di Moro non avesse capito che la sua condanna a morte era stata pronunciata molto prima dell’agguato di Via Fani. Via Fani è l’ultimo, non il primo atto di quel progetto: l’epilogo, non l’avvio. 

Una volta visto il “dietro le quinte” del progetto eversivo, Moro non poteva più avere alcun dubbio riguardo a con chi avesse a che fare e quale fosse il disegno complessivo. Se Pasolini conosceva i nomi dei “golpisti”, infatti, più e meglio di lui li conosceva Moro. E, al contrario di Pasolini, molti di quei nomi, li aveva probabilmente conosciuti anche di persona. Come Pasolini, dunque, Moro sapeva. E, come per Pasolini, il suo sapere e non tirarsi indietro è il motivo stesso della sua morte.

Conclusioni

Perché questa lunga riflessione?

Per la speranza che almeno tre cose, a mio avviso fondamentali, risultino il più possibile chiare:

  1. Nulla – negli ambiti nei quali opera il Potere – avviene per caso. Nulla.

  1. Tutto è collegato“fatti anche lontani”, “pezzi disorganizzati e frammentari” – e governato da una logica rigorosa, anche “là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Se non la vediamo, non è perché tale logica non esiste ma perché non siamo capaci di vederla.

  1. Arbitrarietà, follia, mistero, attentati, stragi, delitti, insabbiamenti, depistaggi, disinformazione, propaganda, bugie, fake news, “panem et circenses” sono le armi di distrazione di massa con le quali il Potere – come il più grande di tutti gli illusionisti – ci fa vedere una realtà irreale, per impedirci di vedere quella reale, il cui destino deve dipendere, esclusivamente, dalla sua volontà.

Cosa possiamo fare? Non molto, in verità, se non provare a “immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, a mettere “insieme i pezzi disorganizzati e frammentari” della realtà, e a ristabilire “la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Facile? Tutt’altro. Indispensabile, però, se desideriamo cercare di scoprire la differenza che c’è tra vivere e sopravvivere. 

Uniamo i puntini, dunque. E forse, come nel celebre gioco de “La Settimana Enigmistica”, riusciremo a scoprire qual è il vero volto della realtà nella quale viviamo. Forse.

Lotta, un termine antico che richiama il combattimento. Ma in senso più lato richiama la lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento, per la verità. C’e’ anche filosoficamente una lotta amorosa. Ma procediamo per gradi. Fin dalle origini la specie umana ha dovuto lottare per la sopravvivenza. Il Sapiens sapiens, a cui apparteniamo, è quello che è meglio riuscito nell’adattamento, ma già dalle prime comunità umane fino alle moderne società si sono presentati conflitti tra tribù, gruppi e classi sociali, rappresentati dal concetto marxista di lotta di classe, oggi ormai non più in voga. Occorre anche ricordare le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa per secoli e che tuttora continuano a seminare odio e terrore nel mondo, spesso al servizio di interessi politico-economici.

Nel mondo globalizzato assistiamo a disparità più o meno evidenti in tutto il pianeta, che si stanno sempre più accentuando con il procedere dello smantellamento degli stati sociali e dei sistemi di welfare. Seppur nel mondo l’Europa ha una maggior capacità redistributiva, l’Italia e’ quella che ha l’indice di Gini più alto (indicatore che misura le diseguaglianze: più è basso e più ci si avvicina ad una situazione di uguaglianza) del Vecchio Continente. Siamo comunque in una situazione di concentrazione delle ricchezze in mano di pochi, pari a quella di un secolo fa.

La lotta per ridurre le diseguaglianze e’ sicuramente una priorità a livello mondiale anche se i segnali non vanno purtroppo in tal senso. Sembra che gli egoismi continuino a dominare anzi, si stiano maggiormente diffondendo e radicando nei popoli stessi.

C’e’ poi, la lotta per il riconoscimento, su cui non mi vorrei dilungare perché è stato il tema di un nostro recente numero di Condi-Visioni (gennaio-febbraio 2024).

 Il riconoscimento e’ un concetto trattato in molte discipline, tra cui la sociologia, la psicologia e la filosofia. Oltre alla hegeliana lotta per la vita e la morte tra auto-coscienze, culminante nella dialettica servo-padrone, vorrei solo ricordare la “Lotta per il riconoscimento” di Axel Honneth, eminente sociologo e filosofo erede della scuola di Francoforte, come grammatica dei conflitti sociali e processo storico continuo di ricerca dei diritti dovuti alle esclusioni, alle violenze e alle umiliazioni.

Venendo alla lotta per la Verità, possiamo dire che la filosofia è ricerca stessa della verità, anche se questo è un concetto limite, irraggiungibile. In termini pratici, in un mondo dominato dalle fake news, dalle echo chambers dei social, dai negazionismi e dai complottismi, la lotta per la ricerca della verità è una questione quanto mai attuale e urgente. Si pensi ad esempio alle vicende no vax, alle più recenti discussioni sui cambiamenti climatici o alle verità sui genocidi. Andando in tempi meno recenti, alle stragi attuate durante la strategia della tensione in Italia, che ancora attendono risposte. In questi giorni è scomparsa Licia Pinelli, moglie del partigiano, ferroviere, anarchico Pino, morto nel dicembre del 1969 per una “caduta” da una finestra della Questura di Milano; ella ha sempre lottato per la verità nella Notte della Repubblica. Ci sono tantissimi altri casi grandi e piccoli che qui vorrei citare, come quello di Pietro Orlandi, che lotta per la verità sulla scomparsa della sorella Emanuela avvenuta ormai nel lontano 1983, ma la lista sarebbe lunghissima.

 Voglio solo evidenziare, reduce da un recente viaggio in Argentina, che le madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, costituitesi in Associazione, marciano ininterrottamente da oltre 40 anni, tutti i giovedì di ogni settimana, chiedendo verità per i desaparecidos della dittatura che governò l’Argentina dal colpo di stato del 1976 fino al passaggio a un governo eletto dai cittadini nel 1983.  Un esempio di lotta tenace e indefessa.

Per lasciarci con un messaggio di speranza, c’è anche quella che il grande psicopatologo e filosofo Karl Jaspers chiama lotta amorosa. E’ nella genuina comunicazione tra esistenze che avviene quella ricerca vera di intesa reciproca e comprensione comune che dovrebbe essere la dimensione non di un ingenuo e scontato stare in comunità ma di una dimensione che ci veda tutti impegnati in questa lotta della comunicazione dove trovano spazio la fiducia e  la solidaristica umana, con l’esclusione di qualsiasi forma di potere: la lotta amorosa.

La vita non esiste in natura. Ce la siamo inventata noi. A guardarsi intorno, non c’è granché di cui andare fieri. Di certo, non la migliore delle nostre invenzioni. Tra le peggiori, anzi. Se non la peggiore. 

Né potrebbe essere altrimenti. Essendo una nostra creazione, infatti, è impossibile che non ci assomigli. E, dato che, dentro di noi, prevale il male, è inevitabile che prevalga anche nelle cose che facciamo. E la vita, purtroppo, non fa eccezione. 

Comandamenti rivelatori

Chi nega che, nella natura umana, prevalga il male, non conosce (o finge di non conoscere) sé stesso e nega la realtà

Se la nostra natura, infatti, fosse orientata al bene, che bisogno ci sarebbe di così tanti comandamenti/divieto? Sette su dieci, tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento. Ricordo solo i più “terreni”: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non commettere adulterio/atti impuri, non desiderare la donna e le cose degli altri d’altri. 

Chiunque li abbia scritti, ci conosceva molto bene. Più di noi stessi. E sapeva che, se fossimo stati lasciati liberi di assecondare la nostra vera natura e soddisfare istinti, bisogni, desideri, la vita sulla Terra sarebbe diventata un vero e proprio inferno. E, malgrado poche regole, che più chiare di così non potrebbero essere, è davvero un inferno quello nel quale viviamo.

Amare è contro natura

A essere onesti, c’è stato un uomo che ha provato a rovesciare la prospettiva. Si chiamava Gesù Cristo e, forse proprio per questo, ha fatto la fine che ha fatto. Cosa sosteneva? Che il comandamento più importante di tutti fosse il comandamento dell’amore: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Dopotutto, se uno ama davvero, non uccide, non ruba, non dice falsa testimonianza, non commette adulterio/atti impuri, non desidera la donna e le cose degli altri d’altri. Un unico comandamento “positivo”, che rendeva “inutili” i sette “negativi”.

Più facile obbedire a un’unica legge che a sette leggi diverse? Niente affatto. Immensamente più difficile, a quanto pare. Ulteriore prova del fatto che la natura umana è fatta per odiare e non per amare. Ci piaccia o no, l’homo homini lupus è la regola: l’amore non è che un’eccezione. Sempre più rara, tra l’altro. Del resto, se amare fosse naturale, che senso avrebbe comandarci di farlo?

Tra bene e male, scegliamo il male

E, così, l’umanità se n’è allegramente sbattuta, sia dei sette comandamenti della “tradizione” ebraica, sia dell’unico comandamento della “rivoluzione” cristiana. (Del resto, come si fa a dar retta a un pazzo che predica: “amate i vostri nemici?”). E, da migliaia e migliaia di anni, tra “bene” e “male”, continua a scegliere il male.

Il serpente mi ha ingannata

La domanda è: stando così le cose, ha senso nascondersi dietro a luoghi comuni del tipo: “così è la vita”? Neanche un po’. 

Il punto è che la vita non è affatto così. Siamo noi che l’abbiamo voluta così e che continuiamo a volerla così. E visto che, oltre che ipocriti, siamo anche pavidi, ci guardiamo bene dall’assumerci le nostre responsabilità e le attribuiamo alla “vita”, come se fosse un’entità mitologica, preesistente alla nostra apparizione sulla Terra. E così, dalla notte dei tempi, non facciamo che praticare il più antico e ignobile degli scaricabarile: il biblico “Il serpente mi ha ingannata”. 

La colpa è sempre dell’altro

E, come per magia, la colpa passa da noi a qualcun altro: mamma e papà (giurassici e “cringe”: non mi capiscono), mio fratello Caino (troppo cattivo), mio fratello Abele (troppo buono), la maestra (troppo severa), i professori (ce l’hanno con me!, chi c***o si credono di essere?), compagni di scuola, amici, colleghi di lavoro (stupidi, stronzi, invidiosi), le donne (tutte mignotte), gli uomini (tutti puttanieri), mia moglie (zoccola), mio marito (stronzo), il capo (bastardo)… e, naturalmente: i Russi, gli Americani, l’Europa, il Mercato, il Palazzo; dollaro, euro, bitcoin, BCE, FMI; negri, ebrei, musulmani, comunisti; froci, lesbiche, trans, queer & Co; stranieri, immigrati, zingari; poveri, disabili, malati, vecchi… 

In una parola, l’altro. L’odiato nemico; l’essere demoniaco che è causa di tutti i nostri mali e che non vediamo l’ora di eliminare. Essere demoniaco, con il nostro “stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”, per dirla con De Andrè, il quale ricambia il nostro odio e non vede l’ora di eliminare noi. Come diceva l’uomo sulla croce? “Amate i vostri nemici”?

Ne resterà soltanto uno

Ma se il problema fosse davvero l’altro, come mai – dopo che lo abbiamo cancellato dalla faccia della Terra, migliaia e migliaia di volte, in migliaia e migliaia di guerre, che sono costate centinaia e centinaia di milioni di morti – i nostri problemi sono ancora tutti qui?

Quando scompariranno? Quando “ne resterà soltanto uno”, come diceva Highlander? Ne siamo davvero sicuri? E cosa succederà, a quel punto? Sicuri che l’ultimo dei mortali riuscirà a sopravvivere alla fine dei conflitti (“E quando fu di fronte al mare, si sentì un coglione perché, più in là, non si poteva conquistare niente”, canterebbe Vecchioni) o, non avendo più nessun nemico da combattere, finirà per diventare il nemico di sé stesso e auto-eliminarsi? 

Solo alla morte non c’è rimedio

Quando diciamo che solo alla morte non c’è rimedio, riconosciamo, implicitamente che, per tutto il resto, il rimedio c’è

Il che significa che c’è rimedio all’odio che ci spinge a un sempre più esasperato tutti-contro-tutti, alle mille guerre che devastano il pianeta, all’irrefrenabile, suicida, distruzione dell’ambiente, a un capitalismo sempre più selvaggio e alle distorsioni di un Mercato completamente fuori controllo, che divora tutto e tutti come un Leviatano, alla devastante (non)distribuzione della ricchezza (per la prima volta nella Storia, una ventina di persone possiede una ricchezza pari a quella di quasi 4 miliardi di persone: l’equivalente di metà della popolazione mondiale), al degrado morale e alla corruzione, che non risparmiano nessun ambito della nostra vita, privata o pubblica che sia.

Se il rimedio esiste, perché non lo adottiamo?

A questo punto, la domanda è: se, per tutte queste cose, il rimedio esiste, perché non lo adottiamo? Come mai l’odio non fa che crescere e le guerre si moltiplicano, con il rischio di trascinare l’umanità verso l’Armageddon? E come mai capitalismo, consumismo, inquinamento, deforestazione, sfruttamento sconsiderato delle risorse, cambiamento climatico, concentrazione delle ricchezze, povertà estrema, razzismo, xenofobia, patriarcato, sessismo, omo-lesbo-bi-transfobia, degrado morale e corruzione appaiono, ormai, incontrollabili e inarrestabili?

Il serpente siamo noi

La risposta c’è, è semplice, la conosciamo da sempre ma non la vogliamo sentire: il serpente siamo noi. E, fino a quando non riusciremo a estirpare il male da noi, sarà impossibile riuscire a estirparlo dalla realtà. E la vita sarà sempre la stessa: una barca alla deriva, in balia del peggio di noi.

Speranza: o forza di cambiamento o inutile utopia

Speranza è una tra le parole più mal interpretate, abusate e strumentalizzate di sempre. Qualunque cosa sia – virtù, sentimento, atteggiamento mentale, forza interiore – credo che abbia un senso e un valore solo se la consideriamo una miscela di fiducia e volontà. Fiducia nella possibilità di cambiare davvero noi stessi e le cose; volontà di impegnarci per concorrere a realizzare tale cambiamento. In questo senso, ha ragione Camus a dire che, quando non c’è speranza, ci si deve inventare la speranza. 

La speranza, quindi, ha senso e valore solo qui e adesso. In questa vita, intendo. Non nella prossima, sempre ammesso che esista. Questo, per due ragioni. La prima è che questa è l’unica vita certa che ci è dato di vivere. La seconda è che, ammesso che esista una vita-dopo-la-vita, essendo essa creazione di Dio (che è amore) e non dell’uomo, per affrontarla, non avremo alcun bisogno della speranza.

Palliativo o placebo: strumento del male

Se la speranza non è miscela di fiducia e volontà, non serve. O è un palliativo – allevia i sintomi ma non cura la malattia – o un placebo: non cura ma illude sul fatto che ci stiamo curando. In entrambi i casi, più che inutile è dannosa, perché ci induce a non lottare per il cambiamento ma ad attendere la vita nell’aldilà per ottenere, finalmente, tutto ciò che, nell’aldiqua, consideriamo impossibile ottenere: giustizia, pace, libertà, diritti e una vita davvero degna di essere chiamata vita. 

Se ci arrendiamo e rinunciamo a lottare, il danno sarà doppio, catastrofico e irreparabile. Né le persone né le cose cambieranno mai, e la speranza, da strumento del Bene, diventerà strumento del Male. Tranquilli, però: non sarà stata colpa nostra. È il serpente che ci ha tentati.

“Quando la Patria chiama!…” tuonò il pingue e rubizzo podestà del piccolo borgo, al microfono della tribuna d’onore del campo sportivo. Davanti a lui, l’intero paese, riunito, come ogni sabato, per assistere alle manifestazioni di romana virilità dei suoi giovani, ardimentosi, figli.

“Speriamo che resti senza voce!”, urlò, dalla prima fila, uno dei più ardimentosi, prima che l’uomo potesse proseguire il suo stentoreo sermone.

Il ragazzo venne, ovviamente, fermato, identificato e portato via. Lo attendeva una punizione esemplare: sospeso da tutte le scuole del Regno.

Era il 1938 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ventitré anni più tardi, sarebbe diventato mio papà.

Ogni volta che certa retorica torna a lordare di sé la realtà – spezzando le reni alla verità, imbellettando tutto e tutti di un’epica posticcia e ridicola, e trasformando l’informazione in indecente propaganda – ripenso alla lucidità e al coraggio di quel ragazzino (che, cinque anni dopo, si sarebbe unito alla Resistenza) e mi dolgo di non essere mai stato alla sua altezza. A questo punto, è evidente che non lo sarò mai. Mea culpa.

Ho scritto centinaia di articoli e due romanzi per denudare e denunciare l’ipocrisia subdola, velenosa e profondamente antidemocratica dei “benpensanti”. Eppure, malgrado tutti i miei sforzi, nulla in quella montagna di pagine ha la forza e l’efficacia di quel “speriamo che resti senza voce!”, urlato da un ragazzino, durante una delle ore più buie, dolorose e nefaste della Storia italiana.

Le parole sono banconote: hanno un “valore nominale” e uno “reale”. Quando il secondo non corrisponde al primo – cosa che accade con raccapricciante frequenza – non sono che carta straccia.

Se dico “ti amo” ma, in realtà, voglio solo indurti a fare sesso con me, l’amore di cui parlo non esiste. Evocarlo, non è altro che un modo immondo per riuscire a estorcerti ciò che – senza mentire, blandire e frodare – non riuscirei mai a ottenere da te.

Insieme a Dio e famiglia, patria è tra le parole più inflazionate in assoluto. Non solo da noi, a dire la verità. Ma questo non consola affatto. Al contrario: deprime e fa infuriare ancora di più.

Il “valore nominale” è altissimo; il “valore reale”, bassissimo. Talmente basso che, spesso, rasenta lo zero. E, a volte – come sta accadendo in questi ultimi anni – precipita addirittura sotto zero.

La parola patria è stata, infatti, ridotta a specchietto per le allodole: un vetrino colorato che viene spacciato per diamante, con l’unico scopo di convincerci a sacrificarci per un simulacro, vuoto e inutile come un dente cariato. Un “vitello d’oro”, che dei gran sacerdoti senza fede e senza scrupoli ci spingono ad adorare, consapevoli del fatto che, solo in nome di parole come Dio, patria e famiglia, riusciranno a farci commettere ogni genere di bassezza e scelleratezza.

Non lasciamoci incantare, quindi, dall’apparente nobiltà di quella parola. Di mera apparenza si tratta, appunto. Di nobile, infatti, è rimasta solo la parola. “Flatus voci”: una breve emissione di fiato e un suono che durano un secondo e, un secondo dopo, si disperdono nel nulla, come fumo di sigaretta.

Chi si serve di quella parola, lo fa per un unico obiettivo: servirsi di noi. Ci chiama “figli” ma si guarda bene dal riconoscerci ruolo e dignità di figli. A meno che non ci sia qualcuno convinto che figlio significhi suddito o servo.

Eppure questo squallido giochetto psicologico fa breccia facilmente in quel che resta delle nostre teste e coscienze. Teste e coscienze lobotomizzate da decenni di tv spazzatura, di informazione compiacente – che, in molti casi, da controllore del potere, si è trasformata in scendiletto dei potenti (nel 2024, secondo il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, l’Italia si è posizionata al 46° posto nella classifica internazionale della libertà di stampa), dall’orgia di stupidità, ignoranza, follia e odio dei social media e da un consumismo senza controllo, che ci spinge a desiderare – come una droga – pagandolo profumatamente, l’inutile e a fuggire – come la peste – tutto ciò che potrebbe dare senso, valore e profondità alle nostre vite, persino quando è gratis.
“Panem et circenses”: ricetta millenaria ma, ahimè, sempre efficace.

E, così, quando ci chiamano figli (valore nominale altissimo, valore reale inesistente), ci sentiamo, istintivamente, obbligati a “onorare il padre” (patria deriva, appunto, dall’aggettivo latino patrius «paterno», «del padre»). E, dunque, a fare tutto ciò che gli astuti cantori del culto della patria ci chiedono. Nefandezze e follie incluse.

E noi onoriamo il padre senza chiederci chi egli sia davvero, dimenticando che il comandamento cristiano (dietro al quale i predicatori senza scrupoli del falso patriottismo nascondono le loro inconfessabili intenzioni) ha valore unicamente se rispettiamo, davvero e in toto, la Parola di Cristo.

Una Parola che, non solo ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (Mc. 12,29-31) ma, addirittura, di amare i nostri nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. 5,44).

Due richieste, queste ultime, che nessuno dei gran sacerdoti del falso culto della patria condivide, né ci chiederebbe mai di rispettare, per due ragioni evidenti persino ai ciechi: essi odiano ogni genere di prossimo: negri, ebrei, musulmani, migranti, stranieri, omosessuali, intersessuali, transessuali, transgender, queer, gender fluid, gender creative, non-binari, pansessuali, demisessuali, ma anche donne, giovani, vecchi e poveri; non fanno altro che creare nemici: interni o esterni, reali o presunti. Secondo costoro, infatti, non esiste patria senza un nemico. Nemico che non solo noi figli non dobbiamo azzardarci ad amare ma che ciascuno di noi deve imparare a odiare con tutto sé stesso.

Un figlio può benissimo decidere di amare comunque suo padre, pur sapendo che egli è un assassino, un violento (dentro e fuori la famiglia), un ladro, un bugiardo, un cialtrone, un ruffiano. Tale scelta, però, è una scelta individuale che impegna solo quel figlio.

Un cittadino, invece, non è affatto tenuto a onorare una patria “solo chiacchiere e distintivo”, che non lo ama, non lo rispetta, e non solo non fa assolutamente nulla per lui ma, spesso, lo vessa e lo danneggia pesantemente.

Il celebre chiasmo con il quale, il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy chiuse il suo discorso di insediamento – «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – rappresenta, senza dubbio, un’invenzione retorica di grande forza e fascino.

Dato, però, che Kennedy usa la parola “country” [paese] e non “nation” [nazione] o “homeland” [patria], il vincolo morale che egli richiama non è né basato sul diritto di nascita (nazione deriva dal verbo latino “nasci”: nascere) né di territorio. Si tratta, semmai, di un vincolo che potremmo definire sociale, nel senso che ci viene dalla parola latina socius: «socio», «unito», «partecipe», «alleato». Un legame paritario ed egualitario, dunque, fondato su riconoscimento, rispetto e solidarietà reciproci tra tutti coloro i quali – a qualunque titolo e da qualunque parte del mondo provengano – danno vita alla comunità di quanti vivono in un certo Paese.

Non un vincolo sbilanciato, nel quale il soggetto forte (la patria) può tutto e il soggetto debole (il cittadino) può nulla o quasi; il primo è titolare di tutti i diritti, il secondo, solo di doveri; il primo vive alle spalle del secondo per soddisfare i capricci del primo.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non farebbe gravare su di noi un debito pubblico stratosferico, giunto a un passo da quota 3mila miliardi (2.918mld): il 137% del nostro PIL, pari a 49.450 euro di debito per ogni “figlio”.
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un’evasione fiscale scandalosa: tra i 90 e i 100 miliardi di euro l’anno, secondo le stime interne. Stime internazionali, invece, la valutano tra i 100 e i 120 miliardi (Fondo Monetario Internazionale) se non, addirittura, 200-250 miliardi (EU Tax Observatory).
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe di accumulare, nel cosiddetto “magazzino della riscossione”, più di 1.200 miliardi di euro (più di 6 volte il PNNR) di tasse dovute e mai riscosse, il 90% delle quali lo Stato non vedrà mai.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non lascerebbe che il peso dell’Irpef si scaricasse, per oltre l’80%, sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe che i salari medi degli italiani fossero tra i più bassi d’Europa. Secondo Eurostat, i salari medi in Italia sono significativamente inferiori rispetto a quelli di molti altri paesi dell’Unione Europea. Il salario medio annuale in Italia si aggira intorno ai 31mila euro, contro una media dell’UE di circa 33.500 euro. In confronto, paesi come Lussemburgo e Danimarca registrano salari medi significativamente più alti, rispettivamente oltre 72mila euro e 63.300 euro. Anche in Francia e Germania i salari medi superano i 40mila euro annui, evidenziando una differenza di circa 14-15mila euro rispetto all’Italia.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe né la cultura androcentrica e ottusamente misogina alla base di un fenomeno drammatico e ingiustificabile come la violenza sulle donne. Secondo l’Istat quasi 7 milioni di donne (6,8mln) hanno subito, nel corso della loro vita, violenza fisica o sessuale: il 31,5% (quasi una su tre) delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni. La Relazione annuale del Ministero dell’Interno, inoltre, segnala che, nel 2022, si sono registrati oltre 15mila casi di stalking e violenza sessuale (in media, 41 al giorno; 1,7 ogni ora); secondo l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, infine, una delle forme più comuni di violenza contro le donne è la violenza domestica. Nel solo 2023, più di 23mila donne si sono rivolte ai centri antiviolenza. In media, 63 al giorno, 2,6 ogni ora.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe la follia dei femminicidi, più della metà dei quali attribuiti a partner o ex partner e circa il 20% ad altri parenti: 4 omicidi su 5 avvengono, quindi, nell’ambito familiare. Nel 2023, i femminicidi sono stati 120 (quasi 1 ogni 3 giorni); 80 nei primi otto mesi di quest’anno. Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe il fatto che le donne italiane guadagnino meno (4,2% secondo Eurostat; 5- 7% secondo Istat, 10,7% secondo ODM Consulting) dei loro colleghi uomini, in un Paese che – secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum – si posiziona al 79° posto su 146 paesi nella classifica generale della disparità di genere, che comprende partecipazione economica e opportunità, accesso all’istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 22-23%, né accetterebbe che il 14,9% dei giovani tra i 15 e i 29 anni rientri nei cosiddetti NEET (“Not in Education, Employment, or Training”): giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun tipo di corso di formazione. Un tasso, quello italiano, significativamente superiore alla media UE, che si attesta sull’11,2%.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Tutto questo, senza parlare della scandalosa situazione della giustizia nel nostro paese (spesso ridotta a questione di protezioni politiche & Co. o di disponibilità economiche dei singoli), del folle smantellamento della sanità pubblica (già oggi tra i 4,7 e i 7 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per problemi economici, liste d’attesa troppo lunghe, difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, eccessiva distanza dalle strutture mediche), della totale mancanza di attenzione, rispetto e risorse per scuola pubblica, università e ricerca scientifica.
Alla luce di tutto questo, la domanda che dobbiamo porci è: dove diavolo è il sedicente “padre” di tutti questi “figli”?

Ognuno di noi interroghi la propria coscienza.
Un fatto, però, emerge con indubitabile, dolorosa, chiarezza: fino a quando la patria non comincerà a parlare con voce di libertà, giustizia, eguaglianza, diritti e pari opportunità per tutti i suoi figli, attuando – nei fatti e non negli slogan elettorali – il mandato costituzionale (Art. 3) che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, non sarà davvero patria.

E ogni volta che ci chiamerà, più che il diritto, avremo il dovere di urlare: “speriamo che resti senza voce!”

Non so se esista un angolo di mondo la cui popolazione sia completamente autoctona e il suo sangue non si sia mai mischiato a quello di nessun’altra etnia. Ammesso e non concesso, però, che esista, una cosa è certa: non è l’Italia. Per fortuna, aggiungo, visti gli inquietanti rischi, mentali e fisici, connessi all’endogamia. Sessuale o culturale che sia, non fa molta differenza. Senza considerare che, se un posto del genere esistesse, sarebbe arido, deserto e triste, e destinato a una fine di solitudine e dolore.

Diversità è ricchezza
Ci piaccia o no, infatti, diversità è ricchezza. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Capirlo è facile. Non serve aver letto un milione di libri. Basta guardarsi intorno: ce lo insegna la Natura. Che mondo sarebbe il nostro con un solo fiore, un solo frutto, un solo pesce, un solo uccello, un solo essere umano, magari brutto, sporco e cattivo?

Non solo: che musica si potrebbe mai scrivere con un’unica nota? Quale poesia, romanzo, opera teatrale, sceneggiatura con un’unica parola? Quale tela si potrebbe dipingere con un unico colore? Quale danza o balletto, potrebbe nascere da un unico passo?

Noi italiani siamo fortunati, quindi – molto fortunati – a poter vantare (il verbo non è scelto a caso) di essere il frutto dell’incontro e della fusione di così tante grandi culture, visioni, lingue, voci, tradizioni, storie, fedi.

Identità parola plurale, dinamica, aperta
La Storia stessa del nostro Paese ci insegna che – come dicevano i latini – identità è, di fatto, un “pluralia tantum”: una parola che ha soltanto il plurale. Esistono, infatti, le identità ma non l’identità, per la semplice ragione che ogni identità – anche la meno articolata e complessa – è sempre la sintesi di più identità diverse.

Sintesi dinamica, tra l’altro, dal momento che nessuna identità è data una volta per tutte. Le identità non smettono mai di evolvere. Esattamente come quella di ciascuno di noi. È a tutti evidente, infatti, che ciò che siamo oggi è diverso sia da ciò che eravamo ieri che da ciò che saremo domani.

Le identità evolvono da sempre, dunque. Ed evolveranno per sempre. Per fortuna, aggiungo. Altrimenti, sul nostro pianeta vivrebbero 8 miliardi di “homo sapiens”. E i 200/300mila anni che ci separano dal nostro antenato più simile a noi sarebbero trascorsi inutilmente.

E, dato che è plurale e dinamica, identità è, inevitabilmente, una parola aperta. Apertissima, anzi, dal momento che è il frutto di centinaia di migliaia di anni di incontri, inclusioni, fusioni.

Inclusioni – attenzione – non esclusioni. Che non sono solo assurde e incomprensibili: sono, soprattutto, impraticabili. Oggi ancora più di ieri. Chiudersi in un’ottusa e ridicola pretesa autarchica, significherebbe, infatti, condannarsi all’estinzione, prima ancora che all’insignificanza politica, economica, sociale e culturale.

Migriamo da 2 milioni di anni…
Gli esseri umani non hanno cominciato a migrare agli inizi degli anni Novanta, per sbarcare a Lampedusa, conquistare lo stivale e imporci il loro Dio, occupare le nostre case, portarci via lavoro e donne e turbare i sonni di noi benestanti/benpensanti, “cattolici da pasticceria” (come li ha definiti il capo della cattolicità), come proclamano le voci – scriteriate, storicamente infondate e irrazionali – della galassia nazionalista, patriottica, sovranista, sciovinista, protezionista, anti-globalista, autarchica e identitaria.

Piccola parentesi: a proposito di Dio, vale la pena ricordare che Ebrei, Cristiani e Musulmani credono tutti nello stesso Dio. Inoltre, i cattolici antisemiti farebbero bene a non dimenticare che Gesù, insieme a tutta la sua famiglia e agli apostoli, era ebreo. Chiusa parentesi.

… per soddisfare bisogni primari
Gli esseri umani hanno cominciato a migrare circa 2 milioni di anni fa, quando l’Homo erectus ha lasciato l’Africa e ha iniziato a diffondersi in Asia e in Europa. Le sue migrazioni erano guidate da bisogni primari fondamentali: terra, acqua, cibo, focolari sicuri e accoglienti, protezione dai predatori (animali e no) e la necessità di assicurare una progenie in grado di garantire la sopravvivenza della specie.

Siamo tutti africani.
Sì, siamo tutti africani: facciamocene una ragione. I primi ominidi, infatti, sono apparsi nel cuore dell’Africa circa 7-6 milioni di anni fa. E, sempre in Africa, è emerso il genere Homo, il cui primo rappresentante – Homo habilis, considerato un progenitore dell’Homo erectus – è vissuto circa 2,8/2,4 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati principalmente in Africa orientale, in Tanzania e Kenya. Prove fossili e genetiche (analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y) indicano, infine, che tutte le popolazioni moderne discendono da un gruppo di umani – Homo sapiens – che si è evoluto in Africa circa 300mila anni fa.

L’orco Globalizzazione
Anche l’orco Globalizzazione, che tanto ci terrorizza, non è nato – come qualcuno vuole farci credere – dopo la caduta del Muro di Berlino. Chi lo sostiene ha gioco facile. Dopotutto, si tratta di indottrinare teste sempre più vuote e coscienze sempre più aride. Combinazione ideale per infestare l’opinione pubblica con i venefici frutti della malapianta della paura.

La globalizzazione è nata millenni fa. E non per il capriccio di qualche capotribù proto-buonista/comunista o paleo-turbo-capitalista. È nata per un bisogno vitale, ineludibile: la sopravvivenza. Un dettaglio tutt’altro che trascurabile, non vi pare? Rinunciare alla prima, dunque, significa, di fatto, rinunciare anche alla seconda.

Autarchia è follia.
Ecco perché, a terzo Millennio avviato, l’idea di chiudersi in una sorta di autarchia2.0 non è soltanto anacronistica e stupida: è letale. Oltre che oggettivamente impraticabile. E non da oggi: da sempre. Non lo dico io: lo dice la Storia. Quella vera, non una delle mille bufale revisioniste, messe in giro ad arte dal, sempre più nutrito, consorzio dei nostalgici delle più grandi follie del recente passato.
Nessuno, in nessun angolo del pianeta, può, infatti, illudersi di essere completamente e felicemente autosufficiente. Sarebbe una follia. Follia ancora più grande in un Paese come il nostro, che dipende così tanto dagli altri, per materie prime e beni indispensabili alla sua stessa sopravvivenza.

Dipendiamo dalle risorse degli altri…
A causa della limitata disponibilità di risorse naturali e dell’elevata domanda interna, infatti, ogni anno, noi italiani, spendiamo, a seconda delle fluttuazioni nei prezzi internazionali e delle quantità dei beni di cui abbiamo bisogno (tra questi: petrolio e derivati, gas naturale, macchinari industriali e apparecchiature tecnologiche, automobili e componenti per l’industria automobilistica, ferro, acciaio, rame e altre materie prime metallurgiche, prodotti chimici e farmaceutici, grano e cereali e persino frutta esotica e verdure fuori stagione) tra i 140 e i 217 miliardi di euro, rispettivamente il 7% e il 10,85% del PIL, una cifra che equivale al nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Scusate se è poco.

La domanda è: saremmo mai in grado di produrre tutti questi beni “in casa nostra”?

… e dalle braccia degli altri
Per non parlare del bisogno, ormai patologico, di manodopera straniera, soprattutto per tutti quei lavori che noi italiani non vogliamo più fare: raccolta di frutta e verdura, ad esempio (si stima che, ogni anno, l’agricoltura abbia bisogno di 300/350mila stagionali); manovali, muratori, carpentieri, posatori di pietre, addetti a scavi e demolizioni, montatori di ponteggi (si stima che il 30-40% della forza lavoro nell’edilizia sia costituita da immigrati); cura e assistenza degli anziani (sono circa 850mila le/i badanti, in larga maggioranza immigrati); pulizie domestiche e di edifici pubblici, alberghi, ristoranti; camerieri, lavapiatti, aiuto-cuochi; camionisti, trasportatori, rider…

Una dipendenza, questa dalla manodopera straniera, destinata a crescere, soprattutto per due motivi:

  1. le preoccupanti dinamiche demografiche: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (in media, circa 1,24 figli per donna: un valore ben al di sotto del livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – necessario per mantenere stabile la popolazione nel lungo termine) e una popolazione sempre più anziana: circa il 23% degli italiani hanno un’età pari o superiore ai 65 anni, cosa che ci colloca tra i paesi più anziani a livello globale;
  2. le esigenze del mercato del lavoro, per il quale – secondo alcune stime – l’Italia avrebbe bisogno di 200/300mila lavoratori immigrati all’anno, per coprire le carenze di manodopera in settori chiave come quelli ricordati sopra.

Domanda: supponendo di rimandare a casa tutti gli immigrati che, attualmente, lavorano da noi (per lo più sfruttati, senza diritti e senza tutele) e di chiudere le frontiere ai migranti, chi di noi sarebbe disposto a rinunciare al proprio lavoro e a dedicarsi, per il bene di tutti, a una vita di fatica, sfruttamento, povertà ed esclusione sociale?

Un popolo di migranti.
Non so se siamo mai stati davvero – come voleva la retorica fascista – un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”. Una cosa, però, è certa: siamo stati e siamo ancora un popolo di migranti. Si stima, infatti, che, tra metà Ottocento e metà Novecento, tra 25 e 30 milioni di italiani siano emigrati all’estero: uno dei più grandi flussi migratori della storia moderna.

Le principali ondate migratorie sono state tre:
1861-1915: tra 9 e 14 milioni di italiani (circa il 31%-48% della popolazione media di quel periodo) lasciarono il Paese, dirigendosi verso l’America Latina (in particolare Argentina e Brasile), gli Stati Uniti e l’Europa;
1916-1945: tra 6 e 10 milioni di italiani (circa il 14,8%-24,7% della popolazione media di quel periodo) emigrarono negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America;
1946-1960: tra 5 e 6 milioni di italiani (circa il 10,5%-12,6% della popolazione media di quel periodo) emigrarono verso l’Argentina, l’Australia, il Canada, il Venezuela e altri paesi europei.

Un pianeta di italiani.
Migranti produttivi. In tutti i sensi, visto che si calcola che, oggi, in giro per il mondo, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone di origine italiana. Un’Italia-figlia, persino più popolosa della sua madrepatria, che conta solo 59 milioni di figli.

Tra i 25 e i 30 milioni di questi nostri “cugini” e “nipoti” vivono in Brasile (10/15% della popolazione), tra i 20/25mln in Argentina (40%/50%), 17/18mln negli Stati Uniti (5/6%), 1/2 mln in Venezuela (3/7%), 1,5mln in Canada (4%), 1/1,5mlm in Francia (2/3%), 1,4 milioni Uruguay (40%), 1 mln in Australia (4%), 700mila in Germania (0,85%) e 500mila in Svizzera (6%).

Due domande:

  1. Se i suddetti Paesi adottassero politiche anti-stranieri/immigrati, e decidessero di liberarsi di tutta quella gente e rimandarla a casa sua, noi dove ce li metteremmo?
  2. Se tutti questi italiani di seconda/terza generazione decidessero – in base allo ius sanguinis, così caro ai nostri sovranisti/nazionalisti – di richiedere la cittadinanza italiana (la trasmissione della cittadinanza non ha un limite di generazioni) e trasferirsi da noi, come gestiremmo l’ingresso nel nostro Paese di milioni e milioni di migranti legali?

L’identità italica non esiste

Siamo sicuri che i tratti somatici di tutti questi italo-brasiliani/argentini/statunitensi/venezuelani/canadesi/francesi/uruguaiani/tedeschi/svizzeri rappresentino l’italianità?
Ma, soprattutto: cos’è questa fantomatica italianità?
Un fantasma, appunto, dal momento che non esiste alcuna “identità italica”. E non per chissà quale pregiudiziale ideologica, ma per la semplice ragione che la Storia ci dice che il nostro Paese è uno tra i melting pot più antichi e ricchi di “bio”-diversità di tutto il pianeta.

Sono davvero tanti, infatti, i popoli non italici che hanno contribuito a renderci quelli che siamo oggi. Impossibile non ricordare almeno i più importanti: Fenici (popolo semitico originario di una regione che corrisponde all’attuale Libano, con colonie che si estendevano in parte della Siria e lungo le coste del Mediterraneo), Greci, Celti (tribù indoeuropee emerse in una regione dell’Europa centrale che comprendeva le attuali Austria, Svizzera, Germania meridionale e Francia orientale), Goti (originari dell’attuale Svezia meridionale: si divisero in due rami: i Visigoti, che, dopo aver attraversato i Balcani, si stabilirono in Gallia [l’attuale Francia] e nella Penisola Iberica [Spagna e Portogallo] e gli Ostrogoti, che si stabilirono nelle regioni orientali dell’Europa, intorno al Mar Nero, in un’area che corrisponde all’attuale Ucraina, Moldavia e Romania, per poi migrare in Italia), Longobardi (originari dello Jutland, oggi parte della Danimarca, che migrarono attraverso la Germania settentrionale), Vandali (probabilmente originari anch’essi della Scandinavia o della penisola dello Jutland), Unni (provenienti dalle steppe dell’Asia centrale o dalla Mongolia), Normanni (Vichinghi originari di Norvegia, Danimarca e Svezia, che si stabilirono nella Normandia in Francia prima di espandersi in altre parti d’Europa), Arabi, Franchi, Spagnoli, Francesi e Austriaci.
Ci piaccia o no, dunque, nel nostro sangue c’è il sangue di tutte queste genti. Impossibile, quindi, parlare di italianità. A meno che non ci sia qualcuno in grado di stabilire quale percentuale di sangue “italianamente puro” (vale a dire non fenicio, greco, celtico, gotico, visigotico, ostrogotico, longobardo, vandalico, unno, normanno, arabo, franco, spagnolo, francese e austriaco) sia necessaria per potersi dire effettivamente italiani. Cinque per cento? Dieci? Quindici? Trenta? Cinquantuno per cento?
Non scherziamo, per favore. Possiamo anche continuare a ignorare – o fingere di ignorare tutto questo – ma al nostro patrimonio genetico non interessano le nostre credenze, convinzioni, elucubrazioni. Possiamo strillare quanto vogliamo, ma lui resta quello che è: il prodotto di millenni di incroci avvenuti in un Paese che, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, è stato, fin dall’antichità, un crocevia di grandi popoli, grandi culture, grandi commerci.

È scientificamente dimostrato, infatti, che il nostro DNA è un mosaico di influenze genetiche e culturali diverse e che noi italiani condividiamo marcatori genetici con popolazioni del Mediterraneo orientale, del Nord Africa, dell’Europa centrale e settentrionale, e del Medio Oriente. Le cose stanno così: accettarlo o no, non le cambia.

Lingua italiana?
Per tutto questo, neanche la lingua italiana è al 100% italiana. Il nostro alfabeto, ad esempio, ha origini fenicie (1200 a.C.), è stato poi modificato dai Greci (IX secolo a.C.), ha influenzato l’alfabeto degli Etruschi (che vivevano nell’Italia centrale, prima dell’ascesa di Roma) e, infine, è stato adottato dai Latini. Con l’espansione dell’Impero Romano, l’alfabeto latino si è diffuso in gran parte dell’Europa e in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente. Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’alfabeto latino è rimasto in uso grazie alla Chiesa cattolica, che lo utilizzava (e ancora lo utilizza) per la scrittura dei testi religiosi, e si è evoluto nelle lingue romanze, tra cui l’italiano.

Per non parlare del nostro lessico, che ospita più di 23mila parole di origine straniera. Parole di uso così comune e frequente, che non sappiamo nemmeno che provengono da greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco, arabo, russo, provenzale, giapponese, portoghese, turco, longobardo, ebraico, hindi, sanscrito, cinese e persiano. Cosa vogliamo fare? Bandire tutte queste parole dai nostri vocabolari e rinunciare a usarle, solo perché non presentano i caratteri dell’italianità?

Numeri italiani?
E cosa dovremmo fare, allora, dei numeri che utilizziamo, visto che provengono dall’antico sistema numerico indiano (primo/sesto secolo d.C.), successivamente adottato e perfezionato da studiosi arabi e persiani, i quali li diffusero nel mondo islamico e, attraverso di esso, in Europa?
Vogliamo rinunciare anche a loro?

Già che ci siamo, allora, perché non rinunciare anche ad aritmetica, algebra e geometria, visto che sono arrivate a noi dopo un processo di sviluppo millenario, che ha coinvolto civiltà decisamente non italiche come Sumeri, Babilonesi, Egizi, Greci, Arabi, Persiani e Indiani?

Città italiane?
E cosa vogliamo fare delle molte, importanti, città italiane fondate da popolazioni non italiane? Qualche esempio? Ancona, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Taranto (Greci), Cagliari e Palermo (Fenici), Milano e Torino (Celti), Trieste (Illiri). Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga di così. Potremmo sempre raderle al suolo, per farle ricostruire da veri italiani. Ma, oltre alla incommensurabile perdita di bellezza, arte, storia e cultura, e tralasciando questioni come tempi e costi, e il problema di dove ospitare gli oltre 5 milioni di persone che vivono in quelle città, la domanda è: siamo davvero sicuri che riusciremmo a trovare tutta la manodopera italiana di cui avremmo bisogno?

Nemmeno la cucina italiana è davvero italiana.

L’italianità non esiste nemmeno in cucina, visto che alcuni alimenti che consideriamo testimonial-simbolo della nostra cucina nel mondo non sono affatto italiani: pomodori e patate, ad esempio, originari, rispettivamente, del Messico/Perù e delle Ande; il riso, originario dell’Asia (Cina e India); il mais, anima della polenta, e il peperoncino, anch’essi originari delle Americhe; il basilico, originario dell’Asia tropicale (India, in particolare); la melanzana, originaria dell’Asia meridionale (probabilmente, India); lo zucchero, originario dell’Asia meridionale (India) e persino il caffè, originario dell’Etiopia, che si diffuse in Europa attraverso la penisola arabica e il mondo islamico.

Cosa vogliamo fare? Rinunciare a tutte queste meraviglie poiché non possono vantare natali italiani e alle mille prelibatezze che le nostre bisnonne, nonne e madri hanno creato, grazie ad esse? La nostra cucina, come la nostra identità, è uno straordinario mosaico di influenze ed è proprio questo che la rende unica e inimitabile.

Ha ragione Brandolini

Che dire? Ha ragione Brandolini: “La quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per produrla”. Infinitamente superiore, mi permetto di chiosare.

Lo dimostra il fatto che mi ci sono volute ben quattordici cartelle (e dubito fortemente che saranno sufficienti) per provare a spiegare i motivi principali per i quali l’identità – almeno così come concepita e propagandata dai tribuni della galassia identitaria – è un falso storico, una visione anacronistica e completamente impraticabile dell’esistenza. In una parola: una stronzata.
Il fatto che siano in molti – troppi – a darle credito, non significa affatto che essa lo meriti davvero. Non sempre, infatti, un grande successo è sinonimo di grande qualità. Anche Albano e Romina o Toto Cutugno – sia detto con rispetto – hanno venduto milioni di dischi. Questo, però, non li rende certo Elvis né i Beatles. E nemmeno ce li avvicina.
Spesso, il successo di un’idea non dipende dalla sua effettiva grandezza ma dalla piccolezza dei suoi estimatori. Per una formica, anche un bassotto è un gigante. E la Storia, purtroppo, è piena di folle che si sono lasciate sedurre da folli.

Nel solo Novecento, l’Europa ha vissuto sotto il giogo di ben 13 regimi totalitari, più o meno sanguinari, per complessivi 415 anni senza libertà, pace, diritti, democrazia. E, sebbene, i risultati disastrosi e tragici di quelle esperienze siano sotto gli occhi di tutti, certe parole d’ordine continuano ad affascinare legioni di stolti, ignari e creduloni.
Come si spiega? Onestamente, non lo so. E la Storia, ahimè, dimostra che non esiste una ricetta che consenta di liberarsi, una volta per tutte, delle menti tiranniche, oppressive, spietate e sanguinarie che hanno ridotto in cenere Europa, Asia Orientale e Sudorientale, Nord Africa e Pacifico, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quello che so è che, rispetto al “secolo breve”, la situazione, oggi, è ancora più critica, a causa di un nefasto allineamento di pianeti: genitori inesistenti, scuole e università che sono l’ombra di quelle della seconda metà del Novecento, più di quarant’anni di tv spazzatura, un’informazione, ormai, ridotta a propaganda e gossip di bassa lega e all’incontenibile strapotere di Internet e dei social media.

A proposito di questi ultimi aveva ragione da vendere Umberto Eco, quando osservava che hanno dato «diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». «Il dramma di Internet – aggiungeva Eco – è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
È vero: siamo in balia degli scemi del villaggio. Ed è un vero dramma. Anche perché il villaggio è ben felice di questo stato di cose, dal momento che si identifica – appunto – negli “scemi” e si sente confortato nella propria mediocrità. Mal comune…

Al pari degli indifferenti, odio gli “identici”, perché, uccidendo le differenze, uccidono la verità. E, con essa, la libertà. E, con la libertà, il senso e il valore stesso dell’esistere.
Chiudo parafrasando un sublime incipit tolstoiano: “Tutte le persone intelligenti, sono intelligenti a modo loro; tutti gli stupidi si somigliano”.
E quella tra gli stupidi non è solamente l’identità più diffusa ma è di gran lunga la più pericolosa che esista in Natura. Come ammoniva l’immenso Dietrich Bonhoeffer, infatti, «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza […]. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né
con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente».

Cerchiamo di non dimenticarlo.

“Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati.”

Suona frivolo e leggero, ma al suo interno questo aforisma di Oscar Wilde (e chi altri avrebbe potuto scriverlo..?) ha in sé un certo carico di profondità. Perché non c’è altro modo per essere vivi, se non essere autentici. Ma cosa significa davvero? La ricerca dell’identità è un viaggio antico quanto l’umanità stessa, e in effetti pensatori e filosofi di ogni epoca, fin dall’antichità si sono confrontati con il quesito: chi siamo davvero?
Ecco vorrei scrivere un articolo sull’identità e sulla maschera e per questo invocherò Socrate e Oscar Wilde.
Wilde, con il suo usuale sarcasmo, sosteneva che “La maschera che porti mostra più verità di quanto credi.” E se non pensiamo ad una maschera di cartone, questo pensiero si riflette sulla visione che sosteneva Socrate, che con il suo famoso motto “Conosci te stesso”, spingeva gli individui a guardare oltre le apparenze e a interrogarsi sulla propria natura. La maschera è parte del gioco dell’identità, mentre per Socrate la ricerca interiore, con il suo rigoroso processo, sosteneva che ve ne fosse una sola di identità per il proprio “Io”.

Le maschere che scegliamo di indossare fanno parte di chi siamo, o sono solo strumenti di sopravvivenza sociale?

Identità fluida e cambiamento: Eraclito e il mondo moderno
Eraclito, il filosofo del divenire, ci ricorda che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”: l’identità non è statica. Le nostre identità si evolvono con le esperienze, con ciò che consumiamo sui social media, con i cambiamenti di lavoro, di relazione, di ambiente.

La comicità dell’identità: ridere di se stessi
“Non sono felice di essere chi sono, ma sono anche troppo pigro per essere qualcun altro.” così George Carlin vede l’inerzia che abbiamo rispetto al nostro cambiamento: un processo faticoso che a volte cerchiamo di evitare per rifugiarci nelle nostre certezze, nelle abitudini, nelle cose, negli oggetti, negli spazi, nei tempi nei quali sentiamo il nostro essere, che lo definiscono. L’identità come “cosa” delimitata dai nostri limiti, come da confini.

L’identità digitale: il nuovo Sé
Su ogni social network, nel mondo di internet, sui siti, sulle app, la nostra identità online è spesso una versione filtrata (quando non proprio edulcorata) di noi stessi. Wilde, se fosse vissuto oggi, probabilmente avrebbe commentato qualcosa del tipo: “Non si può uscire di casa senza sé stessi e senza il sé per i propri follower.” come fosse un bastone da passeggio da dandy.

Forse la lezione finale la possiamo trarre da Wilde stesso: “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.”
E così è anche per l’identità.
Sta a noi trovare il giusto equilibrio tra profondità e leggerezza, tra maschera e autenticità, in un viaggio che, dopotutto, ha solo una destinazione.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.

Appuntamento domenica 22 settembre con la III Edizione della SARKRACE, corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per la ricerca e la cura del sarcoma.

Dopo lo straordinario successo delle precedenti edizioni, con centinaia e centinaia di partecipanti, tra pazienti, medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, torna a far tappa a Roma la SARKRACE, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione clinica.

L’evento, ideato ed organizzato da Sarknos (Associazione Pazienti Sarcomi dei Tessuti Molli),in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia).

L’appuntamento è per domenica 22 settembre 2024, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. 

Il percorso della SARKRACE 2024 sarà lungo la pista ciclo-pedonale che costeggia Via Àlvaro del Portillo, dal parcheggio del CESA fino alla fermata dell’autobus di fronte al centro sportivo “Sport City Roma”, e ritorno.

Ciascun partecipante riceverà un gadget a scelta tra maglietta, ventaglio, cappellino o magnete, secondo disponibilità e fino ad esaurimento scorte, ed una bottiglietta d’acqua con un panino.

Parteciperanno all’iniziativa la Prof.ssa Rossana Alloni (Direttore clinico Campus Bio-Medico), la Dott.ssa Antonella Venditti (Direttore sanitario Campus biomedico), il Prof. Bruno Vincenzi (Responsabile UOS Day Hospital oncologia Campus Bio – Medico) ed il Dott. Sergio Valeri (Responsabile Chirurgia dei sarcomi dei tessuti molli Campus Bio-Medico e Presidente dell’Associazione Sarknos).

Le iscrizioni sono aperte al costo di 20 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura dei sarcomi dei tessuti molli.

Per informazioni:

www.sarknos.it

amministrazione@sarknos.it

Per iscriversi: https://www.sarknos.it/iscrizione-sarkrace