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Sabato 20 gennaio, dalle ore 9:30, presso l’aula Magna del Trapezio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, l’Associazione Sarknos (Associazione Pazienti con Sarcoma dei Tessuti Molli) terrà il convegno dedicato ai pazienti affetti da sarcoma dei tessuti molli, dove i professionisti della salute mostreranno le nuove tecnologie sulla diagnosi, cura e riabilitazione di questa patologia.

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SarkNos nasce dall’iniziativa di un gruppo di pazienti e medici spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto, sostegno e unione per quanti sono affetti da questa rara forma di tumore e per i loro familiari.

L’evento, organizzato in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, si terrà sabato 20 gennaio, alle ore 9:30, presso l’aula magna del Trapezio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Numerose le personalità del mondo medico-scientifico, accademico e istituzionale che parteciperanno ai lavori della giornata, moderati dal Dott. Sergio Valeri, Referente dell’UOS di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico:

– Ing. Carlo Tosti, Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Prof. Bruno Vincenzi, Referente dell’UOS del Day Hospital Oncologico – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Dott. Carlo Greco, Radioterapia – Fondazione Policlinico UniversitarioCampus Bio-Medico;
– Dott.ssa Irene Aprile, Direttore di Dipartimento – Fondazione Don Carlo Gnocchi;
– Dott.ssa Livia Quintiliani, Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico;
– Dott.ssa Loredana Caracausi, Assistente sociale – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Avv. Stefano Radicioni – Vice Presidente Associazione Sarknos;
– Prof.ssa Rossana Alloni, Direttore UOC Chirurgia Generale Specialistica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.

All’interno del gruppo dei sarcomi dei tessuti molli si distinguono numerosi sottotipi di tumori, classificati in base alle caratteristiche delle loro cellule di partenza (“istotipo”). I singoli tipi di tu- more sono ancora più rari e in alcuni casi se ne conoscono solo poche decine di casi in tutto il mondo.

Il percorso di diagnosi e cura della persona affetta da sarcoma dei tessuti molli è spesso lungo, complesso e impegnativo sia dal punto di vista fisico che emotivo.

Molti pazienti prendono strade “sbagliate”, rivolgendosi a centri non specializzati e ricevendo trattamenti inappropriati, finendo per essere costretti a viaggiare lontano da casa e dagli affetti per poter raggiungere un centro di riferimento.

Il Dipartimento di Chirurgia Generale Specialistica del Policlinico Campus Bio-Medico ha contribuito alla nascita dell’Associazione Sarknos, il cui obiettivo è avvicinare le persone accomunate dall’aver affrontato le difficoltà nel fronteggiare una patologia rara come quella del sarcoma e che vogliano mettere il loro vissuto e la loro esperienza al servizio della comunità e degli altri pazienti. L’associazione organizza eventi di divulgazione e informazione aperti a tutti, stimola l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario, promuovendo la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. L’associa- zione, inoltre, intende sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio dell’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza e la cultura del centro di riferimento, contribuendo a centralizzare le persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli all’accesso al miglior trattamento possibile.

Il programma:

09:00 Registrazione dei partecipanti

09:30 “Saluti delle Istituzioni” (Ing. Carlo Tosti, Presidente della Fondazione Policlinico Universi- tario Campus Bio-Medico)

09:45 “Apertura dei lavori e introduzione all’incontro” (Dott. Sergio Valeri, Presidente Sarknos, Responsabile UOS Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

10:00 “L’innovazione nella chemioterapia dei sarcomi” (Prof. Bruno Vincenzi, Responsabile UOS Day Hospital Oncologico – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

10:15 “Le nuove tecniche di Radioterapia” (Dott. Carlo Greco, Radioterapia, Fondazione Policlini- co Universitario Campus Bio-Medico)

10:30 “La riabilitazione e il recupero funzionale dopo l’intervento: il contributo delle nuove tecno- logie e della robotica” (Dott.ssa Irene Aprile, Direttore di Dipartimento – Fondazione Don Carlo Gnocchi)

10:45 “Il corpo e le sue emozioni. I bisogni psicologici e sociali nel percorso di cura” (Dott.ssa Li- via Quintiliani, Responsabile Servizio di Psicologia Clinica e Dott.ssa Loredana Caracausi, Assi- stente sociale – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

11:00 Coffee break

11:30 “Testimonianza di un paziente”

11:45 “Discussione aperta con i pazienti”

12:30 “Il ruolo delle associazioni dei pazienti: assistenza, ricerca, rappresentanza”

(Avv. Stefano Radicioni – Vice Presidente Associazione Sarknos Pazienti Sarcomi dei Tessuti Molli)

12:40 “Conclusioni dei lavori” (Prof.ssa Rossana Alloni, Direttore UOC Chirurgia Generale Specialistica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

Nora Lux è un’artista romana che proviene da studi psicologici ma con una formazione multidisciplinare che prosegue all’Accademia delle arti e nuove tecnologie. Artista trans-mediale che spazia dalla fotografia, al video, alla performance, dalla poesia alla musica con forti richiami allo sciamanesimo e al femminino sacro, attraverso simbologie esoteriche che rimandano ad Ermete Trismegisto.

Vent’anni di ininterrotto lavoro nella natura, in cavità e nelle profondità della terra per narrare la storia del femminile nella nostra anima: il percorso artistico di Nora Lux inizia con opere in bianco nero in pellicola e prosegue con immagini di sé stessa come Dea Madre nelle vie sacre e negli ipogei degli etruschi. Il lavoro evolve successivamente in azioni performative che, nell’approccio dell’autrice, rappresentano il naturale sviluppo degli autoscatti.

L’originalità di queste “azioni” consiste nell’essere veri e propri rituali di sintonizzazione con le energie dei luoghi, riti che possiedono la funzione di immergere l’artista nell’inconscio collettivo e nel consentirle di conquistare e trasmettere al pubblico il frammento di una nuova conoscenza. Proprio nel corso di una di queste “azioni”, infatti, mentre assumeva la ieratica posizione della potente Dea Madre, l’artista ha trovato il riferimento Totemico: un corvo, simbolo dello stato iniziale dell’opus chiamato “Nigredo”.

Da questa dimensione di oscurità, Nora Lux ha integrato nuove figure di comunicazione spirituale tra la terra e il cielo, come il pavone (Albedo) e l’aquila (Rubedo), simboli di trasformazione presenti nel suo Vitriolum (2017-2019). Fotografia e performance si compenetrano poiché per l’artista non c’è confine tra l’agire e il momento fotografico. Ciò che porta in scena nelle performance è il risultato delle sue esplorazioni, l’autoscatto è un momento vissuto con e nella natura. L’elemento Terra e le grotte della civiltà etrusca, dove la donna era la più libera delle società antiche, sono i luoghi della metamorfosi, passaggi ctoni, simboli della profondità dell’inconscio.

La fotografia può fissare l’eterno, il suo proposito è più ambizioso, lasciare scorrere, permettere al tempo di passare, non fermarlo e dominarlo ma, creare con esso e su di esso, sfuggire alla vocazione naturale di specchiarsi nell’obiettivo fotografico per attingere ad un altro universo, quello degli Dei, e più specificatamente a quello della Grande Dea, influenzata dalle teorie di Marija Gimbutas, e dall’indagine di Erich Neumann sull’archetipo della Grande Madre e i Simboli della trasformazione di Carl Gustav Jung.

Nora, ci siamo conosciuti in una tua nuova iniziativa, SpeculumamoriS, di cui dopo parleremo. Mi ha da subito incuriosito la tua arte con i suoi forti richiami primordiali. Puoi raccontarci come è cominciato il tuo percorso?

E’ iniziato tutto all’età di 8 anni quando mio padre mi regalò una macchina fotografica.  In famiglia c’era uno zio intellettuale che mi portava spesso nei musei dove mi affascinavano le statuette che poi ricollegai alla Dea madre, come divinità femminile e primordiale. Questo è stato il primo germoglio, da cui è scaturito il Maestro Albero della mia arte ma, direi forse della mia vita. Le radici si sono formate all’Accademia delle arti e nuove tecnologie e l’albero è continuato a crescere, alimentandosi con l’interesse per le civiltà preistoriche e gli etruschi. In quest’ultimi, il principio femminile fu massimamente celebrato e coincise con il diffondersi dei culti misterici e delle civiltà matriarcali, che ho poi approfondito con gli studi dell’antropologa e archeologa Maria Gimbutas.

Ho iniziato il lavoro sul corpo in Accademia, fotografandomi in pellicola, l’uso della fotografia analogica, del bianco e nero con i suoi contrasti, mi proiettava in una dimensione intima e oscura,  vedevo me stessa in luoghi rarefatti, abbandonati, misteriosi.

Passavo giornate intere nei luoghi che sceglievo, spesso ci dormivo anche. Nel 2008, suggestionata dal Film di Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo, mi sono recata a Matera nel parco della Murgia, fotografandomi principalmente nelle Chiese Rupestri, e ho realizzato la mia prima immagine iconica di nudo in natura “Mater Lacrimosa”.

Da questo momento ogni mia foto è creata in ambienti esterni, la Natura, che non ho più lasciato, diventa la mia scenografia ed inizio ad ambientare la GRANDE DEA in Etruria (Toscana, Alto Lazio e Umbria). Prediligo ancora oggi le zone tufacee del triangolo magico tra Pitigliano-Sorana-Sovana, area di insediamenti etrusco-romani, all’interno di cavità, grotte e boschi, in 15 anni di lavoro negli stessi luoghi.

Oltre al rapporto con la Natura e con gli elementi primordiali, prevale la dimensione della trasformazione, sia del corpo sia del paesaggio, come si può vedere dall’evoluzione storica degli autoscatti. C’è una tensione tra la foto che vuole eternizzare ed il divenire del tempo che è anche ciclico. Anch’io seguo questa ciclicità come Persefone, che passava sei mesi dell’anno (autunno e inverno) nel regno dei morti e negli altri sei mesi (primavera ed estate) andava sulla Terra da sua madre Demetra, facendola rifiorire al suo passaggio.

Le feste solstiziali hanno infatti avuto nel tempo, la funzione di ricordare all’uomo che il continuo ripetersi della morte e della rinascita del Sole è per analogia l’avvicendarsi della morte e della rinascita della vita.

Anche per me il periodo primavera-estate è quello di massima espressione e produzione artistica mentre quello invernale è più dedicato al ritiro spirituale e allo studio.

A proposito di solstizi, sappiamo che il 21 dicembre prossimo, giorno del sol invictus, presenterai il progetto SIGILLUM alla Galleria Canova 22. Ce ne potresti parlare, illustrando le novità e come si inserisce nella tua composita produzione artistica?

Con la performance SIGILLUM il corpo è medium tra microcosmo e macrocosmo.

La Performance si inserisce all’interno del progetto Close Up promosso da Roma Capitale Assessorato alla cultura con “culture in movimento”, curato dal dipartimento Attività culturali in collaborazione con Siae, in una delle location più suggestive della capitale, la Galleria Canova 22, diretta da Fiorenza D’Alessandro e Franz Prati.

L’Azione è L’Hypostasis greca, la persona in quanto unica “icona divina”. Dialogherò con una mia opera, una fotografia che con la tecnica del mapping verrà proiettata sull’intera galleria.

L’immagine, un autoscatto realizzato nella grotta perciata, maggiore esempio di grotta a scorrimento lavico dell’isola di Ustica, descrive il flusso di magma vulcanico che cambia forma e temperatura come il corpo è fluido e solido. Il corpo scenico di carne e ossa in performance genera un nesso con il versetto della Genesi 2,23: “Questa è osso dalle mie ossa e carne della mia carne”. Creo attraverso il simbolo un corpo che diventa oggetto della vita psichica sigillata nell’essenza del femminile e del maschile insieme in correlazione con i recenti fatti di cronaca riguardanti i femminicidi e la guerra in Palestina. Gli elementi sono incarnazioni terrene dei principi cosmici, così il mio corpo costruisce all’interno dell’opera fotografica un’inclusione totale con gli elementi. Il corpo formato da calcio, fosforo, sodio, potassio, magnesio e ferro unito alla roccia lavica richiama lo stesso ferro presente nel sangue. Il nucleo di ferro fluido della Terra con l’eruzione si manifesta nelle rocce magmatiche con le quali il mio corpo si confronta.

Gli uomini sono il piccolo mondo, perché legati alla Natura del Mondo. L’universo è il grande mondo, il Macrocosmo. Nella performance SIGILLUM attraverso l’immagine, la geometria sacra, il suono, la voce e il CORPO, come specchio ed eco di ciò che è stato violato, unisco Terra e Aria, Fuoco e Acqua.

Potresti sintetizzare il senso della ricerca alla base della tua espressione artistica?

Come dicevo in precedenza, la mia ricerca nasce dalla fotografia che si “muove” parallelamente alla perfomance art, la quale negli ultimi anni è diventata un’espressione necessaria quanto le opere fotografiche che realizzo in Natura.

Il progetto UNUS MUNDUS (2020) mette in evidenza questa corrispondenza, dal quale emerge l’evoluzione della mia espressione, la fotografia e la performance, prioritari nel mio fare, dialogano sempre di più.

Sacralità e Ambiente, retaggi antichi e connessione con il mio corpo, linguaggio alchemico e geometrie sacre. La consapevolezza che ciò che è dentro di noi vive anche al di fuori, in un rapporto di integrazione e unione continua con la natura, il sole, la luna, le stelle.

C’è un senso altro che muove il mio operato ultimamente, qualcosa che si avvicina alla purezza del fuoco. Bruciando puoi distruggere, se non compensi e mitighi con altri elementi, oggi la sfida è proprio questa, vivificare per perfezionare, sottraendo.

Il fuoco è interno alle cose e esterno, è nel cuore della Terra e nei raggi del sole ed ogni cosa si trasforma, si muove e diviene come il fuoco.

Con riferimento al genius loci, ci puoi parlare del tuo progetto “site-specific” TEMPLUM iniziato nel periodo pandemico in Puglia, nel sito preistorico più grande di Europa? e della visione cosmica, in particolare quello su cui sta lavorando attualmente

In uno spazio dove sono raccolti e consacrati i segni, nasce la mia visione del progetto artistico TEMPLUM.

Il Templum è un concetto etrusco, la stessa Roma città in cui sono nata e fondata da Romolo, primo Re Etrusco, viene edificata con il tradizionale rito di fondazione delle città etrusche. Il Templum è una divisione spaziale e temporale praticata in una determinata area, per estensione il Templum diverrà il tempio che conosciamo oggi, cioè la costruzione che si edifica sul luogo precedentemente augurato e reso sacro.  Questo augurare un luogo significa anche dare una centralità ispirata dal luogo.  Percorro sempre la stessa modalità che utilizzo nel progetto TEMPLUM poiché è divenuto un metodo performativo. Ogni cosa procede secondo una geometria e attraverso le ombre che il sole proietta nel cerchio, costruisco una vesica piscis, immagine iconografica sacra, mediazione tra cerchio e quadrato, i cui assi individuano l’orientazione dei futuri cardo Nord-Sud: asse del mondo e decumanus Est-Ovest: traiettoria dell’eclittica. Gli assi del Tempio Sacro.

TEMPLUM inizia in Puglia, nel sito neolitico più grande d’Europa, dove svelo una delle modalità d’azione che attraverso questo progetto diviene chiaramente visibile a tutti. Interpreto un mondo arcaico. Il mio corpo ricettacolo di energie cosmiche divine soglia medianica tra mondo sacro e profano. Nella grande pianura del tavoliere delle puglie, all’interno dell’area neolitica ripercorro i segni di ocra rossi, corrispondenti alla costellazione di Cassiopea, iconografia presente sul busto della statuetta della Dea sciamana, simbolo di sangue e di vita.

 Se il tempo, dice Platone, “è l’immagine mobile dell’eterno e l’istante è l’eterno, dove futuro e passato non esistono”, nell’istante in cui l’augure contempla fissando il Templum diviene tutt’uno col Dio, entra nell’eterno, nell’essere, il quale poi lascia segni indiscutibili di verità e presagio”.

In TEMPLUM II risalgo le scale dell’unica Piramide etrusca presente in Italia, l’altare rupestre più grande d’Europa, con in mano una pietra rosso sangue, inverto il rito di scolatura del sangue, rianimando le vittime sacrificali. Dal sangue degli animali l’anima trasmigra nelle pietre che percorrono al contrario il destino infausto elevandosi in una propositiva e trasmutata nuova esistenza, non solo simbolica, ma incredibilmente reale. In questo mio gesto rinnovo e mi affido ad una metafora concreta, sui temi della vita sotterranea del mondo etrusco, proseguendo il percorso sulle tematiche della  Dea Madre. In TEMPLUM III, rappresento Cerere chiamata la Nera, Demetra per i greci e, Vei per gli etruschi. Il nero è il colore della fertilità, che spiegherà in seguito il proliferare In Europa delle Celebri Madonne Nere, che non a caso erano dotate di virtù curative. La Terra fertile di Cerere e la Lava vulcanica il cui principio è il fuoco si congiungono, ma il sale della Terra è L’anima, “Quell’acqua divina, aqua permanens che dissolve e coagula” la sostanza arcana che trasforma e al tempo stesso è trasformata, la natura che vince la natura.

In TEMPLUM il concetto di sacro è in continua evoluzione, in correlazione al rapporto che stabiliamo con gli elementi naturali e la rotazione dei corpi celesti. Realizzo, infatti, le azioni performative e le fotografie rispettando una divisione spaziale e temporale, seguendo concetti di assialità e orientamento. In questo senso sento di essere arrivata all’alba di un procedere nuovo in cui l’osservazione degli oggetti astronomici, dello spazio, e della natura è parte fondamentale del tutto, e nelle azioni performative è particolarmente evidente poiché si partecipa attivamente ad un modello cosmologico.

Ci potresti illustrare meglio i tuoi punti di riferimento artistici, alcuni di natura antropologica, psicologica e magari filosofici che sono alla base della tua ricerca ed espressione artistica?

Nell’Europa del Neolitico la società poneva la donna al centro della vita sociale e la Dea all’apice del Tempio degli Dei, poiché la donna porta e genera la vita e la divinità della Terra che dà nutrimento. Maria Gimbutas connette il rispetto sociale per il femminile al rispetto profondo religioso, la venerazione di Dee, dichiarando che le società matrilineari dell’Europa Antica rispettavano sia le donne mortali che le divinità femminili.

Molte di queste statuette sono acefale, puoi proiettare su di esse.

Mi viene in mente la testa della “Venere” di Willendorf una sfera granulosa e omogenea, come anche la “Venere” di Lespugue dalla forma ovale allungata, o le statuette di Grimaldi, il Bassorilievo di Laussel e molte altre.

Insieme alle statuette e ai bassorilievi le pitture preistoriche mi hanno sempre affascinata, segni disordinati che arrivano fino a noi con una composizione tangibile ai nostri occhi di un’epoca remota che appare vicina. In questo ho sempre intuito l’Arte, e anche per questo senso di appartenenza che proseguo il mio percorso artistico. Dopo molti millenni questi uomini e queste donne continuano a parlarmi mi assomigliano e tuttavia hanno trasformato loro stessi si sono fatti medium.

Nelle pitture preistoriche i pittogrammi annunciano immagini di animali e non di loro, l’annullamento della rappresentazione dell’uomo rispetto a quella dell’animale mi stupisce ancora portandomi dentro emozioni dal carattere sospeso.

Le tue performance e le tue opere fotografiche sono ricche di richiami ancestrali, esoterici, sciamanici che ci riportano a riflessioni intime ed universali allo stesso tempo.  Qual è la motivazione alla base ed il messaggio che intendi portare?

È innanzitutto una necessità che mi sospinge, un’urgenza, e per questo creo, trasformo, scompongo e ricompongo, non so se c’è un messaggio che intendo portare ma, spero di riuscire ad evocare la Grande Dea, attraverso gli scenari della civiltà etrusca, e della natura tutta, tramite le simbologie della tradizione alchemica occidentale, in maniera sia esoterica che essoterica.

Il culto della Dea Madre di cui parlo abbondantemente nella risposta precedente muove il mio operato da anni, e se pensiamo che questo culto dal neolitico si estende per tutto il paleolitico in un arco temporale che va dai 40.000 anni a.C. ai circa 3000 a.C. più o meno quando inizia la scrittura, è davvero un periodo vastissimo, nulla in confronto ai miei 20 anni di ricerca, nonostante la costanza.

Le statuette delle “Veneri” dalle quale riprendo le posizioni e il dialogo Sono figure di donne enigmatiche che stimolano la mia immaginazione interpretativa, statuette silenziose, così come le opere fotografiche, “aliene”, che lasciano nell’ombra ciò che invece la nostra società mette in risalto.

Probabilmente attraverso le tematiche che indago, metto in luce sia la società patriarcale che ci ha condotti ad ogni femminicidio ma, anche la responsabilità personale oltre le dinamiche sistemiche, strutturali.

Il corpo della donna è portatore delle generazioni future e tutte queste guerre e massacri disonorano la donna e la terra.  Noi siamo il nostro pianeta, uniti possiamo essere più recettivi e disponibili ad agire all’interno di noi.

Stando con i piedi a Terra mi affido al mondo invisibile. Attraverso le mie azioni performative esprimo attraverso il suono il tentativo di portare il pubblico in uno stato di frequenze alfa, per alcuni anche Theta, consapevole che per svuotarci dai condizionamenti culturali che sono l’ostacolo più grande alla nostra evoluzione, possiamo attraversare stati altri di coscienza e risvegliare la visione psichica assopita, per credere in quello che percepiamo.

La Tecnologia e la scienza non dà spazio al soprannaturale ma, gli ebrei tradizionalisti credono che Mosè parlasse con Dio, i mussulmani credono che Maometto ebbe incontri con l’arcangelo Gabriele, gli indù e i buddisti riconoscono entità, regni, intelligenze e stati di esistenza non fisici illimitati.

La nostra conoscenza del soprannaturale nasce da affermazioni di visionari religiosi in condizioni di estasi, profeti, sciamani. L’estasi sciamanica è alla radice di ogni cultura. Nei primi momenti dopo la sua fondazione, circa 2000 anni fa, il cristianesimo era una religione sciamanica. Cristo era uno sciamano non solo perché era umano e divino aveva il dono di guarire gli infermi. Quando pensiamo alla croce del Cristo in essa c’è la morte e la rinascita, è l’iniziazione dello sciamano tramite la morte, l’agonia e la resurrezione.

Ultimamente hai dato vita al progetto iniziatico SpeculumamoriS, a cui ho assistito alle prime due edizioni. Oltre che a un progetto artistico che ti consente di sperimentare per la prima volta il teatro e poterlo confrontare con la performance art che da vent’anni è il tuo mezzo artistico insieme alla fotografia, mi sembra di capire che sei mossa anche da una tua esigenza “spirituale” di metterti a disposizione di altri artisti, aiutandoli ad emergere. Un afflato ispirato dal testo “Lo specchio della anime semplici” della mistica medioevale Margherita Porete. Ci puoi parlare di questa esperienza e dei suoi riferimenti e di come si colloca la disciplina dell’Animazione della Spada che mi ha molto incuriosito e attirato?

Forse oggi le mie azioni hanno una pretesa che va oltre la ricerca artistica, c’è uno spazio nuovo, che mi sono concessa che avvicina me e gli altri alla conoscenza e alla realizzazione di Sé. La Lettura del testo “Lo specchio delle anime semplici“, della mistica del Duecento Margherita Porete, è un trattato allegorico tra Amore, Anima e Ragione, come se fossero tre personaggi. Amore e Anima sono Dio e Margherita che confliggono duramente con ragione. Il testo mira alla semplicità, intesa come unica realtà, non c’è alterità dell’essere. Leggerlo è stato come far vivere in me la non-dualità, un desiderio dell’Anima, l’amore e la conoscenza sono due ali. Questa visione mi ha condotto alla creazione di SpeculumamoriS sia per un sentire intimo ma anche per dare luce a questa mistica cristiana che fu bruciata sul rogo come eretica. Attraverso la via amoris contemplare vedere e amare in gioia. Lo spirituale non è né maschio né femmina il messaggio è aprirsi alla natura propria, che è coscienza. in questi appuntamenti mensili niente va raggiunto, ma svelato. Viene l’ora ed è questa.

La spada è una disciplina che ho imparato da Umberto Di Grazia, Maestro e Amico, Ricercatore e Sensitivo di fama internazionale, ideatore delle tecniche dell’Unione e del Risveglio® e, viene maneggiata in modo rituale sia negli esercizi meditativi che nei movimenti di combattimento, creando apposite figure geometriche nello spazio. In SpeculumamoriS, l’intervento con la spada è sempre presente per valenza del simbolo e connessione storica con la Porete, che anticipa le sorti di un’altra nota figlia di Francia, Giovanna D’Arco, anche lei bruciata al rogo, che guidata da Santa Caterina, ne impugnava una.

La spada, secondo le credenze e le civiltà, simboleggia diversi valori ma rappresenta anche la spina dorsale dell’essere umano, dalla testa al coccige, che è la punta della lama. I simboli come Umberto mi ripete spesso, comunicano più delle parole e risvegliano informazioni addormentate ed indipendenti dalla logica.

Portare questo simbolo, che rappresenta il potere che esercita la sua forza benefica se usata in purezza e nobiltà di intenti, per me significa trasmettere questo e molti altri messaggi a chi vorrà continuare il percorso SpeculumamoriS.

Nel ringraziarti per il tempo che ci hai concesso, c’è qualcosa che vorresti comunicare ai nostri lettori che riguarda la tua espressione artistica oltre che di vita, alle tue direttrici di sviluppo che sembrano inesauribili o, semplicemente, un messaggio da lasciarci?

C’è necessità di un’archeologia del rito per cogliere e ristabilire una verità collettiva attraverso i luoghi, come nei culti di fondazione e continuare a pensare e sentire. Gli algoritmi stanno ridefinendo la realtà. Le nostre informazioni danno luogo a un doppio digitale, un “gemello”, che diventa una nostra estensione. Prodotti e processi vengono ridisegnati dall’intelligenza artificiale: questo Doppelganger elettronico è lo specchio sul quale trasferiamo inconsapevolmente sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti che vengono catalogati in database. Attraverso di questi, coloro che immagazzinano i nostri dati studiano strategie di previsione delle nostre future azioni, dei possibili cambiamenti di direzione e persino gli imprevisti, cercando di tramutare ciò in avvenimenti prevedibili o addirittura prescrivibili. Non credo che questi processi ci aiuteranno a conoscerci meglio e ad avvicinarci maggiormente alla Madre Terra, poiché intaccano il libero arbitrio e violano il confine sacro dell’intimità umana. A questo punto mi chiedo se questi avatar alienati da noi e soggetti al controllo di invisibili padroni, potranno sviluppare addirittura una loroautonoma coscienza? Di fronte a quesiti così radicali e perturbanti sfide tanto poderose, possiamo attraverso l’unione e il risveglio della coscienza, iniziare veramente ad interessarci del nostro pianeta verde. Le specie vegetali e animali si spostano in modo imprevedibile da un ecosistema all’altro creando danni incalcolabili alla biodiversità di tutto il mondo.

Attraverso il mito in cui c’è il senso della nostra esperienza quotidiana, recupero le immagini visibili e invisibili, è come se nei giardini del sogno s’innescasse il potere di trasformare la materia in un elemento libero. Una forma simbolica del pensiero che per analogia organizza la riflessione sull’esistenza e l’esperienza umana mediante la narrazione di eventi passati, presenti e futuri.

*Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista

Quest’intervista nasce un pò per caso.

Una domenica davanti ad un prosecco mi ritrovo a chiacchierare con Elisa di cose normali come il lavoro, e immediatamente salta fuori una questione inaspettata: l’ansia da prestazione.

Non ci sarebbe nulla di insolito pensando ad un universo fatto di adulti, carriera, uffici, piuttosto che della vita privata, ma che invece è tristemente riferito ai bambini. Nasce rapidamente in me la necessità di approfondire la questione e di chiarire, innanzitutto a me stessa le dinamiche che portano
a questa condizione che ha tutta l’aria di essere una piccola silente sofferenza della nostra epoca e che porta passivamente con sé la promessa di creare una società fragile e intrisa di solitudine, una macchina con degli ingranaggi scollegati.
Elisa Alaimo ha 43 anni, anche se ha il viso fresco e raggiante di una ragazzina. Lavora nell’ambito dell’educazione dal 2006. Dopo la laurea in Filosofia, con una tesi in antropologia culturale sulla Comunità Eritrea di Milano e sulle sue dinamiche di integrazione nel contesto urbano contemporaneo, c’è l’incontro con i Minori nelle comunità di accoglienza e i ragazzi nei corsi di formazione professionale, dove svolge il ruolo di docente di sostegno. Al riguardo mi dice: “Attraverso la relazione educativa con i giovani allievi e il supporto di docenti illuminati sono riuscita ad avvicinarmi al significato di reale inclusione (in anni in cui non era ancora un concetto così tanto diffuso), superando così quello di integrazione.
L’esperienza tra i laboratori di elettronica ed elettrotecnica finisce circa dieci anni più tardi, quando arriva l’esigenza di fare un salto verso nuove conoscenze, apprendimenti e visioni. Ed è così che per i cinque anni successivi ricopre il ruolo di coordinatrice pedagogica ed educatrice per i più piccoli, per quella che è la “fascia 0-6”.

Cosa ti sei portata a casa di quegli anni?
Sono stati anni decisivi e fondamentali, di visioni nuove, aperte davvero alla centralità della persona, dei suoi bisogni, con i propri tempi e con i propri processi. Gli anni insieme ai bambini, vissuti all’altezza dei loro sguardi mi hanno ridato l’energia e la sicurezza per tornare nel mondo degli adolescenti, così tanto vicini, così tanto lontani, così sollecitanti.
Attualmente sei docente di sostegno specializzanda presso l’Università di Torino (TFA VIII° ciclo), come descriveresti questa esperienza?
A dir poco impegnativa! | nostri docenti definiscono noi studenti in vari modi: acrobati tra le nostre vite, ponti tra le istituzioni, ma la definizione che preferisco è “attivista dei diritti umani”, perché lavorare per un mondo più inclusivo e più giusto è davvero ciò che finalmente rende piena la mia vita, chiara e colma di significato.
Quando abbiamo chiacchierato quella domenica mi ha colpito molto il fatto che tu abbia fatto riferimento all’ansia da prestazione dei giovanissimi, ho sentito la stessa sensazione di quando fai degli esami approfonditi e il dottore ti conferma una diagnosi, che sospettavi ma che speravi in fondo di poter scongiurare: quell’impressione che la società in cui viviamo non goda proprio di ottima salute. Che cosa sta accadendo?
L’ansia da prestazione è assai diffusa tra le nostre classi, fin dai primi anni della scuola primaria. lo stessa, da docente, sono testimone quasi quotidianamente del disagio che i bambini provano di fronte ad un insuccesso, ad un voto non corrispondente alle aspettative, alla paura di deludere gli affetti più significativi. La paura più grande è quella di perdere valore dinnanzi ai propri genitori. Come se l’affetto e l’amore famigliare fosse commisurato al giudizio a seguito di una prova. Ciò non corrisponde alla realtà, eppure nel bambino si fa, spesso, strada questo pensiero. | fattori sono molteplici, da una società sempre più competitiva, al tempo passato in famiglia, che tra i vari impegni di genitori e figli è sempre meno.
Molte volte confrontandomi con i genitori e raccogliendo i racconti dei bambini mi sembra che mamma, papà e figli si conoscano (o riconoscano) davvero sempre meno, così il voto o il risultato di qualunque prova diventa il dato tangibile del “chi si è?”. La mia è sicuramente un’opinione ma ritengo abbastanza ‘verosimile che le famiglie facciano molta fatica a capire i reali bisogni dei propri figli, a comprendere i processi che sottendono all’agire dei loro bambini e quindi le loro personalità. Forse se si iniziasse a dare valore e significato ai processi più che ai risultati (e uso il noi perché, a mio avviso, anche noi docenti dovremmo ricordarcelo di più) potremmo vedere bambini più sereni, consapevoli e sicuri del fatto che loro valgono non per quello che fanno ma per quello che sono.”
Qual è la differenza nell’apparato scolastico ed educativo della generazione attuale rispetto alla nostra?
La scuola di oggi è una scuola che si mette sicuramente più in discussione rispetto ad un tempo. Ai docenti che si stanno specializzando si chiede di accettare, accogliere la trasformazione, di andare oltre all’ “abbiamo sempre fatto così”, di superare l’idea che certe teorie e pratiche non si toccano. Il lavoro educativo ci obbliga a rimanere nella complessità (di tempi complessi), la scuola di oggi inizia a riflettere sul fatto che ogni esperienza proposta ai ragazzi deve essere pensata, riflettuta. Uno stesso approccio non va bene per tutti, per sostenere un ragazzo nell’apprendimento è necessario riflettere sui suoi bisogni, riconoscerlo, accettarlo, accoglierlo incondizionatamente.”

…secondo G., sono vestita di stelle.
Per me è stata una rappresentazione significativa.
Ho lavorato con lei molto sulla sua difficoltà a disegnare le mani.

Genitori, scuola e società formano la comunità educante di ogni individuo fin dalla più tenera età, quanta responsabilità ha ciascuno di questi attori?
Sappiamo bene che con “comunità educante” si intendono tutte quelle istituzioni che concorrono alla crescita di un ragazzo e non solo, dalla famiglia alla scuola allo sport, fino ad arrivare al quartiere, ai servizi offerti dalla città etc… Con comunità educante si intende attualmente davvero un cerchio molto ampio. Ad esempio se so che un mio allievo, che sta manifestando disagio a scuola in svariati modi, va a prendere il caffè prima del suono della campanella in un determinato bar, io da docente devo essere consapevole che il mio allievo entra in classe con il bar. Per intenderci, gli incontri che ha avuto, i quotidiani sfogliati, i discorsi ascoltati possono essere indicatori del perché prova o manifesta disagio. E io, come docente, e quindi parte della comunità educante, così come il barista, posso attingere alla rete interna della comunità per capire la situazione e quindi intervenire sollecitando altri nodi della comunità.
Se questo senso di rete fosse più condiviso probabilmente anche le famiglie potrebbero sentirsi meno sole e quindi supportate in un percorso di crescita che coinvolge tutti collettivamente.

Pensi che la nostra generazione fosse più libera e dunque più serena?
Non so dire se la nostra generazione (anni 90-2000) fosse più libera delle nuove generazioni, sicuramente avevamo un sentimento della libertà diversa. Per me la libertà si manifestava nella Scelta.
La mia generazione poteva scegliere, sapeva cosa scegliere, si esponeva dichiarando cosa volesse. Talvolta gli obiettivi si raggiungevano con facilità, altre volte lottando (con la famiglia, la scuola, con le aspettative della società), altre volte lasciando perdere o cambiando strada. Con o senza compromessi.
Ora mi chiedo se le nuove generazioni si sentono libere di sognare. Mi domando se esistono ancora i desideri

Questo mondo ci vuole altamente performanti, forse ancora prima di riuscire a maturare la nostra identità ed espressività, e non curandosi del nostro bagaglio emotivo, o banalmente dei tempi filologici individuali. e per questo che si parla sempre di più di burnout? È vero che questa condizione vede vittime sempre più giovani? Come fare per invertire questa tendenza?
Il burnout è una malattia e come tale deve essere trattata. Il burnout si manifesta quando il nostro mondo intimo, quello dei sogni, delle ambizioni, dei modi in cui la nostra personalità si presenta al mondo brucia letteralmente. E brucia davvero. Ciò riguarda tutti, dai ragazzi che non si sentono riconosciuti nel loro valore, ai giovani adulti che sperimentano la frattura tra ciò che sono e l’ambiente che li circonda, spesso vittime di rapporti con datori di lavoro, manipolatori e perché no? Anche sadici. Ma ci sono anche lavoratori in prepensionamento che trascinano la loro giornata lavorativa al termine, senza esserci realmente (spesso generando una catena di malcontento e disagio tra colleghi, che potrebbero al loro volta sperimentare quel vuoto che genera il burnout stesso). lo non ritengo che il burnout sia legato direttamente al livello di performance o alle richieste esterne, credo che nasca da un profondo disagio esistenziale, che richiede un cambiamento, uno svoltare di cui spesso si ha paura o non si ritiene di averne le forze. Eppure quante storie conosciamo di lavoratori sofferenti che per scelta o necessità hanno cambiato contesto e si sono ripresi in mano la loro vita? E’ necessario monitorare i luoghi di lavoro (o di studio) con criteri adeguati e precisi, che mostrano chiaramente quali sono gli indicatori per un ambiente sano e favorevole al benessere.

Il mio gattone secondo F., lei non lo ha mai visto. Ma ha ascoltato una sua storia e lo ha disegnato così

In diversi studi si fanno analogie sul comportamento tra la generazione degli adulti di oggi e quelle che l’hanno preceduta, affermando che ci si trova in un adolescenza estesa fino alla soglia dei 40, cosa implica questo atteggiamento, lo possiamo collegare al nostro discorso?
Sì, ritengo che ci sia una correlazione tra i ragazzi adolescenti e gli adulti ritenuti (o che si ritengono) adolescenti a 40 anni ed è molto semplice, i quarantenni adolescenti sono tali perché non sono riusciti a superare le grandi paure dei ragazzi, cioè quelle di non essere amati, non accettati per quelli che sono, di essere lasciati soli.
Per concludere, non posso esimermi dal domandarti cosa ne pensi del metodo Montessori.
Il metodo Montessori ha dato la libertà ai bambini di scegliere e di conseguenza attraverso la scelta di manifestarsi nella loro personalità. L’ambiente, ordinato, preciso, leggibile della Casa dei Bambini porta il fanciullo a scegliere con serenità lo spazio con le proposte più adeguate al suo sentire. Con il metodo viene messo l’accento sulla centralità del bambino, che sperimenta sempre di più diventando via via più consapevole ed autonomo. Sono innumerevoli le possibilità che offre il metodo, ma ho voluto focalizzarmi sulla libertà di scelta perché, come già detto, la ritengo una facoltà che stiamo perdendo.
Anche il metodo Montessori ha il suo limite, che sta proprio nel concetto di metodo. Il metodo non deve essere considerato una “lista della spesa” o come consigli per gli acquisti da applicare in ogni occasione, ma va pensato, valutato, ripensato nella complessità.

C’è un bel film di Pedro Almodóvar, Volver (Tornare) dell’ormai lontano 2006, la cui trama si svolge in chiave retrospettiva.

In un dialogo fra madre e figlia, il pubblico conosce il retroscena.

E’ anche un ritorno al primo cinema di Almodóvar, che guarda al passato come un pannello di un grande affresco. Penélope Cruz, una delle protagoniste femminili che hanno fregiato il film al Festival di Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile (il film è stato premiato anche che per la migliore sceneggiatura), canta un bel brano del mito del tango Carlos Gardel, Volver (Ritornare), un brano composto nel 1935 insieme al compositore Alfredo Le Pera, entrambi morti giovanissimi nel tragico incidente aereo all’aeroporto di Medellín. Il famoso ritornello recita così:

Ritornare con la fronte ap­pas­sita

le nevi del tempo che ar­gen­ta­rono la mia tem­pia

Sentire che è un at­timo la vita

che vent’anni non sono niente

che feb­brile lo sguardo, er­rante nelle om­bre,

ti cerca e ti no­mina

Anche noi, con le tempie forse un po’ più argentate, torniamo con questa nuova iniziativa che si ricompone come il pannello di un affresco, con la precedente avventura di Condivisione democratica, durata oltre dieci anni, con cui si pone in continuità ma con tanti punti di novità.

Condi-Visioni, vuole essere uno spazio plurale di riflessione per chi si riconosce in un pensiero profondo contro le semplificazioni ed il flusso indistinto e rumoroso delle opinioni banalizzanti, schiacciate mediaticamente sul pensiero dominante o sull’inautenticità del “si dice”. L‘obiettivo è quello di una maggiore partecipazione e coinvolgimento, anche attraverso alcuni canali social e, non ultimo, l’ambizioso progetto di una web TV. Vogliamo usare internet come strumento innovativo ma, allo stesso tempo, esserne anche una sua filosofia critica, riconoscendone opportunità e limiti, cercando di superare quest’ultimi guardando kantianamente sempre all’uomo come un fine e mai come un mezzo, mettendo al centro il rapporto e la comprensione umana con un uso consapevole delle parole e un’analisi meditata dei fatti.

Uno dei problemi del sistema mediatico nel suo insieme, accentuato anche da un uso improprio dei social che, non invitano alla riflessione ma alla semplificazione per slogan, è proprio l’eccessiva polarizzazione. Lo stiamo vedendo con le drammatiche vicende degli ultimi tempi: i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese che ci riportano drammaticamente all’attualità.

Questo, non significa andarsi a schierare su posizioni bianco e nero ma, cercare di riflettere sulla complessità delle situazioni, sulla loro storicità e, con le dinamiche globali, guardando anche alle responsabilità delle varie istituzioni internazionali. Molti conflitti apparentemente regionali s’innestano, inoltre, in scenari di evoluzione geopolitica, alla ricerca di nuovi equilibri nel riassetto dell’ordine mondiale. La guerra, con le inumane atrocità a cui stiamo assistendo e lo spettro della catastrofe nucleare, è un infelice “ritorno” che pensavamo scongiurato, e che si ripresenta problematicamente nella sua drammaticità.

Anche il tema dell’immigrazione è un “ritorno”, se pensiamo alle lontane immagini dell’agosto del 1991 della nave Vlora al porto di Bari con migliaia di Albanesi che cercavano rifugio in Italia dopo la caduta dei regimi comunisti. Nell’immaginario collettivo quello che ci ha aperto gli occhi su questo problema epocale. Ad oltre 30 anni da quell’evento, stiamo discutendo ancora di come gestire queste situazioni e, per ironia della sorte, vorremmo usare noi, oggi l’Albania come centro di destinazione degli immigrati.

Ultimo, ma non meno importante, il grande problema dei cambiamenti climatici che ci sta molto a cuore, come futuro dell’umanità e nostro tema prioritario. Per rimanere in tema, c’è chi afferma che si tratta di un “eterno ritorno” con il succedersi di ere di glaciazioni e riscaldamenti.

Le controversie scientifiche tra i negazionisti e coloro che sostengono i cambiamenti climatici sono oggetto anche di dibattiti politici con le varie implicazioni a livello geo-politico. I paesi in via di sviluppo non vogliono infatti affrontare i costi della sostenibilità che avrebbero impatto sui loro modelli di sviluppo economico, visto che ritengono di essere in una fase storica che i paesi più avanzati hanno già passato, avvantaggiandosene. Questo è evidente anche nella sofferta Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di questi giorni, sulla risoluzione per la de-carbonizzazione, dove viene spacciata come una vittoria la presenza nel testo dei “combustibili fossili” (carbone, petrolio e gas). Intanto, i principali produttori di quest’ultimi, si oppongono agli intenti di una loro completa eliminazione (phase-out) entro il 2050. Si parla infatti di allontanamento (transitioning away) ma, effettivamente, già il riconoscimento da parte di quasi 200 Paesi che i combustibili fossili sono la causa dell’aumento della temperatura del pianeta e che occorra prendere delle misure, è di una certa portata storica.

C’è poi il tema di chi debba pagare questa transizione, se chi produce più CO2 oggi o chi l’abbia prodotta già dal passato, con la prima industrializzazione. Annosa e controversa questione che vede sostanzialmente contrapposti, il blocco del BRICS con quello “occidentale”.

L’eccessiva antropizzazione con attività che gravano in modo irreversibile sulla vita del pianeta, rendono urgenti, al di là di riconoscimenti e intenti, azioni concrete e provvedimenti non più procrastinabili perché i problemi, al di là di tutto, sono di tale natura e portata che richiedono un contenimento dell’Uomo sul Pianeta per non perdere forse l’ultima opportunità di incidere sulla crisi climatica e sulle risorse della Terra.  

Partendo dal tema del Ritorno, passando con leggerezza dal film di Almodóvar alle crisi umanitarie, climatiche e alle guerre, senza voler essere catastrofisti, ci e vi domandiamo, siamo forse arrivati a un punto di Non Ritorno?

Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio.
Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.

(Foto di Carlo Bavagnoli alla mostra fotografica “Costantino Nivola. Ritorno a Itaca”. )

Il Ritorno a Casa

Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo.
Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.

Il Ritorno alla Routine

Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa.
Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti.
Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.

Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato.
E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.

Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.

Come informatico call conference e meeting on-line sono da anni nel mio piano di lavoro quotidiano. Ci si incontrava con i colleghi che – in particolare nel fine settimana – tornavano verso città natale a trovare i genitori, ma continuavano a lavorare e, insieme, si valutavano gli avanzamenti, ci si incontrava con i fornitori, spesso, soprattutto se si trattava di aziende “dislocate” fuori dal territorio romano o, in genere, italiano. Con i Clienti questo approccio avveniva più di rado, perché “una stretta di mano” ha sempre una sua importanza e perché a volte “a quattr’occhi” ci si capisce meglio.


Poi con il 2020 tutto è cambiato.
Anche gli aperitivi tra amici sono diventati virtuali, le visite ai genitori e ai parenti sono state sostituite da video chiamate. Mancava il calore di un abbraccio, ma è vero anche che ha permesso di aumentare il numero delle “visite” e alle parole per telefono si è aggiunto anche il viso in “primo piano”. Anche le persone più in la con gli anni, si sono adattate e hanno trovato il modo di addentrarsi nel mondo virtuale. Quanti nonni impacciati, consigliati dai nipoti, nativi digitali.

(Immagine Creative Commons)

E cos’è accaduto al mondo del lavoro?

Microsoft ha recentemente condiviso alcuni numeri estratti dall’uso della piattaforma di videoconferenze e attività di lavoro Teams. Tra il 2021 e il 2022 le riunioni sono complessivamente aumentate di numero, ma sono diventate più brevi e occasionali, perché cambiata la finalità. Le riunioni rapide e senza ricorrenze sono diventate il 64% del totale. Riunioni da meno di 15 minuti sono diventate più del 60 per cento delle riunioni programmate sulla piattaforma, mentre quelle della durata di un’ora o più, sono diminuite di molto.

Sulla base dei numeri forniti da Microsoft si può vedere che le riunioni costituiscono praticamente un giorno alla settimana (7,5 ore di riunione sui 5 giorni lavorativi settimanali).

Il Wall Street Journal riassume il tutto in «Le riunioni possono essere le sabbie mobili della giornata di lavoro» in questo articolo uscito qualche giorno fa. E citando un sondaggio condotto su oltre 2.000 dipendenti riporta che dopo 15 minuti si perde l’attenzione e le riunioni che durano oltre l’ora (quelle dedicate allo Stato di Avanzamento dei Lavori) risultano essere meno produttive di quelle sotto questa soglia.

Fatta questa premessa, arrivo all’attualità.
Il ritorno in ufficio.
E sì perchè se Settembre è, in genere, il mese del ritorno in ufficio dopo la pausa estiva, dopo l’abbronzatura sulle spiagge o dopo le lunghe passeggiate in montagna, il Settembre di quest’anno è stato il mese del rientro in ufficio, in presenza. Si sono infatti ridotte drasticamente le ore di “Smart Work“, relegate ad essere al più 8 giorni al mese o proprio zero. Andare in ufficio è tornato ad essere normale. So che in molti se ne sono accorti dal traffico che si trova sulle strade di scorrimento, specificherei sul Raccordo e sulle “consolari” per chi come me vive nella capitale, dove gli incolonnamenti hanno raggiunto vette che non ricordo di aver vissuto prima.
Il piacere di rivedere i colleghi, di avere insieme una pausa caffè al bar o anche più modestamente alla “macchinetta”, ha preso lo spazio temporale che prima era dedicato alla cura del proprio animale domestico o alla lezione di yoga seguendo un corso on-line o anche solo a prendere le cose con più lentezza.

Vediamo le differenze sul nostro quotidiano: spendiamo più tempo nel traffico, ma penso si possa dire che le riunioni in presenza siano più produttive, anche se il numero dei “task” eseguite, il numero delle pratiche lavorate, è sostanzialmente aumentato di pochissimo. Sarebbe interessante chiedere a qualche specialista, uno psicologo o un sociologo, quali siano le realtà che si vedono con delle lenti più focalizzate a cogliere queste differenze.

Ma c’è chi non crede e non ha mai creduto al lavoro fuori delle mura dell’ufficio: Elon Musk. Il miliardario statunitense è stato sempre contrario all’uso dello SmartWork anche in piena autonomia. In quel momento ricordava che “As a basis for comparison, the risk of death from C19 is vastly less than the risk of death from driving your car home” – che posso tradurre come “Come base di confronto, il rischio di morte per Covid19 è molto meno che il rischio di morire guidando verso casa“.
Si potrebbe obiettare che in effetti aumentare il traffico veicolare, aumenta il rischio di incidenti mortali, ma sorvoliamo.

Dall’account Twitter di “Internal Tech Email

Questa frase la scrisse a Marzo del 2020 – mentre in Italia entravamo in Lockdown e ci riunchiudevamo in casa – mentre dopo due anni aggiunse che «Chiunque voglia fare smart working deve comunque essere in ufficio per almeno (sottolineo almeno) 40 ore la settimana, altrimenti lasci Tesla»
Evidentemente convinto che il detto italiano “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo” aggiunse anche che «È il motivo per cui passo così tanto tempo in azienda […], se non l’avessi fatto SpaceX sarebbe andata in bancarotta già molto tempo fa», esortando così i suoi dirigenti: «Più è alto il vostro livello nell’azienda, e più la vostra presenza dovrà essere visibile»

Ma lavorare in mobilità, fuori dall’ufficio non è mai stato chiamato “comfortable work” – lavoro comodo – ma “smart work” – lavoro intelligente – perché cerca di coniugare il più possibile la produttività con la gestione del tempo non solo speso all’interno del posto di lavoro, ma anche al suo esterno. Ogni ora che non si perde nel traffico può essere impiegata per la cura dei propri cari, ad esempio. Secondo alcune stime si può parlare di 190 ore all’anno che si trascorrono all’interno dell’auto, nel traffico (questo a Roma, una delle medie più alte in Europa).

Da tutto questo direi che per trasformare lo “Smart Work” in un “Wise Work“, per renderlo saggio e non solo furbo, intelligente. Dobbiamo coniugare queste varie variabili: non impiegare tempo in riunione poco produttive e che – in fondo – ci fanno sbadigliare (e a videocamera spenta e microfono spento sono sicuro qualcosa l’abbiamo fatto tutti), cercare di coniugare al meglio il tempo personale con quello per il lavoro. Cercando di rimanere imbottigliati nel traffico il meno possibile.

Che siano buoni propositi per questo nuovo inizio.

Si racconta una storia molto carina su questa nave, su la nave più bella del mondo.

Era un giorno del luglio 1962. Mare aperto, nel Mediterraneo orientale, uno dei ragazzi sulla portaerei statunitense “USS Independence”, usa il lampeggiante e in codice morse – strumento desueto con un linguaggio desueto, per mandare una segnalazione alla nave che segue più o meno la stessa rotta a distanza. Di solito queste segnalazioni avvengono via radio e di solito vi è una dichiarazione sul “diritto di precedenza” sull’incrociare la rotta. Invece in quel giorno di Luglio del 1962, parte il messaggio: «Chi siete?». La risposta dall’altra nave: «Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana».
«Siete la più bella nave del mondo».

Ecco, la nave più bella del mondo è la Amerigo Vespucci.

Il motto di una nave è scritto in una targa che è accanto al timone, una frase che poi viene ripetuta negli “Hip Hip Hurrà” e nei saluti tra i cadetti. Quando fu varata – il 22 febbraio 1931, quasi 100 anni fa – la nave era accompagnata dal motto “Per la Patria e per il Re”, che fu cambiato, dopo la trasformazione dell’Italia in Repubblica, in “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”.
Il primo Luglio di quest’anno la nave è tornata in mare aperto per fare il giro del mondo.
E un pò un viaggio intorno al mondo, me lo immagino un pò così, con la ciurma sempre concentrata nonostante le intemperie e le avversità.
Ma in realtà dal 1978, il motto della nave è diventato “Non chi comincia ma quel che persevera”.

Sintetica poesia di come si possano affrontare le difficoltà, di come si può prestare il viso a quei venti e quegli eventi, saldi, nella perseveranza del raggiungere il proprio risultato.

Ora, mentre scrivo, l’Amerigo Vespucci si trova a Pier Mauá, il porto porto di Rio de Janeiro, quasi pronta a partire alla volta di Buenos Aires. Verso quella terra e verso quei cittadini italiani che a Roma hanno regalato un faro – posto sul promontorio del Gianicolo – per dare la luce a tutti gli italiani.

Mi fa piacere seguire il percorso in questo viaggio che durerà più di un anno e mezzo – 20 mesi per la precisione.

Certamente Condi-Visioni non è propriamente il primo magazine ad occuparsi del concetto del “ritorno”. Tantissime persone prima di noi, tantissimi giornalisti prima di noi, tantissimi artisti prima di noi hanno affrontato questo tema, condividendo con gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori le sensazioni e le riflessioni.
Da cinefilo, faccio un elenco di 10 film che hanno dato una loro chiave di lettura.

Forrest Gump” (1994) – Tutta la storia della vita di Forrest Gump ha inizio dal suo ritorno a Greenbow, sua città natale in Alabama, e mentre riflette sulla sua vita passata, nel suo modo candido, racconta la sua storia.

(Forrest Gump – 1994)

Il Padrino – Parte II” (1974) – Il sequel de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola esplora il ritorno alle origini di Michael Corleone nella città di Corleone in Sicilia. Questo ritorno è una parte cruciale della trama e offre una prospettiva sul suo passato e sul suo futuro.

Into the Wild” (2007) – Il concetto del ritorno alla natura e alla semplicità è centrale nella trama. Basato su una storia vera, il film segue la vita di Christopher McCandless, un giovane che decide di abbandonare la sua vita precedente e intraprendere un viaggio attraverso l’America.

Big Fish – Le storie di una vita incredibile” (2003) – Una commedia drammatica di Tim Burton. Si seguono le vicende William Bloom mentre torna nella sua città natale per stare al fianco di suo padre morente. Il film esplora le dinamiche familiari e il concetto di ritorno.

Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) – Questo film diretto da Barry Levinson segue il personaggio di Tom Cruise, Charlie Babbitt, mentre intraprende un viaggio per riconnettersi con suo fratello autistico, Raymond, interpretato da Dustin Hoffman. Il ritorno di Charlie nel mondo di suo fratello porta a una profonda trasformazione nella sua vita.

Into the Woods” (2014) – Questo adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim mescola le storie di diversi personaggi delle fiabe che intraprendono un viaggio per ottenere i loro desideri, ma alla fine devono affrontare le conseguenze dei loro atti mentre tornano alle loro vite quotidiane.

La Ricerca della Felicità” (2006) – Basato su una storia vera, questo film segue il viaggio di Chris Gardner, interpretato da Will Smith, un uomo senza casa che cerca di costruire una vita migliore per sé e suo figlio. Il suo ritorno alla stabilità finanziaria è un tema centrale nella trama.

Il Ritorno di Mary Poppins” (2018) – Questo sequel del classico Disney “Mary Poppins” vede il ritorno della tata magica, interpretata da Emily Blunt, alla famiglia Banks. Il film esplora come il ritorno di Mary Poppins influisce sulla vita dei protagonisti.

Un Giorno di Pioggia a New York” (2019) – In questo film scritto e diretto da Woody Allen, un giovane coppia interpretata da Timothée Chalamet e Elle Fanning torna a New York City per un fine settimana e si imbatte in avventure inaspettate mentre riflettono sulle loro vite.

Ritorno al Futuro” (1985) – Come potrebbe mancare questo film? Il giovane Marty McFly (il giovanissimo Michael J. Fox) torna indietro nel tempo con l’aiuto di un eccentrico scienziato, interpretato da Christopher Lloyd, e deve assicurarsi che i suoi genitori si incontrino per garantire il suo futuro.

Commedie, drammi, fantascienza, tante chiavi interpretative per raccontare il concetto del ritorno. Tanti spunti di riflessione, da vedere o – certamente – da rivedere.

Rieccoci, siamo tornati. Abbiamo ripreso in mano il nostro giornale. Troppo pressante il desiderio di tornare a scrivere, di esprimere uno sguardo e di raccontarlo, offrendo una visione. Tante visioni. Quelle degli amici che hanno atteso questo ritorno. Quelle dei nuovi compagni di viaggio, che hanno deciso di abbracciare un sorprendente progetto editoriale.

Non sarà facile stargli dietro. Impegni, questioni e pensieri sono tanti. Ma la vita non è in fondo anche mettersi continuamente alla prova? Dobbiamo solo cercare di farci trovare pronti. Qualunque sia il tipo di interrogatorio, la strada da scegliere, i conti giusti da fare con noi stessi. E se invece non siamo pronti? Sarà l’occasione per scoprirci di più, per individuare altri tasselli della nostra stupefacente complessità, farne tesoro e migliorarci, per ciò che è possibile. Senza affanni o troppe pretese.

Ma ad ogni modo, guai a smarrire la necessità di scovare tracce che pensavamo di aver cancellato per sempre, magari aggrappandoci all’opportunità di una pausa, all’esigenza di disobbedire ai nostri ordini quotidiani, allo stimolo di respirare un sorso nel passato e uno sguardo più lucido sul futuro.

Forse così, quel nostro progetto in sospeso vedrà arrivare quel puzzle che manca.

Questo numero vogliamo dedicarlo al tema del ritorno, cercando anche in questa occasione di offrire scenari e suggestioni da angolature differenti, temi e spazi di confronto suggeriti da sensibilità diverse, eppure così vicine, ed ispirandoci alle verità sottese, alla straordinaria potenza delle parole di Giuseppe Cesaro, alla straordinaria espressività artistica di Nora Lux, alla sconvolgente poesia di Dario Bellezza.

Ma se tutto ciò ha visto davvero luce, il merito è sempre della redazione, con un particolare abbraccio ai vice direttori, Giovanna La Vecchia, Giorgio Gabrielli e Walter Iolandi, e alla nostra redattrice Anna Rita Cardarelli, che per l’ennesima volta hanno saputo mantenere lo spirito di questo giornale, alimentando con il giusto carburante la nostra macchina carica di entusiasmo, passione, consapevolezza.

In questi giorni di respiri, sapori e freddo natalizio, ho osservato volti e momenti di vita. Lo sguardo è finito anche su un balcone, illuminato, mille luci, colorate e lampeggianti. Quello accanto, invece, vuoto, spoglio. Mi ha fatto un po’ di tenerezza, scatenando i miei pensieri, immaginando questa fotografia come una delle tante piccole sintesi dell’esistenza.

Mi capita spesso di pensare alla solitudine. Non alla necessità di isolarsi per un po’ da tutto il resto. Ma a quella che può afferrare le tue corde più inconsce. Succede tante volte, in varie occasioni della nostra avventura umana. Succede di restare soli, di sentirsi soli, di percepire il distacco ed il silenzio davanti al nostro desiderio di esserci, al nostro sogno di sradicare gli argini del cuore.

Il mio pensiero più profondo voglio dedicarlo a chi è stretto in questa morsa. Vorrei offrirgli le mie parole, lo spazio di questo giornale, anche un solo sguardo, anche due chiacchiere scambiate velocemente, perché ogni centimetro di lettera può fare molto.

Auguro ad ogni lettore che passa di qui, di trovare, anche per il nuovo anno, un buon rifornimento di emozioni e suggestioni, le giuste parole, che siano abili alleate dei propri giorni.

Auguro a tutte e a tutti i componenti della redazione, nonché a me stesso, di continuare ad essere, sempre, dei bravi distributori. 

Il film di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese prosegue le sue presentazioni nel tour italiano.

Nel 1996 uno scoop giornalistico rivela all’Italia che il poeta Dario Bellezza è malato di AIDS: la notizia segna l’inizio del suo calvario. Additato per strada come un appestato, il poeta si chiude in casa per difendere la propria privacy e rivendicando il diritto a rivolgersi a cure sperimentali, in mancanza di un vaccino sicuro contro l’HIV.

Detto “il Rimbaud di Monteverde” per il precoce talento poetico e per la fuga da casa, amico di Amelia Rosselli e di Aldo Braibanti, Dario Bellezza è stato inquieto protagonista di una stagione culturale romana di grande splendore, condivisa con Sandro Penna, Alberto Moravia, Elsa Morante, Anna Maria Ortese e molti altri. “Miglior poeta della nuova generazione” secondo Pier Paolo Pasolini, dopo gli anni della Neoavanguardia Dario Bellezza rimette al centro del discorso poetico l’io e le sue passioni, le invettive e le licenze, gli amori e la morte, in una lingua esplicita e barocca.

Omosessuale provocatorio e controverso, lo definivano “il nostro poeta maledetto”. “Semmai benedetto, dalle Muse” replicava lui, col suo spirito polemico e irriverente.

Bellezza, addio, il nuovo film documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, prodotto da Zivago Film e Luce Cinecittà, con Barbara Alberti, Antonella Amendola, Ulisse Benedetti, Franco Cordelli, Ninetto Davoli, Giuseppe Garrera, Maurizio Gregorini, Fiammetta Jori, Renzo Paris, Elio Pecora, Paco Reconti e Nichi Vendola, presentato in prima mondiale al Pesaro Film Festival lo scorso 20 giugno prosegue le presentazioni nelle varie regioni italiane con un grande e positivo riscontro.

In “Bellezza, addio” gli amici Renzo Paris e Franco Cordelli ricordano il poeta dai tempi dell’Università fino agli anni maturi, passando per le performance nella cantina teatrale romana Beat 72 e il glorioso Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano. Ninetto Davoli, Barbara Alberti e Elio Pecora raccontano una Roma in cui si aggiravano ancora i grandi nomi del Novecento italiano, da Gadda a Palazzeschi, insieme a nuovi “mostri sacri”, mentre i materiali di repertorio, con rarità e video inediti, contribuiscono a disegnare un ritratto inedito di Dario Bellezza e dei suoi “vent’anni di felicità”.

Poi gli anni Ottanta cambiano il mondo e, celebrando il trionfo del libero mercato, viene strappata ai poeti l’ultima briciola di funzione sociale. Ma quegli anni portano con sé anche un virus sconosciuto. Nichi Vendola racconta quello che fu un trauma collettivo, mentre Maurizio Gregorini e Fiammetta Jori ricostruiscono gli ultimi mesi di una vita tutta spesa nel “sacerdozio della poesia”.

Eppure, quando il collezionista Giuseppe Garrera mostra l’archivio privato del poeta che, messo all’asta, lo Stato non ha voluto comprare, ci chiediamo: forse non sono più tempi di poesia? “Finché esisteranno poeti,” rispondeva Dario Bellezza, “sarà sempre tempo di poesia”.

“Il primo incontro che ho avuto con Dario è stato attraverso le opere di Rimbaud che lui aveva tradotto in italiano” racconta la regista Carmen Giardina “e che io divoravo insaziabile da adolescente. Il documentario di Dario non è soltanto il ritratto di un poeta ma è anche una riflessione su quello che abbiamo perduto e anche su dov’è oggi la poesia, se ancora ce ne sia bisogno, se ancora abbia un senso, se è ancora viva. Dentro il film c’è tutto questo, infatti il titolo, non casuale, è Bellezza, addio”

“Provocatore, talentuoso, maledetto, sicuramente una personalità fuori misura, Dario Bellezza è stato detestato, ma anche molto amato” prosegue la regista, “Nel film, poeti, scrittori e amici di Dario danno un prezioso e affettuoso contributo non solo con le testimonianze personali, ma anche con un confronto a distanza sullo stato di salute della poesia, permettendo di allargare lo sguardo dal mero racconto biografico ad un orizzonte più ampio.

Ancora una volta, la collaborazione con Pivio e Aldo De Scalzi è stata per me basilare, la colonna sonora è uno dei pilastri su cui è costruita l’architettura del film. Una musica che non si nasconde, anzi, diventa quasi un personaggio in più, spaziando dall’elettronica al lirismo dei brani orchestrali.

Io sono stata un’adolescente affamata di poesia, e oggi? Chissà che Bellezza, addio non spinga qualcuno a leggere i versi di Dario… Di poesia abbiamo sempre bisogno”.

Una rassegna stampa incredibilmente vasta e bella che elogia quest’opera grandiosa che ha voluto fortemente “raccontare” la poesia, una Roma viva culturalmente dove si percepiva ricchezza artistica fatta di teatro, letteratura, arti figurative, musica, una stagione fantastica di cui faceva parte anche Dario Bellezza.

Definitivo “film dalla solida e avvincente drammaturgia che lascia l’amaro in bocca ma che il desiderio di leggere o rileggere Dario Bellezza”, “Non è affatto un film triste, perché la poesia è salvifica, perché è commovente ascoltare Elio Pecora”, “Giardina e Palmese bravissimi a catturare la meravigliosa drammaticità di un uomo che era un insieme di contraddizioni, gioia, dolore, sorrisi, malinconie, amori, frustrazioni”.

Appassionato e coinvolgente Bellezza, addio ci pone davanti a mille questioni, a scandali assurdi da immaginare, a vite rivoluzionarie, ad artisti che della loro voce hanno fatto un sentiero invitandoci tutti a seguirlo, ognuno a modo suo ovviamente. Perché quel momento, quella Roma, quell’insieme di intellettuali straordinari che “solo a nominarli tutti viene il capogiro”, hanno creato un lavoro incredibile che noi tutti oggi abbiamo il terrore che possa andare perduto ed anche a questo pensiero non solo ci gira la testa ma ci tremano anche le gambe.

“L’Italia non ricorda”, diceva lapidario Aldo Braibanti. Fin da quando mi sono imbattuto in questo pauroso giudizio sul nostro Paese ho pensato a un cinema documentario che scavasse tra le pieghe della memoria collettiva” racconta il regista Massimiliano Palmese.

“A questo scopo il mio lavoro di drammaturgo mi è utile. Penso che per raccontare vita e opera di artisti e scrittori occorra trovare o costruire un architrave drammatico, così che un film possa non solo informare ma stupire, scuotere, incidere. E quello a cui mi dedico nell’ideazione dei documentari è sottolineare in quelle vite la tragica frizione tra artista e società, individuo e mondo.

Trattare i poeti al cinema non è però cosa facile: il pericolo del “santino” è dietro l’angolo. Per questo trovo sia meglio lasciar parlare l’artista attraverso i testi e i materiali di repertorio, e scegliere di intervistare quelli che l’hanno conosciuto prima di chi l’ha soltanto studiato. E poi non censuro i lati bruschi dei caratteri, i temperamenti appuntiti, le vite di eccessi e di errori. Solo così, mi pare, una biografia vive e respira, e l’artista torna a parlarci dicendo di sé cose palpitanti e vere.

Oggi che siamo tutti concentrati sul presente, se non sull’attimo, mi dedico a riscoprire figure del passato. Spiriti inquieti che potrebbero risvegliare la memoria di un Paese assonnato.

La poesia, lì dove sono nato, è il luogo dove ritorno grazie al cinema. E dunque da Aldo Braibanti a Dario Bellezza e in futuro a Sandro Penna, la mia ricerca nel cinema documentario mi pare segnata”.

La vedo tutta lì la sorte mia:

unico interesse di giornate

smarrite ormai è dietro di me,

e tanta avanti ne avrei potuto

avere, con dedizione e calma

al quotidiano scorrere del tempo.

Ignoro perché Qualcuno abbia

deciso il contrario!

Poveri, pochi anni

sono rimasti, gelidi, limitati;

li dubito e li annuso sperando

di moltiplicarli e cedo deluso

al rimpianto calunnioso – non so

più poetare. Io so, l’idea lucente

del nulla stasera non aggiunge

allegra compagnia. Oh come è finita

la speranza! Dio non punirci

ancora se siamo vivi.

Da “L’avversario” di Dario Bellezza (1994)

Biografie

Carmen Giardina

Attrice e regista formatasi presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova.

Come attrice è diretta da Cristina Comencini, Marco Risi, Peter Greenaway, Giancarlo Sepe, Umberto Marino, Manetti Bros., Alessandro D’Alatri, Jèrome Salle e molti altri.

È interprete e co-sceneggiatrice di Sleeping around, film di Marco Carniti con l’attore argentino Dario Grandinetti (Parla con lei) e Anna Galiena.

È tra i protagonisti del film Il contagio insieme ad Anna Foglietta e Vinicio Marchioni, regia di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini in concorso alle Giornate degli Autori alla 74° Mostra del Cinema di Venezia. Attualmente sta interpretando l’icona della moda Anna Piaggi nella serie Kaiser Karl prodotta da Gaumont per Disney Plus.

Come regista dirige tre cortometraggi pluripremiati: Turno di notte prodotto da Cinecittà Holding con Leo Gullotta, La grande menzogna con Gea Martire e Luciana De Falco, e Fratelli Minori con Paolo Sassanelli e Alessio Vassallo.

In teatro è ideatrice e regista di God save the punk!, successo di pubblico e critica che viene ripreso per tre stagioni, e per AMREF collabora con il musicista Giovanni Lo Cascio alla realizzazione di Juakali Drummers, spettacolo con venti musicisti ex ragazzi di strada degli slum di Nairobi, che debutta ad Umbria Jazz.

Nel 2020 è autrice e regista con Massimiliano Palmese del film documentario Il caso Braibanti, vincitore di numerosi premi, tra cui il Premio del Pubblico al Pesaro Film Festival, il Premio Giuria Studenti al Salina Doc Fest, quindi il Nastro d’Argento 2021 come Miglior Docufiction.

Massimiliano Palmese

Poeta, narratore, regista, ha pubblicato i romanzi L’amante proibita (2006, finalista Premio Strega, tradotto in Germania e Spagna), Pop life (2009), Il peccato originale (Rizzoli, 2021). Lavora al quarto romanzo.

Ha scritto le raccolte poetiche Lettere di Ganimede, La parola tonica e Questa disperazione felice, vincendo i premi Eugenio Montale e Sandro Penna.

Per il teatro ha scritto sia testi originali (Come treni in paesaggi nuovi, Fast Love, Il figliastro, Il caso Braibanti), che adattamenti (La primavera romana della signora Stone, Il carteggio Aspern, Pierre e Jean, L’arte di essere povero) e traduzioni (Sogno di una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta): testi interpretati, tra gli altri, da Claudio Santamaria, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli.

Ha tradotto i Sonetti di William Shakespeare (Tutte le opere vol. IV, Bompiani 2019) apparsi sulle principali riviste e blog letterari italiani (Poesia, Nazione indiana, Interno Poesia). A dicembre 2023 la sua traduzione dei Sonetti sarà ripubblicata da Elliot nella collana di poesia diretta da Giorgio Manacorda. E’ ideatore, coautore e coregista de Il caso Braibanti (Premio del pubblico al Pesaro Film Festival, Nastro d’argento 2021 miglior docufiction). Sta scrivendo il documentario Vita di Sandro Penna (2024).

L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.

Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.


Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces. Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco. 

Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.

Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre. 

Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.

Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.

L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.

Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.

Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.

Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.

Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia. 

Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.

La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.

Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.

A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.

Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.

Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando. 

Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.

Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.

L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.

A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.

Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.

In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.

Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria.  Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.

In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.

Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.

Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.

Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane. 

Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.

L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.

Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.

L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.

Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.

Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.

Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.

La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.

In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).

Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.

Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.

Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.

Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.

Referencias

Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.

Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.

Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.

Presentazione di Giovanna La Vecchia

Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale già nel 2020 in occasione di un’intervista in cui ci aveva raccontato le “mille e una vita” di un uomo “Obelix” caduto nel paiolo della pozione magica delle parole. Giuseppe Cesaro: la musica, la bellezza, la famiglia, le parole, la forza. Fu un incontro inconsueto ed informale con un grande protagonista del nostro tempo: “Siamo noi l’anima delle cose. La fragilità è bellezza. Ed è infinitamente più ricca della solidità. Che, spesso, è pura apparenza”.

Giuseppe Cesaro (Sestri Levante, 12 marzo 1961) ha cominciato a scrivere professionalmente alla fine degli anni ’80. Giornalista, scrittore, ghostwriter, curatore, editor e traduttore, si occupa di musica, politica, società, narrativa, saggistica. Negli ultimi vent’anni, ha pubblicato 50 titoli – tra racconti, romanzi, memoir, graphic novel, saggi, biografie, traduzioni e sceneggiature – per alcuni tra i più importanti editori nazionali (Bompiani, Mondadori, La Nave di Teseo, Skira, Rizzoli). Dal 1998 è consulente ai testi di Claudio Baglioni. Ha firmato due romanzi (“Indifesa” – 2018, e “31 Aprile. Il male non muore mai” – 2021, entrambi editi da La Nave di Teseo) e un graphic novel (“Michelangelo. La parete perfetta” – 2017, edito da Round Robin) ed è co-autore di due libri inchiesta: “Ombre sul web” (2019) e “La fabbrica fantasma” (2020), pubblicati da Lastaria Edizioni. Lo scorso settembre, per Round Robin, ha pubblicato “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”: il metodo di lavoro messo a punto in quasi quarant’anni di scrittura.

Per il numero di Dicembre di Condi-Visioni ha voluto “condividere” con noi il suo pensiero sull’attuale momento storico e per questo gli dobbiamo un ringraziamento speciale. Giuseppe Cesaro è senza alcun dubbio una delle personalità più interessanti e poliedriche del nostro paese, leggerlo “crea dipendenza” perché ci obbliga ad una riflessione quanto mai necessaria. Certezza e speranza di un futuro possibile sono solo nelle nostre azioni, perché se è vero che “non dobbiamo aprire quella porta”, ricordiamoci che di porta non ce n’è mai una sola.

“A volte ritornano: non aprite quella porta!” di Giuseppe Cesaro

“A volte ritornano. E, di solito, sono incubi. E il ritorno che stiamo vivendo, non fa eccezione. Purtroppo. Del resto, quasi mai il passato è migliore del presente. Basta un’occhiata fugace a un (serio) libro di Storia per rendersene conto. Né è detto che un buon passato possa diventare anche un buon presente. Figurarsi, dunque, se può diventarlo un passato pessimo. Sto parlando del Fascismo, evidentemente. Il giudizio sul quale è totalmente negativo. E non è impugnabile, dal momento che è passato in giudicato da un bel pezzo. Non parlo del mio giudizio, che conta poco. Parlo del giudizio della Storia. La Storia vera, autorevole, documentata, meditata. Non le favolette degli imbonitori mediatici che cercano di spacciare per verità le bugie, per progresso il regresso, per libertà l’oppressione. Al contrario di ciò che sosteneva Novalis: non tutto, in lontananza, diventa poesia. L’errore resta errore. Il crimine, crimine. L’orrore, orrore.

La nostalgia, però, è un sentimento-rifugio che, ahimè, fa sempre presa. Soprattutto quando – come accade oggi – il presente fa paura. Una paura indotta, quasi sempre esagerata e ingiustificata. È allora che l’idea di un ritorno al passato rassicura, come l’abbraccio amorevole di un’amorevole madre o il tepore di un focolare domestico al quale tornare, per sentirsi, finalmente, al sicuro.

E, così, invece di guardare avanti, guardiamo indietro, dimenticando, appunto, che il passato non è migliore del presente. Eppure, la propaganda ci sta convincendo del contrario. Come? Da una parte, alimentando le paure, vecchie e nuove, dell’opinione pubblica (quella che Umberto Eco chiama “la costruzione del nemico”); dall’altra, fornendo risposte tanto facili, veloci e capaci di incantare, quanto false, folli e antistoriche.

Come una mamma che, accarezzandoci, sussurra: “dormi tranquillo: ci sono io, veglierò io su di te!”, la politica vuole che chiudiamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte e ci addormentiamo sereni. Non ci dobbiamo preoccupare di niente. Spegnerà la luce, chiuderà la porta e penserà a tutto lei. Riuscite a immaginare qualcosa di più rassicurante e tranquillizzante?

Sono queste le ragioni per le quali, ancora una volta, ci ritroviamo alle soglie di una svolta autoritaria. Questo, non altro, è il premierato. Altro che “democrazia decidente”. La nostra democrazia è “decedente”. In fin di vita, cioè. Vogliamo davvero staccarle la spina? Come mai ci ritroviamo di nuovo a questo punto? Non ci è bastata la catastrofe di cento anni fa? No, evidentemente.

Per capire a cosa stiamo andando incontro, dovremmo, innanzitutto, smettere di chiamare “politica” qualcosa che politica non è più, da decenni. Nel nostro Paese, la politica è morta 45 anni fa: 16 marzo 1978, quando Aldo Moro è stato rapito e i cinque agenti della sua scorta, trucidati. Quanto accadde 55 giorni dopo, fu solo il colpo di grazia. Morte violenta, dunque, non naturale. La politica andava tolta di mezzo e venne tolta di mezzo. Fine dei giochi.

Tutto quello che è venuto dopo l’omicidio Moro – andreottismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, grillismo, contismo, melonismo, per ricordare solo i passaggi più significativi – non è politica: è occupazione, spartizione, gestione e mantenimento del potere.

La politica è stata tolta di mezzo perché il Potere – che non è la politica ma la forza che condiziona ogni politica – non vuole rotture di scatole. E la politica – se è vera politica – è un’immane rottura di scatole. Perché fa domande inopportune (democrazia, diritti, giustizia, libertà, pace…), accampa pretese assurde e costose (istruzione e sanità gratuite, salari dignitosi, pensioni…), è lenta a decidere (confronto con le parti sociali, bicameralismo paritario…).

Contrariamente a ciò che crediamo, dunque:

  1. la politica non detiene il Potere. È esattamente il contrario: il Potere detiene la politica;
  2. gli “uomini politici” non esercitano il potere: sono strumenti nelle mani del Potere. “Utili idioti” che – come marionette ventriloque – fanno e dicono tutto ciò che il Potere comanda loro di fare e dire;
  3. il Potere non ha un nome e un cognome e nemmeno una faccia.È una forza – anonima, invisibile, onnipresente – che ha un potere di seduzione così forte, che è quasi impossibile resisterle. Si impossessa della coscienza degli uomini, fino a renderli schiavi. In cambio, offre loro l’illusione del comando (“Cumannari è megghiu ri futtiri” – “Comandare è meglio di fottere” – recita la millenaria saggezza siciliana), soldi, sesso, droghe, lusso, glamour, fama…

“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

Gesù resistette alle tentazioni. La maggior parte degli esseri umani, purtroppo, no. Il Potere lo sa: arruola coloro i quali cedono alle sue seduzioni e fa in modo di mettere gli altri in condizioni di non nuocere.

Il Potere ha solo quattro obiettivi: ottenere, conservare, incrementare e perpetuare sé stesso. E, per raggiungere questi obiettivi è disposto a qualunque cosa. Con “le buone”: favori, prebende, corruzione, morale e materiale. O con “le cattive”: ricatto, violenza psicologica e fisica, demolizione della credibilità e dell’immagine pubblica degli avversari o loro eliminazione.

Per parafrasare una celebre favola dell’antichità, il Potere è lo scorpione, il popolo è la rana, e la classe dirigente (che, personalmente, preferisco chiamare “digerente”), il “coro” che fa di tutto per convincere la rana a fidarsi dello scorpione, caricarselo sulle spalle e lasciarsi indicare da lui la rotta giusta per attraversare il fiume. 

Ma le vere domande sono:

  • perché preferiamo chiudere gli occhi, girarci dall’altra parte e dormire, lasciando che pensi a tutto “mammina”, piuttosto che tenere gli occhi ben aperti e assumerci la responsabilità delle scelte importanti che riguardano la nostra vita?;
  • perché, anche se sappiamo benissimo che lo “scorpione” ci ucciderà (è la sua natura!), continuiamo a dare retta al “coro”, e crediamo che lo scorpione ci indicherà la rotta giusta per arrivare, sani e salvi, sull’altra sponda del “fiume”?

La risposta è semplice. Semplice ma devastante: siamo codardi e profondamente bugiardi. Dichiariamo di amare e desiderare la libertà e, invece, non la vogliamo affatto, perché abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità.

Del resto, che la natura umana non fosse proprio perfetta, lo sapeva fin troppo bene colui il quale dettò a Mosè le Tavole della Legge. Non è certo un caso, infatti, se Dio comanda all’uomo di Non uccidere, Non commettere adulterio, Non rubare, Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo, Non desiderare la moglie del tuo prossimo, Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo. Se avesse saputo che l’uomo non aveva bisogno di tali raccomandazioni, il Padre Eterno non avrebbe certo perso tempo a dargliele. Evidentemente, invece, conosceva così bene le sue creature che sapeva di doverlo fare.

E assai bene conosceva gli uomini anche Gesù, quando decise di introdurre il comandamento che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché sentì il bisogno di farlo? Perché sapeva benissimo che gli esseri umani sanno amare solo sé stessi e che amare l’altro è contro natura. Del resto, se amare l’altro fosse qualcosa di naturale, non ci sarebbe stato certo bisogno di un comandamento che impone di farlo!

Ma la natura umana è ben nota anche a noi umani. Da sempre. Non sbagliava, ad esempio, Machiavelli quando, quasi cinquecento anni fa, scriveva che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Questo siamo. Ed è esattamente su questo che conta il Potere.

Né sbagliava Étienne de La Boétie quando – pochi anni dopo la pubblicazione de “Il Principe” – nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”, si chiedeva come fosse possibile che “tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se quella che essi gli danno; che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo”. E tutto questo non perché gli uomini siano “costretti da una forza più grande”, ma perché “incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”. “Son dunque – scriveva ancora La Boétie – gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi”. È il popolo, dunque, che “acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. Evidentemente, “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

Analisi condivisa anche da una delle coscienze più alte e lucide della storia dell’umanità, Fëdor M. Dostoevskij. A fine Ottocento, in uno dei capitoli de “I fratelli Karamazov” noto come “La leggenda del grande inquisitore”, Dostoevskij è piuttosto chiaro riguardo alla nostra fobia della libertà: “Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”; “nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”; “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”. E, ancora: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

Su tutte queste cose conta il Potere, che conosce la natura umana almeno quanto Dio, Gesù, Machiavelli, La Boétie e Dostoevskij.

“Governabilità”, “stabilità”, “monocameralismo”, “premio di maggioranza”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, “democrazia decidente” sono, dunque, tutte parole d’ordine-truffa. Le marionette ventriloque vogliono farci credere che, più rinunceremo a quel po’ di potere di decisione che ci è rimasto, più potremo decidere del nostro futuro. Non sembra anche a voi una follia? Eppure, ancora una volta, stiamo per dare retta al “coro” e caricarci sulle spalle lo “scorpione”, perché sia lui a indicarci la rotta giusta per attraversare il “fiume”.

La follia più grande di tutte, dal momento che, come tutti sanno, lo scorpione ci ucciderà. E quando, in punto di morte, gli chiederemo: “Perché?”, ci risponderà: “È la mia natura!”. E solo allora ci renderemo conto di quanto siamo stati stupidi. Tornare indietro, però, non sarà più possibile.

Cambiare è un privilegio molto recente. I popoli del passato non ne godevano. Perché noi vogliamo rinunciarci? Perché siamo disposti ad accettare che chi sta al governo ci resti il più a lungo possibile? Chi avvantaggia questa “stabilità”? Noi o lui? Prima di rispondere, riflettiamo sul monito di Bobbio: “meglio cinquanta governi in cinquant’anni che uno solo in venti”.

Non solo. Se, come diceva Gaber, libertà è partecipazione: è evidente che, meno partecipiamo alle scelte che riguardano la nostra vita, meno siamo liberi. Pensiamoci ogni volta che ci chiedono di dare a loro il potere di scegliere e decidere per noi.

Se coloro i quali preferiscono rinunciare alla loro libertà lo facessero, senza pretendere che anche tutti gli altri facciano la stessa cosa, il problema sarebbe grave ma limitato, poiché riguarderebbe soltanto coloro i quali si voglio rendere servi. Dato, però, che i servi vogliono che anche tutti gli altri diventino servi come loro, il problema diventa molto infinitamente più grande e più grave, poiché il servilismo di pochi finirà col rendere servi anche tutti quelli che non vogliono diventare servi ma rimanere liberi. E la democrazia avrà fatto harakiri.

L’ho detto: a volte ritornano. E, di solito, sono incubi. I peggiori. Meditate, gente, meditate. E, soprattutto, non aprite quella porta!” 

A oltre sessanta anni dalla loro prima uscita discografica – 5 ottobre 1962 con Love Me Do – i Beatles rappresentano ancora “la musica”. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, un centro portuale piuttosto misconosciuto fino a quel momento, hanno rivoluzionato, con le canzoni che hanno scritto e il modo di presentarsi, non soltanto il settore delle sette note ma in generale tutta la società. Non c’è aspetto della vita post-bellica, dalla moda al look, che non sia stato influenzato dal gruppo di Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Ma non solo. I Beatles – così come negli Stati Uniti prima di loro aveva fatto Elvis Presley – hanno portato alla ribalta realtà temi come la spiritualità (il viaggio in India del ’66), l’attenzione ai temi sociali (il rifiuto di esibirsi per un pubblico segregato nel sud razzista degli Usa l’anno precedente) e innumerevoli altri settori della vita contemporanea. 

Oggi, a oltre sessanta anni dalla prima volta, i Beatles sono “tornati” con un brano – Now and Then – scritto da John poco prima della sua morte e che la sua vedova Yoko Ono ha affidato a Paul perché lo rendesse un “ritorno” in grande stile. Operazione riuscita, visto che i “Fab Four” sono di nuovo in testa alla classifica dopo tanti decenni. E, curiosamente, a fargli compagnia nella top ten americana ci sono i Rolling Stones, a dimostrazione che certa musica è davvero immortale. 

Paolo Borgognone, giornalista e scrittore, autore per Diarkos Editore delle biografie “Freddie Mercury. The show must go on”, “Io Elvis. La parabola immortale di The King”, “Martin Luther King Jr. I Have a Dream”, ha da poco pubblicato “Beatles. Il mito dei Fab Four”.  Nato nel 1962 coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. Ha collaborato con importanti testate nazionali e realizzato diversi lavori di “ghost writing” ed editing, oltre ad essere impiegato come addetto stampa per un ento pubblico.

Se Elvis, come è stato detto, ha rappresentato il “big bang” della cultura giovanile, i Beatles hanno a loro volta assunto lo stesso significato che nella scienza viene dato alla comparsa della vita. Dal momento in cui è esplosa la Beatlesmania – 1964 – i ragazzi di tutto il mondo hanno trovato un modo per esprimersi. Da qui nascono i generi musicali che ancora oggi si ascoltano e tutti quei movimenti che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’60 con temi come i diritti delle minoranze, l’opposizione alla guerra, il desiderio di libertà e uguaglianza che sono ancora oggi l’urgenza che anima milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. 

“Il libro che ho scritto parte proprio dalle radici, da quella città che tanti conoscono per nome ma che pochi saprebbero trovare su una cartina muta e che ancora meno hanno avuto la fortuna di poter visitare” Borgognone ci spiega il percorso di questa nuova biografia sui Beatles. “Ho ricostruito la storia di Liverpool, prendendo come momento chiave quello dei terribili bombardamenti a cui fu sottoposta durante la Seconda guerra mondiale. Che è proprio il momento in cui i quattro ragazzi vedono la luce. Ho poi cercato di raccontare la storia delle loro famiglie, il retroterra culturale, sociale, politico, di un Paese che stava riemergendo dal conflitto e che, dopo anni di sofferenza e di “grigio” cercava proprio un modo per rinascere. L’esplosione di colori, suoni, mode rappresentata dalla “swinging London” di quegli anni è al tempo stesso causa ed effetto del successo dei Beatles. Ho poi ripercorso le tappe della loro carriera: dal primo incontro tra Lennon e McCartney – 6 ottobre 1957 – fino alla residenza ad Amburgo, apprendistato durissimo e formativo. Poi, a partire dal 1962, un capitolo per ogni anno. Con l’eccezione del 1964, quando ci fu lo sbarco in America, talmente ricco di storie da aver richiesto un doppio capitolo. Un altro l’ho dedicato al breve, ma significativo, tour in Italia del 1965. Solo pochi concerti ma l’occasione giusta per raccontare anche un poco di questo Paese, desumendone atteggiamenti e opinioni dal modo in cui i “Fab Four” vennero accolti, male per la precisione, con un atteggiamento quasi canzonatorio e che cercava di sminuirne le capacità. Si pensi che lo stesso anno delle date italiane, spesso con poco pubblico ad assistere, i Beatles si esibirono allo Shea Stadium di New York per 56mila spettatori! Il testo arriva fino al 1970, anno dello scioglimento della band e della pubblicazione dell’ultimo LP per poi chiudersi con un capitolo finale che racconta i tentativi fatti negli anni di riunire il gruppo. Tentativi che, per vari motivi ma non certo per mancanza di volontà da parte dei protagonisti, non andarono in porto e furono poi stroncati dall’omicidio di Lennon a New York l’8 dicembre 1980”. 

Abbiamo incontrato Paolo Borgognone per i lettori di Condi-Visioni.

Un altro libro sui Beatles? Perché? 

“ Perché i Beatles “sono” la musica. Quello che hanno portato nel settore delle sette note non è finito certo con lo scioglimento del gruppo nel 1970. Ci troviamo davanti a un fenomeno di costume che ritorna continuamente e che sta continuando a influenzare la società contemporanea. Proprio pochi giorni fa, accendendo la tv, ho visto una pubblicità con una loro canzone come sottofondo. Segno tangibile che il loro sound, le mode che hanno lanciato, i messaggi che hanno portato sono attualissimi e ascoltati ancora oggi”. 

Ci sono ancora cose che non sappiamo? 

“Abbiamo appena scoperta una nuova canzone. Con una storia affascinante dietro. Certo, le biografie sui Beatles si sprecano, forse sono gli artisti su cui si è scritto di più e quindi è impossibile trovare la notizia inedita. Ma il processo di avvicinamento alla vicenda personale, sociale e musicale del gruppo si presta a infinite riletture e questa vuole esserne una dedicata in particolare ai ragazzi di oggi, quelli che non 1970 non erano nati e che pure si interessano alla storia della più grande band di sempre”. 

Che tipo di studio ha fatto per realizzare questo libro? 

“Il primo passo è stato riascoltare tutto. Dai primordi, dai “Beatles prima dei Beatles” fino all’ultimo disco, oltre naturalmente alle tappe fondamentali della carriera da solista di ognuno di loro. Quindi ho ripassato le biografie che ne hanno tracciato la storia, a cominciare dalla monumentale “Anthology” che racchiude davvero tutto o quasi lo “scibile” sul gruppo. Poi, naturalmente, ho cercato di limare le differenze che inevitabilmente compaiono tra i vari testi, provando a uniformare le date soprattutto. Per la prima parte, poi, quella dedicata alla città mi sono affidato anche ai ricordi. Ho avuto il privilegio e la fortuna di visitare Liverpool in uno dei periodi più difficili della sua storia, durante il governo della feroce signora Thatcher. Rammento una città ferita, offesa, trascurata, ma viva e piena di musica. Impossibile non amarla…”.  

C’è un punto di vista differente o aspetti nuovi che non erano stati presi in considerazione in precedenza? 

“Un mio carissimo amico, giornalista e scrittore, fan dei Beatles da sempre, nel presentare il volume ha detto: “Io pensavo di sapere tutto sul gruppo, ma questo libro mi ha fatto scoprire aspetti nuovi anche per me”. Ho cercato, in apertura, di situare i “Fab Four” all’interno del periodo storico nel quale sono nati, ovvero durante gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale e anche nel tessuto geografico della loro città di origine. Un posto di cui tanti hanno sentito parlare ma che, in realtà, pochissimi conoscono veramente. E che – invece – ha fatto da sfondo alla loro crescita personale e musicale, diventando protagonista delle vicende che raccontiamo”.  

Questo ritorno secondo lei è stata una pura operazione commerciale o una volontà precisa di affermare “noi siamo ancora qui”? 

“Un’operazione commerciale non direi proprio. Nessuno dei protagonisti ha certo bisogno di far uscire un brano inedito per mettere insieme il pranzo con la cena. Credo fosse giusto, a questo punto, chiudere il cerchio di questa esperienza. Non a caso, il singolo è stato pubblicato insieme a una riedizione di “Love Me Do”, il primo disco – per noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle un “quarantacinque giri” – con il quale era iniziata l’avventura in quell’ormai lontano ottobre 1962”. 

Paul McCartney e Yoko Ono hanno trovato un canale di comunicazione per realizzare insieme ancora dei progetti?

“In realtà i rapporti si sono, per fortuna, molto semplificati con gli anni. Yoko – da tanti considerata una “nemica” del gruppo, idea che non mi trova d’accordo – ha avuto la sensibilità di lasciare a McCartney e Starr l’onore e l’onere di regalarci questa perla. Il lavoro che è stato fatto sulla traccia originale di Lennon è straordinario: alla fine abbiamo una canzone indubitabilmente dei Beatles ma che non risente degli anni che sono passati. Anzi. E il successo discografico – il primo posto nelle classifiche inglesi e americane – testimonia che la scelta fatta è stata giusta”. 

Quanto serve oggi e soprattutto ai giovani “ritornare” ai Beatles?

“Conoscere questa musica – cui accosterei quella di Elvis Presley, un altro titano del settore che ha tracciato la via per innumerevoli altri artisti – significa fare il primo passo per capire tutto quello che è venuto dopo. E anche quello che esiste oggi. Il panorama musicale è stato così fortemente influenzato dai Beatles che ignorandoli si perde la possibilità di comprendere il fenomeno anche nella sua contemporaneità”. 

 Secondo lei qual è il messaggio più importante che hanno dato i Beatles?

“Ne hanno lasciati tanti. Messaggi di amore, pace, voglia di vivere, rispetto per gli altri, anche di impegno per combattere le ingiustizie quando era necessario. Nessuno di questi argomenti può dirsi risolto, quindi le parole e i gesti che i Fab Four hanno tramandato ai posteri sono ancora estremamente attuali. Se proprio dovessi scegliere una frase a simboleggiare il loro lascito, utilizzerei, quella che chiude “The End”, l’ultimo brano che hanno registrato tutti e quattro insieme, pubblicato sull’album “Abbey Road”: “In the end / the love you take/ is equal to the love you make” …” 

 Come sarebbero andate le cose se John Lennon non fosse stato ucciso? 

“Il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere! Esagerazioni a parte, è molto possibile che avremmo potuto avere l’occasione di rivedere i Fab Four esibirsi insieme, come in fondo loro stessi avrebbero voluto fare. Penso a che chiusura sarebbe stata per un evento – per esempio – come il Live Aid del 1985 se, alla fine, fossero comparsi loro quattro e avessero fatto un ritorno in grande stile mettendo insieme cinque o sei delle loro canzoni più celebri: “Yesterday”, “Let It Be”, “Penny Lane”, “Strawberry Fields” “Something”… e così via. Il più grande spettacolo di sempre. Purtroppo l’instabilità mentale di un fanatico religioso ci ha privati di tutto questo”.